Lo “specchio nel quale chi ne ha il coraggio si può guardare”:

A proposito di un’autobiografia d’artista (recensione di: Sonia Bergamasco, Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice, Einaudi 2023). Con alcune penetranti analisi di alcuni guasti del sistema scolastico italiano

Sonia Bergamasco davanti a L’ultima cena di Leonardo in Il miracolo della cena, reading da scritti di Fernanda Wittgens, Milano, Museo del Cenacolo vinciano (refettorio della chiesa di Santa Maria delle Grazie), 25 settembre 2018. Regia: Marco Rampoldi. Produzione: Piccolo Teatro di Milano, in collaborazione con il Museo del Cenacolo Vinciano – Polo Museale Regionale della Lombardia – MIBAC

 

Comincio raccontando una storia che mi serve da apologo. Riguarda fatti accaduti veramente che sostengono gli argomenti di queste pagine, in cui parlerò molto di infanzia, di istruzione, del corpo e dell’importanza di allenare la memoria.

Nel 1475 Lorenzo il Magnifico affidò l’educazione del suo primogenito ed erede politico, Piero, al giovane insegnante Agnolo Poliziano, rimanendo talmente soddisfatto dei risultati da affidargli tre anni dopo anche il secondogenito treenne Giovanni, destinato alla carriera ecclesiastica. Il ruolo del maestro Poliziano in casa Medici fu di tale rilievo che egli venne effigiato in primo piano insieme ai suoi tre giovanissimi allievi nella lunetta affrescata da Domenico Ghirlandaio nella cappella della famiglia del banchiere Sassetti (legato ai Medici), nella chiesa di Santa Trinita a Firenze.

 

Domenico Ghirlandaio, Conferma della regola francescana, 1482-1485, affresco, particolare con Agnolo Poliziano e i figli di Lorenzo il Magnifico, Firenze, Cappella Sassetti, chiesa di Santa Trinità

 

Il magistero di Poliziano era fondato sulle linee pedagogiche dell’epoca, che prevedevano di alternare all’esercizio fisico quello mnemonico: i giovani Medici venivano addestrati a leggere e a imparare a memoria i classici per allenarsi a una pronuncia corretta e a una buona dizione; imparavano e ripetevano ad alta voce le regole della grammatica, comprensive di declinazioni e coniugazioni; imparavano a memoria sentenze morali attinte dagli scrittori classici greci e latini che sarebbero dovute entrare a far parte anche del loro sistema di pensiero quotidiano; poi i ragazzini leggevano e interpretavano le Favole di Esopo, l’Achilleide di Stazio, l’Eneide di Virgilio.

A questo metodo di insegnamento, fondato su memoria e ripetizione, Poliziano affiancò una scelta innovativa che aveva sperimentato su sé stesso: fece imparare contemporaneamente ai piccoli allievi il greco e il latino, usando una grammatica di Teodoro Gaza e interrogandoli tutti i giorni. Questo metodo diede buoni frutti e incoraggiò addirittura il piccolo Piero in direzione di una predilezione della lingua greca a discapito di quella latina. Se il padre di Piero e di Giovanni era pago dell’insegnamento impartito ai figli, non fu dello stesso parere la madre, Clarice Orsini, che ritenne inadeguato all’educazione dei bambini un maestro che prediligeva la cultura classica e profana trascurando di insegnare loro a sillabare sull’abbecedario medievale, nel quale l’alfabeto era seguito dal Paternoster.

Finì che Clarice licenziò Poliziano. Solo nell’estate 1480 Poliziano fu richiamato come precettore e gli venne affiancato un collega. Grazie all’insegnamento di Poliziano sostenuto dalla volontà paterna, i fratelli Piero e Giovanni de’ Medici maturarono un forte interesse per la lettura e per i libri: Piero proseguì fino a una certa fase della sua giovinezza il progetto di Lorenzo di rendere la biblioteca privata dei Medici un fondo esauriente per fare ricerca; dopo la morte del padre, Piero si rivelò un cattivo politico, ebbe sempre meno tempo per i libri e la sua breve esistenza di esule scacciato da Firenze si concluse tragicamente nel 1503: annegò su una nave carica di uomini e di artiglieria da guerra. Giovanni, che al momento di essere affidato a tre anni a Poliziano era un bambino molto ghiotto di dolci, felice di andare “tutto il dì sul cavallino” (così lo descrive al padre Lorenzo il neoprecettore Poliziano), diventò papa Leone X nel 1513, restò sempre un grande amante di manoscritti e codici miniati e diede incremento al recupero di fondi confiscati dalla biblioteca medicea. Entrambi i fratelli ricevettero dal padre Lorenzo, e acquisirono essi stessi, libri manoscritti e a stampa poi confluiti anche, attraverso passaggi vari, nella Biblioteca Laurenziana (http://mss.bmlonline.it/).

Il metodo con il quale Poliziano ha educato due lettori nati in una famiglia privilegiata e passati alla storia per attività professionali così diverse non è, tuttavia, poi così distante da quello che chi ha la mia età e chi è più anziano di me si è visto impartire per imparare il greco e il latino ed essere addestrato alla lettura di libri se ha frequentato il liceo classico. Questo metodo, basato in primo luogo sull’esercizio della memoria e della ripetizione, si rivelava utile per tutte le altre attività scolastiche e nella vita da adulti, se gli insegnanti non lo imponevano con piglio eccessivamente militare e usando libri poco coinvolgenti. Il metodo della ripetizione di nozioni e della memorizzazione è stato progressivamente spazzato via dagli smartphone che hanno compiuto la rivoluzione di pensare al posto di chi li usa; il resto dello scempio spetta alle varie riforme della scuola, che anno dopo anno hanno sottratto agli insegnanti capaci la possibilità di lavorare in classe su ciò che davvero serve agli studenti. Gli effetti sono noti: molta parte degli italiani è afflitta da un analfabetismo di ritorno, l’abitudine a concentrarsi per leggere testi lunghi è quasi scomparsa e nessuno conosce più a memoria testi poetici fondanti della nostra cultura.

A ben guardare, l’unica attività nella quale l’esercizio della lettura ad alta voce e della memoria non siano stati sviliti ed eliminati è quella della formazione, scolastica e poi continua, della professione della recitazione. Mi sembra infatti che solo per gli attori la memoria sia ancora fondamentale: è necessaria per lavorare ed è dunque coltivata per il suo giusto valore. Ho pensato a tutte queste cose mentre leggevo la bella autobiografia professionale di una delle più luminose attrici italiane in attività, Sonia Bergamasco, Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice, uscito alla fine di marzo nella collana “Gli struzzi” di Einaudi con il nuovo progetto grafico di Ugo Nespolo. Il libro è originale fin dalla copertina e dai risvolti di essa: Bergamasco è un’artista famosa e una donna intensamente bella, eppure non indulge sulla sua avvenenza fisica per attirare lettori: sulla prima di copertina c’è una grafica di sapore vagamente matissiano in cui si vedono, su fondo bianco, due sagome stilizzate femminili speculari, nude e sedute, una blu e una bordeaux; nel risvolto della quarta di copertina c’è un ritratto grafico in bianco e nero del bel volto dell’autrice, non una sua fotografia.

 

 

 

La copertina e il risvolto della quarta di copertina di Sonia Bergamasco, Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice, Torino, Einaudi, 2023.

 

 

 

 

 

 

Bergamasco è un’artista scrittrice, capace quando parla in pubblico e quando scrive di usare una lingua complessa e articolata, spesso debitrice delle ardite scorciatoie del pensiero permesse dalla familiarità con la poesia: infatti è anche autrice di testi poetici pubblicati in Il quaderno (uscito nel 2022 per La Nave di Teseo). Ha scritto Un corpo per tutti anche durante la pandemia (vari riferimenti sono alle pp. 50, 88, 127). Racconta come è diventata un’artista, come non si smette di esserlo neppure quando si pensa che ogni ruolo potrebbe essere l’ultimo, che è un’attrice immersiva come Meryl Streep e Daniel Day-Lewis (p. 113); racconta del rapporto con il proprio corpo che cambia mentre cambia il rapporto con la recitazione, a partire dalle prime prove mimiche imbarazzanti come il bestiario (p. 83: l’esercizio di scegliere un animale e trasformarsi in esso sul palcoscenico: chi, partecipando a un corso amatoriale di teatro da ragazzo, non si è sottoposto a questo esercizio, divertendosi, provando imbarazzo e sentendosi improvvisamente ridicolo, incapace, inadeguato ma libero?), dell’esposizione mediatica per un’artista riservatissima che non usa i social media (125-126), della nudità parziale sperimentata nel 2009 come una liberazione per Esse di Salomè (p. 121-122), dei ruoli comici cominciati in teatro con Nataša delle Tre sorelle e proseguiti molti anni dopo in televisione e al cinema in Tutti pazzi per amore diretta da Riccardo Milani e in Quo vado? diretta da Checco Zalone (pp. 60-62; non è comico ma molto popolare un altro personaggio della serialità televisiva, Livia, l’eterna compagna a distanza del Commissario Montalbano, che Bergamasco ha impersonato nella parte finale della saga).

 

Sonia Bergamasco in Esse di Salomè, di Sonia Bergamasco e Francesco Giomi. Produzione: Tempo reale. Teatro sonoro liberamente tratto da frammenti dell’Erodiade di Mallarmé (traduzione di Cosimo Ortesta), in scena tra 2009 e 2012 (https://temporeale.it/produzione/esse-di-salome-2/)

 

Bergamasco racconta, soprattutto, che cosa significa davvero per sé stessi e per gli altri scegliere di guadagnarsi da vivere in Italia con un mestiere che si nutre di libri, di arti visive e di musica. “Il mestiere dell’attrice è sicuramente una professione, ma è anche qualcosa di più. Perché dà voce alle storie di tutti. Fa spazio, dentro, ai ruoli incarnati ogni giorno dalle creature più diverse. Un corpo per tutti, un testimone” (così si conclude l’autobiografia a p. 133). Si tratta di un mestiere che si nutre del “potere dell’immaginazione” (cito da p. 133). Ma da cosa prende spunto continuo l’immaginazione di una bravissima artista pluridisciplinare, che per restare tale deve anche essere molto attenta a mantenere il corpo, strumento primario, in buona salute (di questo aspetto del mestiere scrive a p. 56)?

Tanto per cambiare, dalla lettura di libri di narrativa e di poesia, dal dialogo e dal confronto con studiosi di varie discipline, dalla musica studiata, praticata e ascoltata, dal teatro e dal cinema, e anche dalla storia dell’arte, come vedremo dopo. Bergamasco è molto chiara sulle tappe di un percorso di rivelazione di un talento che, determinato dalle circostanze biografiche, si è affermato grazie alla determinazione e allo studio.

Nata nel 1966 alla periferia ovest di Milano, al Quartiere Triennale 8 (QT8), Bergamasco fa precoci tentativi di scrivere poesie affiancandoli allo “studio del pianoforte in Conservatorio: con fatica, con dedizione militaresca e una certa malinconia”, nonostante si tratti di un’imposizione materna (p. 123). A diciotto anni la svolta: mentre sta per diplomarsi in pianoforte, muore suo padre e Bergamasco decide senza dire niente a nessuno di iscriversi alla selezione per entrare alla Scuola del Piccolo Teatro. Giorgio Strelher e in particolare Giulia Lazzarini vedono un talento nuovo, un “modo musicale”, nella ragazza con i capelli biondi e lunghissimi che solfeggia “come se fossero note su un pentagramma”, anziché recitarle semplicemente, le parole di Guido Cavalcanti, Christa Wolf, Samuel Beckett che ha scelto per il provino (pp. IX-X, 7).

La scuola del Piccolo non serve solo a imparare a recitare; a Bergamasco, che è una musicista, serve anche per trovare la sua voce in un corpo che fino ad allora era stato un “corpo-centauro” seduto al pianoforte (p. 7). Quando Bergamasco racconta le difficoltà della formazione teatrale, usa di nuovo un lessico bellico: “addestrare” (a p. 7) è il verbo che usa per spiegare in cosa consiste la necessaria pratica didattica di omologazione delle scuole di teatro; “militare” appare questo addestramento finché dura e solo dopo, quando l’attrice cerca e trova la sua voce in palcoscenico, subentra la libertà del “gioco” (pp. 7, 10): del resto, non è un caso che nella lingua di Shakespeare il verbo ‘recitare’ sia lo stesso che si può usare anche per dire ‘giocare’: ‘to play’. Sonia Bergamasco è diventata, così, l’unica “attrice musicale” italiana (p. 69).

 

 

Sonia Bergamasco in Pinocchio, ovvero lo spettacolo della Provvidenza. Regia teatrale e televisiva, scene maschere e costumi: Carmelo Bene. Versione per la televisione del 1999, disponibile su Rai play: https://www.raiplay.it/video/2017/07/Pinocchio-ovvero-lo-spettacolo-della-Provvidenza-6968519d-6f1b-42cd-b291-40de62a166d7.html

 

Quando nel 1998 viene scelta dalla Voce per eccellenza, Carmelo Bene, per tutti i ruoli in palcoscenico accanto al protagonista nel Pinocchio estivo al Teatro dell’Angelo a Roma (uno spettacolo che richiese anche impegno fisico fuori dal comune, per giunta in condizioni climatiche quasi estreme), Bergamasco sa di essere lì proprio perché è una musicista capace di “suonare la parte”.  Carmelo Bene è fondamentale nell’evoluzione professionale di Bergamasco, che comprende finalmente che l’intreccio tra musica e teatro è conciliabile e che proprio la sua capacità di fare un “teatro musicale” può renderla insostituibile, anche dopo la rottura con CB all’altezza della Figlia di Iorio (pp. 18-19, 32-33, 57. Dell’ultima lettura dannunziana di CB Bee magazine ha parlato il 26 gennaio scorso qui: https://beemagazine.it/se-larte-fa-schifo-la-tradizione-puo-servire-alla-rivoluzione-il-grande-attore-e-morto-viva-il-grande-attore/).

Per anni Bergamasco ha valorizzato il suo doppio talento, accresciuto con esercizi e aggiornamenti disciplinati (una “formazione permanente”, scrive a p. 58), mettendo in scena “composizioni musicali originali per voce e strumenti, composizioni scritte espressamente per voce d’attrice-cantante: i cosiddetti: melologhi”, dei quali esiste un vasto repertorio dal Settecento a oggi che passa per Pierino e il lupo di Prokof´ev (pp. 70-71). Alle Voci il libro dedica il capitolo VIII. Le voce è, del resto, l’impronta più riconoscibile di un essere umano, lo è soprattutto per chi recita (ma anche per chi insegna) e ha avuto in dono un timbro unico sul quale poi lavorare con l’esercizio, come è accaduto a Sonia Bergamasco. L’artista ricorda, a questo proposito, senza snobismi ma con sacrosante motivazioni, che vedere un film doppiato toglie molta parte della possibilità di valutazione e di apprezzamento di un artista; fa gli esempi dei cortocircuiti emotivi provocati dal nesso voce-corpo nel giovane Marlon Brando e nella giovane Monica Vitti, ma ammonisce sul potere incantatore della voce, ove non sia naturale: “anche le voci “belle” possono nascondere segreti. Le voci piene, corpose, morbide, tonanti, saldamente poggiate, riescono talvolta a imporre un’immagine incoerente della persona che le “indossa”. Se non sono un dono di natura (cosa rara), voci così servono a schermare insufficienze e fragilità- Avvolgono con un involucro fotogenico una superficie slabbrata” (p. 44).

 

Sonia Bergamasco in La meglio gioventù. Regia: Marco Tullio Giordana. Produzione: BiBi Film (Italia, 2003)

 

Nella ricerca della propria voce di interprete e nella rivelazione delle potenzialità del suo corpo d’artista, per Bergamasco sono stati bene primario i libri. “Dai quindici anni in poi ho cominciato a leggere di tutto. I libri sono diventati compagni inseparabili. Ne avevo sempre uno con me, in metropolitana, in treno, in attesa di un appuntamento. […] La poesia – letta e scritta – è stata la mia prima lingua. Una traduzione istantanea di un mondo “musicale” (cito da p. 119).

L’artista considera talmente fondamentali i libri nella sua vita, non solo professionale, che quando ha pensato di mettersi “in pausa” dal mestiere “totalizzante” che continua a fare benissimo, ha pensato di aprire una libreria (lo racconta a p. 84). E attraverso le parole dei libri, non usate come mere citazioni ma come parte incandescente della vita fisica e morale, Bergamasco mette a fuoco le tappe di una vocazione inconsapevole. Se ci si limita anche solo all’apparato finale esplicativo delle Note, si constata che la maggior parte di esse riguarda i libri fonti di riferimenti e citazioni presenti nel testo: gli autori familiari all’artista sono Petronio, Alberto Savinio, Lewis Carroll, Rilke, Brecht, Amelia Rosselli, Jean Genet, Céline, ovviamente (per chi si occupa di teatro e di cinema) Shakespeare, Proust, Artaud e Beckett; poi sant’Agostino, Borges, Platone perché fa dire le cose più importanti del Simposio ad Aristofane uomo di teatro, Novalis, l’amatissimo Montaigne, Landolfi, Freud, Viktor Šklovskij dal quale Bergamasco si è fatta accompagnare mentre lavorava alla drammaturgia tratta da Anna Karenina di Tolstoij (p. 105), Saint-Exupéry autore di Il Piccolo Principe portato in scena con Fabrizio Gifuni (pp. 47, 137-141; alle pp. 66-67 Bergamasco ricorda un intervento quasi ‘performativo’ di Antonio Capuano durante una pomeridiana domenicale alla Galleria Toledo a Napoli, simile all’intervento del personaggio di Capuano che in È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino colloca durante uno spettacolo nella stessa sala storica napoletana).

 

Il Piccolo principe in concerto. Un’idea di Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco. Voci: Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco. Suoni di scena: Rodolfo Rossi. Disegno luci: Cesare Accetta. In collaborazione con il Teatro Franco Parenti di Milano. Foto di Silvio Canini (dal sito di Fabrizio Gifuni: https://fabriziogifuni.it/il-piccolo-principe-in-concerto/)

 

I libri sono strumenti quotidiani del lavoro degli attori professionisti (della nascita e dell’affermazione parallela del fenomeno degli attori non professionisti, introdotti sistematicamente da “Blasetti, De Robertis per primi, e poi Rossellini e Pasolini”, oggi incrementato anche dall’immediata sovraesposizione garantita dai social media, Bergamasco scrive a p. 36).

Gli attori professionisti spesso sono impegnati in adattamenti teatrali e cinematografici di libri e, in maniera più diretta, in letture integrali ad alta voce per la radio o per il palcoscenico. La lettura ad alta voce ha un posto particolare nel capitolo La forma lettura, che ho trovato particolarmente bello, credo anche perché valorizza una particolare forma di recitazione che ho sempre amato moltissimo fin da bambina: ascoltare voci che recitano fiabe, racconti, romanzi che mi coinvolgono o addirittura ipnotizzano, prima sui dischi, poi alla radio e tramite gli audiolibri, è un piacere al quale dedico tempo ogni volta che posso quasi ogni giorno. In La forma lettura Bergamasco distingue tra lettura autonoma silente e lettura ad alta voce per un pubblico (quest’ultima importantissima per avvicinare alla lettura, se gli spettatori di chi recita sono bambini e adolescenti).

Bergamasco è, infatti, una delle artiste italiane impegnate costantemente nella promozione della lettura attraverso letture ad alta voce e afferma di avere “sempre amato la lettura, quella silente con cui sono cresciuta, e quella a voce che appartiene al mio lavoro d’attrice. Nell’una e nell’altra percepisco la stessa carica erotica. La stessa potenza creativa. Non sono molti gli attori che amano la dimensione della lettura (per il pubblico, intendo). E in effetti, la lettura per gli altri richiede al lettore un equilibrio estremamente preciso e sottile nei confronti dell’opera e dell’ascoltatore. […] Ricordo ancora Giorgio Strehler quando leggeva il Wilhelm Meister di Goethe a noi allievi della Scuola di teatro. Credo che si trattasse del suo libro del cuore. Strehler attraversava il romanzo con un rapimento febbrile, come un amante appassionato. Sembrava conoscerlo a memoria. […] Una lettura d’artista, da regista-autore. Una lettura creante” (pp. 14-15).

E poi leggo (con gioia e un po’ di compiacimento) che c’è la storia dell’arte nella formazione continua di un’artista che recita. “Da ragazza sono stata una frequentatrice assidua di mostre di scultura e di pittura. Mi nutrivo di forme, gesti e colori. Mi sentivo ispirata da quest’arte silenziosa. E mi compiacevo nel fare di me quasi una creatura letteraria (una delle giovani descritte dal poeta Rainer Maria Rilke nel romanzo I quaderni di Malte Laurids Brigge). Mi vedevo scorrere nelle sale, alla ricerca di qualcosa che non sapevo nominare (all’epoca, non avevo ancora cominciato il lavoro di attrice, ma in me già lavorava qualcosa). Ricordo in particolare alcune grandi mostre milanesi: quella dedicata allo scultore Giacomo Manzù – i suoi cardinali -, al pittore Mondrian, e al mondo visionario di Leonardo da Vinci” (cito da p. 96, dalla parte finale del capitolo significativamente intitolato Nutrimenti).

Di fronte a questo resoconto mi ha colto la curiosità di saperne di più: sono nata nel 1977, undici anni dopo l’autrice del libro, e ho cominciato tardi a frequentare le mostre a Milano; quindi per ricostruire il filo delle esposizioni che hanno formato Bergamasco come artista provo a ricorrere agli strumenti da storica dell’arte, facendo dei tentativi. Mentre Bergamasco era adolescente, giovane studentessa e poi giovane attrice, Manzù è stato lo scultore monumentale più noto d’Italia, anche grazie alla donazione delle sue opere alla città natale, Bergamo, dal 1977. Forse la grande mostra dello scultore dei cardinali è quella, antologica, intitolata Manzù curata da Rossana Bossaglia tra Civico Museo d’Arte contemporanea, Arengario e Museo del Duomo tra il 17 dicembre 1988 e il 26 maggio 1989 con un catalogo pubblicato da Electa?

 

Il monumento di bronzo Al partigiano donato da Giacomo Manzù alla sua città natale, Bergamo, in memoria dei suoi genitori e di tutti gli eroi della Resistenza. Manzù vi incise questa epigrafe: “Partigiano, ti ho visto appeso immobile. Solo i capelli si muovevano leggermente sulla tua fronte. Era l’aria della sera che sottilmente strisciava nel silenzio e ti accarezzava, come avrei voluto fare io – Giacomo Manzù, 25 aprile 1977”

 

La mostra di Mondrian è, forse, Mondrian e la Scuola dell’Aia: disegni e acquarelli del Haags Gemeentemuseum, L’Aia e di una collezione privata, allestita alla Galleria d’arte Moderna dal 6 gennaio al 12 febbraio 1982 per cura dell’Istituto Universitario Olandese di Firenze con un catalogo pubblicato da Centro Di? Ipotizzare quale sia la mostra su Leonardo è più difficile: fino al 1998, l’anno della sgangherata L’anima e il volto: ritratto e fisiognomica da Leonardo a Bacon (che da allora ha legittimato una serie di mostre e mostracce sui collegamenti più improbabili tra epoche e artisti in sedi pubbliche), a Milano si sono viste esposizioni dedicate in vario modo all’universo leonardesco, in particolare nel 1982 tra Castello Sforzesco e Museo Poldi Pezzoli, per le celebrazioni “Leonardo a Milano 1482-1982”, e negli anni successivi (1983 al Museo Civico di Storia Naturale, alla Biblioteca Trivulziana, alla Rotonda della Besana; 1984 al Castello Sforzesco).

Resta un interrogativo che arricchirebbe notevolmente questo quadro già pregevole e non scontato: mi piacerebbe chiedere a Sonia Bergamasco se continua a rinforzare una sensibilità figurativa così articolata frequentando anche le collezioni permanenti dei musei pubblici delle città in cui è nata e in cui vive (Milano e Roma), se tra le sue abitudini quotidiane c’è, come per molti che fanno mestieri legati all’immaginazione e anche per me, la necessità, che è piacere e urgenza insieme, di entrare nelle chiese che sono vicine ai luoghi frequentati abitualmente per vedere o rivedere una singola opera e ristorarsi in presenza di essa, godendo della ripetizione della visione. Degno di nota è, in ogni caso, che tra le predilezioni figurative dell’attrice ci sia la scultura, di Manzù e anche di Alberto Giacometti (la predilezione per Giacometti, di cui Bergamasco scrive alle pp. 31-32, è condivisa con il marito Fabrizio Gifuni).

 

Alberto Giacometti con i modelli per alcune sue sculture

 

Aggiungo una digressione che conferma la centralità della lettura, della musica e della storia dell’arte nella formazione degli artisti della scena, indipendentemente dalla provenienza sociale. La prova è venuta da un’altra biografia d’artista e da una relativa dichiarazione recente dell’artista stesso. Peter Stein, il fondatore del “teatro collettivo”, ha dialogato della sua vita con l’attore Gianluigi Fogacci per un libro uscito nell’ottobre 2021 per i tipi di Manni. Maria Laura Giovagnini ne ha parlato il 12 febbraio in un’intervista a Stein e a sua moglie Maddalena Crippa su “Io Donna” nella quale l’artista berlinese, figlio ribelle di un industriale collaborazionista dei nazisti e di una scultrice dilettante, ribadiva che le sue caratteristiche di regista si devono ai prolungati studi universitari di letteratura e storia dell’arte e alla conoscenza della musica, non a precoci frequentazioni di teatri e cinema (https://www.iodonna.it/spettacoli/2023/02/12/maddalena-crippa-peter-stein-lamore-ricetta-complessa-iodonna-it/):

“Da rampollo borghese ho tentato di suonare il violino: pessimo. Di dipingere: un disastro totale. Scrivevo poesie che la sera, appena composte, parevano stupende e la mattina orribili. Ho capito presto di non avere predisposizione, e comunque non intendevo diventare come mio padre, che produceva tecnologie dannose per la razza umana e, per giunta, difficili da smaltire. Desideravo occuparmi di quel che la gente mantiene con ogni forza e conserva nei musei. Non avendo talento, ripiegai su Storia dell’arte e Letteratura all’università. Per dieci anni ho studiato, ho cominciato tardi con il teatro e questa forse è la differenza con la maggior parte di registi: cosa sanno dei capolavori? Che “pinacoteca interna” hanno? Che “sala musica”, che “biblioteca interna” cui ricorrere?”.

 

 

Stein descrive praticamente il ritratto dell’artista ideale: qualunque cosa si debba creare o ricostruire, la conoscenza della tradizione è indispensabile. Per imitarla, derubarla, perfino distruggerla, ma niente si crea dal niente.

Nel libro di Bergamasco la tradizione nell’ambito dello spettacolo, cioè i film, gli attori e gli spettacoli preferiti entrano in un pantheon non scontato e che, mi pare, ha perfino più cose da insegnare di quello pur variegatissimo ma monomaniaco di Quentin Tarantino nel libro autobiografico da poco tradotto Cinema speculation. Se l’omaggio al corpo e alla voce di Marlon Brando è dovuto e ripetuto (pp. 43, 112), più prezioso appare il modo di citare Peter Sellers per il superbo “personaggio del cuore” di Bergamasco, il giardiniere analfabeta Chance, il “santo idiota” interpretato in Oltre il giardino diretto da Hal Ashby nel 1979 (pp. 107-108). Poi ci sono Carmelo Bene ma anche Gabriella Bartolomei “ingiustamente dimenticata” (pp. 19-21), Peter Brook e i suoi libri su “una nuova idea di teatro” (p. 24), per i loro corpi sullo schermo ci sono “Elephant Man/John Hurt”, “Lidia/Mariangela Melato”, “Olivia Colman regina folle nel film La favorita”, “Klaus Kinski/Fitzcarraldo con il suo sguardo che brucia” (p. 37), lo “sguardo geniale” di Marco Bellocchio (pp. 96-97), Marcello Mastroianni, attore “mozartiano” per eccellenza capace di recitare con sprezzatura suprema del mestiere, manifestando una leggerezza che nasconde studio e fatica (p. 62), Ian McKellen che entra al Teatro Studio a Milano “cavalcando i versi di Shakespeare” (pp. 93-94), “Piera degli Esposti che dice la sua Molly Bloom al Teatro Valle di Roma” (p. 94), Paolo Poli al Teatro Nuovo a Milano (p. 95),“Carlos Kleiber che dirigeva la Settima di Beethoven” in televisione (p. 93), le coreografie di Carolyn Carlson e Café Müller di Pina Bausch (pp. 102-103), Il circo invisibile di Victoria Chaplin e Jean-Baptiste Thierrée al Parco della Musica di Roma e, nello stesso spazio, “Martha Argerich” che, dopo avere salutato, esce di nuovo mentre la sola orchestra esegue il bis, tornando in proscenio “letteralmente ballando, arriva fino alla ribalta, accanto al direttore”, catalizzando tutto il pubblico con “la potenza sensuale del suo corpo” (pp. 94-96: allo stesso modo e forse di più Bergamasco, in attesa della figlia Valeria, catalizzò il pubblico del Concertone della Notte della Taranta a Melpignano il 27 agosto 2005 cantando l’amore e la morte di Donna Lubarda ritmandola sui piedi scalzi, con un taglio alla maschietta sui suoi zigomi alti velata da un abito ceruleo, con l’allure di una Isadora Duncan contemporanea.

La performance si vede nell’internet qui: https://soniabergamasco.it/en/la-notte-della-taranta/). Sopra tutti, per Bergamasco c’è Eleonora Duse. A quest’ultima, la prima vera attrice celebre della modernità, Bergamasco sta dedicando un film documentario che realizza un interesse umano e professionale nato grazie alla iniziale fascinazione per un ritratto della grande attrice amante di d’Annunzio che la giovane allieva della Scuola del Piccolo Teatro vedeva tutti i giorni andando a lezione (pp. 55, 111, 131-132).

 

Sonia Bergamasco interpreta Donna Lubarda sul palco della Notte della taranta a Melpignano (LE), il 27 agosto 2005

 

In tutto il libro, anche i momenti più duri e quasi inaccettabili della didattica musicale e teatrale sono riletti alla luce del talento che quei momenti, caratterizzati dalla paura di fallire, dalla necessità di sottoporsi al giudizio e alla valutazione dei maestri per progredire, hanno fatto emergere. Si tratta di un tipo di pedagogia che, da Poliziano fino almeno alla mia generazione (semplifico, naturalmente), ha permesso di rivelare e valorizzare capacità di bambini e ragazzi che altrimenti (per mancanza di mezzi, per incapacità di autovalutarsi, per semplice pigrizia) non avrebbero fatto con riuscita notevole molti mestieri legati alla cultura e ad altri ambiti.

Anche la memorizzazione e la ripetizione di testi e nozioni hanno fatto di Sonia Bergamasco la professionista sfaccettata che è da anni. Proprio il percorso di formazione di un’artista come lei ricorda che non bisogna buttare completamente alle ortiche il metodo di insegnamento basato sulla memoria, sulla ripetizione e sulle verifiche continue da parte degli insegnanti, naturalmente se questi ultimi non si trasformano in giudici implacabili privi di comprensione e, anche, di ironia.  In Un corpo per tutti Bergamasco ricorda: “Per quanto mi riguarda, sono convinta che la memoria degli attori risieda nel corpo. […] Negli anni ho cercato di sviluppare un metodo, nella memorizzazione. […] La mia memoria deve essere sufficientemente autonoma da consentirmi di “dimenticare” quello che devo dire o fare, e di rivivere sul momento la scena nella fisionomia che acquista nell’istante in cui viene agita”. “Riprendo il filo della memorizzazione e lo intreccio alle immagini che la storia, la situazione, le battute fanno sorgere istintivamente. Creo una geografia interna, intuitiva, affettiva, che deve però mantenere confini aperti e spazi di movimento. […] La ripetizione, se necessario, a oltranza” (pp. 76-79).

Una tecnica di memorizzazione verbale e visiva non distante dalle pratiche più antiche della mnemotecnica, nella quale l’associazione di parole e concetti a immagini e figure è dirimente. Naturalmente anche una memoria allenata quotidianamente in modo ferreo come quella di grandi attori professionisti può cedere in scena. Capitano occasionali vuoti di memoria che però insegnano qualcosa di nuovo: è accaduto a Bergamasco in una replica a Genova dell’ultima sua prova teatrale, il difficile Chi ha paura di Virginia Woolf? (per il ruolo di Martha ha vinto il Premio Ubu 2022 come migliore attrice), che ha permesso all’attrice di scoprire “una nuova dimensione” “di giochi segreti e regole condivise” grazie al soccorso del compagno in scena Vinicio Marchioni e all’atmosfera generata dal silenzio e dal pubblico (pp. 80-81).

Le tecniche per aiutare gli attori che incorrono in vuoti di memoria sperimentate tradizionalmente in teatro e al cinema sono note e Bergamasco le riassume (tra le pp. 74 e 77 del capitolo A memoria), fino ai “fogli e foglietti disposti ad arte sulle pareti del set, per cercare di tamponare l’emorragia mnemonica di cui soffre” Valentina Cortese, “attrice in crisi” in Effetto notte di Truffaut.

 

Valentina Cortese in Effetto notte. Regia: François Truffaut. Produzione: Les Films du Carrosse, Productions et éditions cinématographiques françaises (PECF), Produzioni internazionali cinematografiche (PIC) (Francia-Italia, 1973)

 

Sonia Bergamasco in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee. Traduzione Monica Capuani. Regia: Antonio Latella. Produzione Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli

 

La “pinacoteca interna”, la “sala musica”, la “biblioteca interna” di cui ha parlato Peter Stein a proposito della propria formazione sono le banche dati interne che anche Sonia Bergamasco si è formata con disciplina militare e poi con appassionata determinazione per diventare l’artista che conosciamo e per essere capace di descrivere con le parole ciò che fa e come lo fa.

Torno al punto di partenza. In Italia stiamo progressivamente continuando a smantellare il migliore sistema scolastico e universitario d’Europa e, forse, del mondo. La facilità di reperimento di informazioni non sempre verificate permesse dagli smartphone accanto a un pedagogismo selvaggio e pervasivo ci hanno convinto che la memoria, la ripetizione di nozioni, il pensiero e la ricerca non completamente informatizzati affiancati alla valutazione dei giovani distruggono la loro formazione e la loro autostima. Ci vogliono misura ed equilibrio da parte di chi insegna, naturalmente, altrimenti la scuola e l’università allontanano dal piacere di sapere le cose e di usarle come chiave per capire il mondo e stare dentro di esso. Badiamo anche al fatto che nessun grande artista ha mai cercato di liberarsi della capacità di leggere, di scrivere bene, di ascoltare musica, di vedere opere d’arte per lavorare a sua volta e creare qualcosa di proprio. Ecco quindi che, di nuovo, si è obbligati a rispondere alla domanda più urgente che tocca da molto tempo a chi fa mestieri come i nostri: “a cosa serve il tuo lavoro?”.

Le argomentazioni di un’artista scrittrice come Sonia Bergamasco, oggi impegnata anche a riflettere sulla formazione dei giovani (degli impegni recenti grazie alla associazione UNITA scrive alle pp. 129-130) sono valide per tutti i mestieri della cultura, non solo per il teatro e per il cinema. Da neodiplomata, nel 1990 Bergamasco intraprende con altri colleghi la prima “tournée autogestita” in Spagna e, arrivata “in un paese dove i bambini non sapevano che cosa significasse la parola “teatro”, comprende che il ruolo di un attore non è quello dell’intrattenitore ma del seduttore che racconta storie, le fa conoscere e le lascia dietro di sé, cambiando vite (pp. 24-25).

Bergamasco ne scrive con parole buone anche per tutti gli altri lavoratori della cultura, dato che gli insegnanti devono ormai da un paio di decenni fronteggiare le irritazioni di signore emule di Clarice Orsini che esigono che i propri figli studino meno e corrano di più “tutto il dì sul cavallino”, cioè giochino a tennis, a padel, nuotino in piscina ecc., senza l’equilibrio tra le attività del corpo e della mente che Poliziano e il Magnifico ritenevano essenziali per i bambini. L’artista rassicura: la memoria associata alla ripetizione non danneggia fin da piccoli, perché proprio i bambini non si stancano “di riascoltare la stessa fiaba, di rivedere lo stesso film, di chiedere che venga riproposto lo stesso gioco con esattezza minuziosa, infinite volte” (a p. 29); la ripetizione sviluppa la fantasia, è erotica, permette associazioni di pensiero, aiuta a creare con un corpo e una mente liberi e consapevoli.

“La ripetizione accende un’energia erotica primordiale. […] (p. 29) Facciamo qualcosa di inutile, apparteniamo alla sezione tempo libero, non siamo seri. […] La finalità del teatro – come dice Amleto ai suoi attori – “tanto agli inizi che adesso, era ed è quello di reggere, per così dire, lo specchio alla natura; mostrare alla virtù il suo volto, allo spregio la sua immagine, ai tempi e al mondo la sua forma e impronta” (p. 88). Aggiunge (a p. 91): “Il teatro, l’arte, la cultura non “servono” a niente. Ma sono lo specchio nel quale chi ne ha il coraggio si può guardare”.

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

 

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