Cultura

Prada ricicla le memorie di Adriano (e di Costantino, di Federico II, di Lorenzo il Magnifico…)

                      “Tutto è pronto: l’aquila incaricata di recare agli dèi l’anima dell’imperatore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor tiepide”. Così nel 138 d. C. l’imperatore Adriano si appresta a vivere i suoi ultimi minuti terreni secondo Marguerite Yourcenar (cito dalla penultima pagina, 275, della ristampa italiana del 1988 per Einaudi del testo di Memorie di Adriano). Tra il 135 e il 139 d. C., in un’area di Roma oggi centrale, viene eretto il mausoleo nel quale Adriano volle che fossero tumulate le sue ceneri, quelle di sua moglie Sabina e del primo figlio adottivo, Lucio Elio. Il mausoleo era circondato da un giardino, il paradeisos, popolato da statue di animali, tra cui due pavoni di bronzo dorato che dovevano sorprendere, con la loro meravigliosa fattura realistica, chi si avvicinava al monumento pagano poi convertito nella fortezza cristiana divenuta residenza di papi e ancora oggi nota come Castel Sant’Angelo. I pavoni erano un soggetto prediletto dall’arte funeraria romana: sacri a Giunone, erano simbolo di immortalità e alludevano all’apoteosi, soprattutto di imperatrici. Con la doratura ancora parzialmente conservata, la raffinatissima resa del piumaggio e dell’atteggiamento, uno dei due pavoni ha viaggiato dai Musei Vaticani (dove è conservato) fino al Podium della Fondazione Prada a Milano, dove sorprende, altero, i visitatori che entrano nel primo dei due spazi espositivi allestiti da Rem Khoolaas per la mostra Recycling Beauty (sul pavone si veda la scheda 6 di Claudia Valeri in catalogo, pp. 121-123). Al centro del Podium si può girare attorno a una scultura monumentale con un leone

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Cultura

Una relazione per un’accademica: Tommaso Ragno racconta a Floriana Conte le metamorfosi di un attore

    Il mito del selvaggio da civilizzare attraverso l’educazione occidentale si afferma nella storia dell’arte europea almeno dal Cinquecento ed entra nella nostra cultura visiva anche grazie all’uomo malato di ipertricosi più famoso della sua epoca, Pedro Gonzalez, nato nel 1537 a Tenerife. A dieci anni Pedro viene donato a Enrico II di Francia come meravigliosa mostruosità vivente. A corte Pedro impara le buone maniere e diventa un uomo colto perché insieme a varie discipline umanistiche studia anche il latino. In Francia Pedro vive per 44 anni usando per concessione regale l’appellativo “don”. Dopo il matrimonio nel 1573 con una donna bella e sana, Catherine, genera sei figli, quattro dei quali affetti da ipertricosi come il padre e come il padre celebri per la loro involontaria mostruosità. Durante un viaggio in Italia con la famiglia tra 1580 e 1590, Pedro soggiorna alla corte di Margherita di Parma, si stabilisce nella Rocca Farnese a Capodimonte e muore nel 1618.         La memoria di alcuni dei figli di Pedro è tramandata da ritratti eseguiti da grandi artisti: di Antonietta resta un ritratto di Lavinia Fontana; di Arrigo un ritratto idealizzato realizzato da Agostino Carracci sulla cui genesi vale la pena di soffermarsi perché illustra le condizioni di vita migliori a cui queste persone potevano aspirare, se venivano intercettate dai ricchi e potenti. Arrigo subisce la stessa sorte del padre e viene comprato dai Farnese per guardarlo dilettandosi, tenendolo nella particolare compagnia formata da altri disabili e dagli animali di casa. Agostino Carracci (mentre sta lavorando con il fratello Annibale alla grandiosa impresa della Galleria Farnese) ritrae insieme Arrigo Gonzalez, il matto, il nano, gli animali esotici, tra i quali una scimmia, e quelli da compagnia.         L’ipertricosi e i modi da signore rendono i Gonzalez

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