“Guarda quegli idioti! Io ho letto Proust, capisci?!”

Uno sguardo dall’alto in basso con i grandi occhi della marchesa Casati

Cultura

Giuditta Sin in Qui rido io. Regia: Mario Martone. Produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Tornasol (Italia-Spagna, 2021)

 

 

Nel film Qui rido io, scritto e diretto da Ippolita di Majo e Mario Martone prima dello splendido e pluripremiato (pur se non a sufficienza, considerata la mancata corsa per gli Oscar) Nostalgia, c’è una scena esilarante in cui durante una notte di pioggia Gabriele d’Annunzio lascia in sospeso un’orgia al piano superiore della villa a Marina di Pisa per ricevere al piano inferiore Eduardo Scarpetta, arrivato da Napoli, per chiedere all’autore di La figlia di Iorio l’autorizzazione a mettere in scena al Mercadante a Napoli il 3 gennaio 1904 la parodia Il figlio di Iorio.

Se ci avete fatto caso, i titoli di coda di Qui rido io hanno una sezione dedicata alla scena D’Annunzio che svela i nomi dei personaggi femminili che, in attesa di riprendere il baccanale, partecipano dall’alto con risate e movenze da film muto a quanto accade intorno al camino al piano di sotto. Nei titoli di coda sono elencati i nomi delle attrici Irma Gramatica (Lucrezia Guidone) e Lyda Borelli (che da celebre diva del muto diventò moglie quasi reclusa dalla gelosia dell’industriale conte Vittorio Cini, uno dei più importanti collezionisti di antichi maestri del Novecento grazie anche alla consulenza di Federico Zeri; in Qui rido io Borelli è interpretata da Elena Ghiaurov). Con Gramatica e Borelli c’è una nobildonna lombarda famosa per avere recitato per tutta la vita un solo ruolo, quello di sé stessa: la marchesa Luisa Casati, che con d’Annunzio ebbe un legame specialissimo per molta parte della vita di entrambi. La divina marchesa ospite del poeta è interpretata da Giuditta Sin, una Performance Artist che in tableaux vivants e spettacoli di burlesque ha impersonato diverse altre signore contemporanee della marchesa ritratte a Parigi, come Luisa, dal pittore più ricercato dal bel mondo internazionale, il faunesco Giovanni Boldini.

La marchesa Casati è stata l’unica donna della quale d’Annunzio non si è mai stancato, almeno fino a quando ella non gli ha chiesto aiuto economico dopo avere dilapidato il patrimonio di famiglia. Entrambi condivisero comuni interessi culturali e artistici ma lei si sottrasse a una relazione sessuale continuativa per molti anni. Stando a quanto emerge dalla corrispondenza tra la marchesa e il poeta facilmente attingibile in un libriccino uscito per Archinto con il titolo Infiniti auguri alla nomade (un botta e risposta che, così com’è e con minime integrazioni e qualche aggiustamento, è già una vera e propria drammaturgia pronta per una lettura teatrale), anche l’attrazione fisica di lui per lei si alimenta per decenni del ricordo di un unico primo incontro parigino limitato a un maldestro bacio furioso sul collo marchesale; i due si uniranno non più di due o tre volte, ormai al Vittoriale, e forse con l’aiuto della cocaina e sempre prediligendo alla mera ginnastica la condivisione di parole, libri, opere d’arte, perfino di una tartaruga ordinata da Luisa da Hagenbeck ad Amburgo (battezzata Carolina da Luisa, ribattezzata tautologicamente Cheli da d’Annunzio, crepata per indigestione di tuberose del giardino del Vittoriale, infine trasformata in un oggetto da incubo di Huysmans troneggiante imbalsamato e dorato sul tavolo da pranzo).

La relazione tra la marchesa e d’Annunzio si alimenta, infatti, del fuoco dell’immaginazione; come tale riverbera nell’introitus mantovano allucinato dell’ultimo romanzo di d’Annunzio, Forse che sì forse che no.

 

 

La copertina di Gabriele d’Annunzio, Infiniti auguri alla nomade. Carteggio con Luisa Casati Stampa, Archinto 2001

 

 

Nata a Milano il 23 gennaio 1881 in una famiglia ricca per la produzione di cotone, Luisa acquisisce il cognome e il titolo che mantiene anche dopo il divorzio grazie al matrimonio con il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino (il padre del Camillino Casati protagonista di uno dei più truci fatti di cronaca nera nella Roma del 1970). La marchesa muore in povertà a Londra all’inizio del giugno 1957, venticinque anni dopo l’asta giudiziaria durante la quale ha dovuto disperdere la sua collezione d’arte e i suoi beni per pagare debiti astronomici, chiedendo invano aiuto epistolare a d’Annunzio: la richiesta rimane senza risposta, i due non si sentiranno né vedranno mai più. Andata via da Parigi dove aveva tenuto un salotto ricercatissimo, la marchesa intensifica i rapporti con la capitale inglese, dove vive la figlia con la quale è in pessimi rapporti; poi a Londra si trasferisce, aiutata dalla nipote e da alcuni vecchi amici. La marchesa aveva dissipato una delle fortune maggiori d’Italia per mettere in scena senza sosta rappresentazioni di sé stessa, permanenti come i ritratti ed effimere, che oggi potremmo definire (e solo riduttivamente), performance ante litteram: Luisa era una che si spostava da Roma a Venezia portandosi dietro il pavimento di casa e che in piazza San Marco passeggiava seminuda due leopardi, o almeno così vogliono le mitologie su di lei.

Il 9 giugno 1957 la p. 3 de “Il Mattino” di Napoli, che aveva ospitato spesso scritti di Gabriele d’Annunzio, pubblica un necrologio intitolato Una dimenticata. La marchesa Casati. L’autore del necrologio su “Il Mattino” si firma con lo pseudonimo proustiano di Swann. Probabilmente l’autore del necrologio è Giacomo Debenedetti, che usò come pseudonimo il nome del protagonista della Recherche durante l’attività giovanile alla “Gazzetta del popolo” (1926-1929), ben prima di tradurre Proust nel 1948. A un certo punto, “Swann” si lascia andare a memorie lontane: “Forse qualche appassionato di pittura rivede ancora il quadro delizioso di Boldini che la ritrae, magrissima e stilizzata, in una inconfondibile armonia lineare”. Il ritratto di Luisa Casati eseguito da Boldini è quello esposto al Salon de la Société Nationale des Beaux–Arts inaugurato il 14 aprile 1909, mentre l’effigiata è a Roma e aspetta di farsi spedire a casa il ritratto a mostra finita, accontentandosi di un ritaglio della recensione della mostra uscito su “Le Figaro”.

 

 

Giovanni Boldini, La marchesa Casati con i levrieri Erebo e Lete, 1908, olio su tela, 253, 4 x 140, 5 cm, 1908, Gran Bretagna, collezione di Andrew Lloyd-Webber

 

Giovanni Boldini, Passeggiata al Bois de Boulogne (i coniugi Lydig), 1909, olio su tela, 228 x 118 cm, Ferrara, Museo Giovanni Boldini

 

 

Boldini ritrae di nuovo la marchesa in una delle opere più belle oggi patrimonio della collezione della Galleria d’arte moderna di Roma: con sciabolate di colore quasi futurista miste alle piume di pavone della toilette da sera, Boldini cattura un profilo inquieto, trasfigurando la marchesa in una sorta di fantastico uccello del paradiso antropomorfo, con la spalla nuda che si evolve in una mano che è un artiglio, la gamba inguainata nelle calze di seta e un paio di scarpe che fungono da zampe elegantissime.

 

 

Giovanni Boldini, Ritratto della marchesa Casati, 1911-1914, olio su tela, 130 x 176 cm, Roma, Galleria Nazionale d’Arte moderna

 

 

Il ritratto parigino del 1909 ha goduto di una storia collezionistica e di mercato degna dell’effigiata. Immediatamente dopo l’esecuzione, il ritratto viene esposto da Boldini insieme a quelli dei Coniugi Lydig a passeggio nel Bois e della Contessa de Pourtalès (su Rita de Acosta Lydig, coetanea di Luisa ma già celebre per la propria eleganza e i rapporti con gli artisti nel 1909, si rilegga uno dei libri più frizzanti del secolo, pubblicato nel 1954 dal grande fotografo e scrittore Cecil Beaton, Lo specchio della moda, tradotto in italiano da Garzanti nel 1955, in cui c’è anche un ritratto della Casati, e che andrebbe ristampato).

 

 

La copertina di Cecil Beaton, Lo specchio della moda, Garzanti 1955

 

 

Il ritratto della Casati fa la parte del leone su tutti gli altri dipinti esposti al Salon e successivamente si guadagna fama grazie a un’accurata divulgazione a stampa promossa dalla stessa committente tra Parigi e l’Italia sulle più rinomate riviste destinate a un pubblico abbiente e femminile: la prima riproduzione appare sul più diffuso giornale francese di moda e costume dell’epoca, “Femina”, il 1º dicembre 1909. Quasi trent’anni addietro il ritratto fu acquistato per 1.5 milioni di dollari dal compositore Andrew Lloyd-Webber (l’autore di celebri musical come Jesus Christ Superstar, Cats, Evita) all’asta Christie’s 15 Paintings by Giovanni Boldini collected by the Late Baron Maurice de Rotschild (New York, 1 November 1995, Lot. 6, p. 34).

Secondo il catalogo di vendita, il ritratto sarebbe stato venduto da Boldini al barone Maurice de Rotschild, ma in realtà rientrerebbe tra i lotti messi all’incanto all’asta giudiziaria degli oggetti d’arte e dei suoi beni della marchesa custoditi presso il Palais Rose di Le Vesinèt il 10 dicembre 1932. Qui Luisa esibiva la galleria dei suoi ritratti nell’ala del Palais denominata Ermitage.

La marchesa cercò di recuperare una parte dei beni alienati dopo qualche tempo, elaborando a Londra una List of goods lost by Marquise Luisa Casati (oggi in possesso dei suoi discendenti a Londra grazie ai quali ho potuto individuarla e trascriverla in un mio articolo di qualche anno fa). La lista dattiloscritta è preziosa perché divide i beni per generi: abbigliamento e accessori, vasellame, oggettistica di pregio e pezzi da arredamento, infine “Pictures”. Le ventitré opere elencate, diverse per tecnica e raggruppate sotto i nomi degli artisti, hanno in comune il soggetto e l’esecuzione contemporanea: sono ritratti della proprietaria in scala al vero o in dimensioni vicine a essa in diversi atteggiamenti o nelle vesti di personaggi mitologici, come Circe, o storici, come la contessa di Castiglione, tutti dotati di buone cornici; nella lista non c’è nessuna opera antica, non sappiamo se Luisa ne collezionasse, i suoi interessi per l’arte antica non sono chiari. Potrebbe aver acquistato, credendola di Bernardino Luini, una Madonna col bambino e il cardellino poi battuta a un’asta Christie’s a Londra l’8 luglio 2008 con l’attribuzione ad Albertino Piazza da Lodi e l’attraente provenienza dalla collezione privata della marchesa.

 

 

Albertino Piazza da Lodi, Madonna col Bambino e il cardellino, ca. 1520, cm 31.8 x 23.5, olio su tavola, collezione privata (copyright: © Christie’s Images Limited [2008])

 

Però il 5 dicembre 1917 d’Annunzio aveva risposto così a una lettera di Luisa (non giunta a noi): “Conosco questa effigie dell’Estense; anzi posseggo la medaglia, e amo infinitamente il rovescio” (cito da d’Annunzio, Infiniti auguri alla nomade, p. 106). Non ci è noto se Luisa si sia procurata un esemplare della medaglia col ritratto di una [o un?] Estense (forse proprio Isabella), oppure se più semplicemente abbia inviato al poeta una riproduzione della medaglia, di cui egli dichiara di essere già in possesso. Con le medaglie d’Annunzio s’impiccia più volte: chissà se, nella lettera, fa confusione con le medaglie pisanelliane di Cecilia Gonzaga e Novello Malatesta che egli cita ne Il Fuoco; e chissà se d’Annunzio possedeva un esemplare della medaglia di Isabella d’Este dovuta a Gian Cristoforo Romano.

 

 

Giancristoforo Romano, Medaglia di Isabella d’Este, 1498, bronzo, forata – fusione, diametro: 39 mm, Bologna, Museo Civico Archeologico, inv.: MCA-NUM-22765

 

 

Certo è che all’asta dei beni di d’Annunzio nella Villa La Capponcina nel giugno 1911 andò il lotto 540: “Tre medaglie di bronzo, due con effige [sic] Eleonora Estense e nel verso due diverse allegorie opera del Pisanello”.

Sicuro è che il ritratto di Boldini che nel 1909 inaugura la fama pubblica della marchesa come opera d’arte vivente è in debito con il più celebre (non il più bello) ritratto femminile del Rinascimento, la Gioconda: l’armamentario sfoggiato dalla Casati nel dipinto era piuttosto chiaro al pubblico contemporaneo, poi la comprensione del suo significato scemò piano piano, complice anche la difficoltà di accesso al quadro da parte di chi ne ha scritto nel tempo.

La marchesa vi compare come una dea degli inferi del Novecento parigino apparsa nello studio di Boldini, superando in enigmaticità perfino Monna Lisa dimorante nel palazzo del Louvre; non a caso, fino al 1913 d’Annunzio si rivolge in privato a Luisa usando l’epiteto ‘Monna Lisa’. La moda del ‘sorriso alla Gioconda’, ormai intesa come fatale donna-vampiro, aveva attecchito negli ambienti intellettuali parigini a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento ed era stata diffusa in Italia proprio da d’Annunzio (lo spiega bene un libro classico e bello scritto dal professore di Letteratura inglese che ha ispirato il personaggio di Burt Lancaster in Gruppo di famiglia in un interno, Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930), Introduzione di P. Colaiacomo, con un saggio di Francesco Orlando, Firenze, 1999, pp. 215-218: 217).

Nel ritratto di Boldini, Luisa è accompagnata dai suoi due levrieri neri, Erebo  e Lete, di proprietà della marchesa tra il 1908 e il 1909 (ne scrive d’Annunzio in una lettera in Infiniti auguri alla nomade, pp. 44, 48). Luisa indossa guanti bianchi e soprabito e abito da passeggio di seta nera e viola, in vita sfoggia un bouquet di violette (fiore favorito di d’Annunzio per gli omaggi femminili). Si accinge a entrare nello studio di Boldini o forse ne sta uscendo. Che l’effigiata abbia definitivamente superato certe mode in voga poco prima viene recepito subito, nel primo commento apparso il giorno dopo l’inaugurazione della mostra, Les Salons de 1909. Société Nationale des Beaux-Arts, uscito su “Le Figaro” di mercoledì 14 aprile 1909 (55° Année, 3° Série, N. 104, pp. 4-6: 5).

L’autore, Arsène Alexandre, chiama in causa Carpaccio, Tintoretto e Goya come ‘primitivi’ ai quali si è ispirato Boldini, capisce la modernità estrema della combinazione dei colori e del superamento di una certa forma di realismo nel ritratto; ma quando passa a commentare fisionomia, mimica facciale e abbigliamento della marchesa (i grandi occhi resi ancora più ampi da gocce di atropina, il vestito e gli accessori inconsueti perché tenuti addosso per posare in un interno), pur riconoscendo il clima complessivamente ctonio e infernale, alla fine arriva a contrapporre la rappresentazione della marchesa alla Gioconda, anziché accostarla ad essa: il ritratto in qualche modo segna il superamento del primato dell’enigmaticità femminile in Francia fino a quel momento spettante, per gli stessi motivi (presunta diabolicità ecc.), alla misteriosa effigiata del Louvre.

La vicenda fin qui evocata tocca un punto fondamentale nella storia delle collezioni d’arte della Casati. A partire dal 1908 la marchesa è insieme musa, collezionista e mecenate e commissiona esclusivamente propri ritratti; non fa distinzione tra tecniche, materiali e generi e fonda su una capillare diffusione delle riproduzioni dei ritratti, oltre che sulle esposizioni d’arte (a Parigi, alle Biennali veneziane, alle mostre romane e milanesi), la codificazione di un’immagine ispirata anche a modelli rinascimentali, pianificata in dialogo con d’Annunzio e allineata ad alcuni dei più avanzati risultati della ricerca d’archivio su temi storico-artistici.

Tra l’ingresso di Luisa nella mitologia letteraria con il composito personaggio di Isabella Inghirami nell’ultimo romanzo di d’Annunzio e la più tarda menzione della donna col nome di ‘Coré’ da parte dello stesso autore nelle Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire corrono venticinque anni (tenendo conto delle date di pubblicazione delle due opere, non delle fasi di redazione); tale lasso di tempo coincide grosso modo con il periodo durante il quale la marchesa lascia il segno nel mondo delle arti visive, dello spettacolo e della cultura in generale.

Prima di conoscere Boldini a Venezia, l’incontro più gravido di conseguenze con un artista è quello che Luisa ha nel 1906 a Roma con un illustratore in bianco e nero esperto anche nella pittura e nelle tecniche miste, Alberto Martini. L’inclinazione di Martini ad assecondare la vena macabra e onirica della committente, la specializzazione dell’artista come illustratore, l’amicizia stretta con la moglie di Martini, Maria Petringa, contribuiscono a consolidare il rapporto. Martini diventa il ritrattista di fiducia di Luisa che lo mette sotto regolare contratto e gli chiede dodici ritratti realizzati dal 1912 al 1934. Non tutti i dodici ritratti sono giunti fino a noi; erano in scala al vero o superiore, come quello a pastello, alto tre metri e mezzo, esposto nella sala 19 della Biennale di Venezia nel 1914 in cui la marchesa era una donna-farfalla, promosso sulla rivista “Emporium” da un ammirato Vittorio Pica in Alberto Martini pastellista e litografo.

 

Alberto Martini, La marchesa Luisa Casati come donna-farfalla (Lent reveil après bien de métempsycoses), 1912, pastello, da Vittorio Pica, Alberto Martini pastellista e litografo, «Emporium», Vol. XLI, 1915, n. 244, pp. 262- 272: 267-268.
Roberto Montenegro, Luisa Casati come Coré/Persefone con un abito di Bakst e Poiret, tavola fuori testo in Vittorio Pica, Due giovani illustratori americani (Roberto Montenegro e Gregorio Lopez-Naguil), “Emporium”, Vol. XLI, 1915, n. 241, pp. 19-37
La rivista “Emporium” è digitalizzata e interrogabile online nella banca dati della Scuola Normale Superiore qui: https://emporium.sns.it/

 

 

Ancora su “Emporium” lo stesso critico Vittorio Pica riproduce in una tavola fuori testo il ritratto a china del giovane illustratore messicano Roberto Montenegro, per il quale la Casati posa, in un costume disegnato da Leon Bàskt e tessuto d’argento da Paul Poiret, nei panni di ‘Coré’ con in mano una melagrana, frutto consacrato come simbolo personale da d’Annunzio nel romanzo Il Fuoco: l’epiteto greco ‘Coré’, allusivo a Persefone, sostituisce quello di ‘Monna Lisa’ almeno dal 1913, quando d’Annunzio si rivolge a Luisa in privato.

Sul ritratto il poeta si esprime così: “Il ritratto d’oro è molto bello. E Coré porta la mia melagrana: il pomo pùnico!” (la lettera è in d’Annunzio, Infiniti auguri alla nomade, p. 97). L’ambientazione che spinge all’estremo il decorativismo allusivo del talentuosissimo illustratore wildiano Aubrey Beardsley consente a Pica di inserire il ritratto in un canone figurativo contemporaneo piuttosto alto, “accanto alle altre glorificatrici immagini che della snella e flessuosa persona, dalla grazia aristocraticamente raffinata, dell’intellettuale gentildonna lombarda hanno fissato, sulla tela e sulla carta o nella cera, Boldini e Bàkst, Martini e Troubetzkoy”.

Molto articolato è anche il rapporto di Luisa con i Futuristi tanto che la marchesa ne finanzia alcune attività. La marchesa nel 1913 possiede anche Forme uniche della continuità nello spazio, la statua più famosa di Umberto Boccioni, oggi al Museo di San Paolo e fusa in alcuni esemplari in bronzo dopo la morte dell’artista. Il capitolo XI del romanzo di Filippo Tommaso Marinetti L’alcova d’acciaio, pubblicato nel 1921 e riferito ad avvenimenti relativi all’ultimo anno di guerra, è dedicato a La marchesa Casati e i balli futuristi.

 

 

Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913, gesso originale, 126,5 x 89 x 40,5 cm, Museu de Arte Contemporãnea (MAC) da Universidade de São Paulo (USP), a San Paolo (São Paulo)

 

 

Queste frequentazioni generano fuori tempo massimo una delle chicche letterarie più memorabili del Novecento: tra i diversi ritratti di Luisa realizzati da Giacomo Balla spiccava un busto polimaterico con La marchesa Casati con gli occhi di mica e il cuore di legno, con gli occhi regolati da un meccanismo semovente collegato al cuore. Marinetti lo espose alla Grande Esposizione Nazionale Futurista da lui organizzata a Milano nel 1919. Alla mostra andò anche Carlo Emilio Gadda. Grazie alla sua visita si conserva la fama del busto della marchesa, decenni dopo quell’occasione, nella superba satira che Gadda affida a un passo del racconto San Giorgio in casa Brocchi. L’ecfrasi dell’opera è tanto più straordinaria in quanto non sappiamo che fine ha fatto il ritratto, che

“era un ritratto a tre dimensioni; dove le diverse falde cromatiche, bianco del viso, rosso delle gote, nero dei sopraccigli, eccetera, erano costituite da pezzi di legno, di cuoio e di panno colorato, armati alcuni con fil di ferro, i quali ruotavano a cerniera su dei pernetti infissi al posto delle ghiandole lacrimali e anche sotto, lungo tutto il naso, che era di zinco, nel mentre le occhiaie amorose e profonde della stupenda marchesa potevano sventagliare alla lor volta in un numero infinito di direzioni, a piacere dei visitatori, ed erano due ritagli di latta. Anche le pupille, dal di dietro del ritratto, si potevano manovrare abbastanza facilmente per modo da far roteare a volontà lo sguardo della marchesa, portandolo a trafiggere d’un dardo concupiscente il primo salumiere che entrasse: sebbene… qualche manovratore inesperto finiva per cavarne dei dolorosi effetti di strabismo” (cito da Carlo Emilio Gadda, Opere, edizione diretta da Dante Isella, II. Romanzi e racconti, Milano, 19993, p. 677).

 

 

La Marchesa Casati, con gli occhi di mica e il cuore di legno. Assieme plastico ritratto – del futurista Balla, copertina di «Il Mondo», V, 75, 30 marzo 1919

 

 

L’apprezzamento della Casati per la polimatericità recuperata dai Futuristi va di pari passo con una vera e propria ossessione per maschere ed effigi di cera che pervade l’Europa contemporanea, tra studi scientifici, mercato e musei. Di riflesso, anche il personaggio di Isabella Inghirami in Forse che sì forse che no, alla fine della visita alla reggia dei Gonzaga mostra interesse per le maschere.  La Casati comincia a commissionare propri ritratti in cera dal 1913: uno di essi (abbigliato con il costume argenteo indossato per posare per Montenegro), compare come ‘doppio’ della marchesa alla fine della prosa poetica erotico-macabra La figure de cire, che d’Annunzio avrebbe dovuto pubblicare in un volumetto da Treves fin dal 1913 corredandolo con un ritratto di Luisa, come si deduce dalla più tarda lettera del 29 gennaio 1924 in cui Luisa specifica: «Ecco due disegni di Drian. La fotografia per la Figura di cera non è pronta. Prendi per il libro quella che ho dato” (cito da Infiniti auguri alla nomade, p. 132). È fortemente probabile che Luisa si riferisca a una delle due copie di una fotografia entrata quasi nel mito che le aveva scattato Man Ray a Parigi due anni prima, poi ritrovata nello scrittoio dell’Officina della Prioria al Vittoriale in una busta sulla quale si legge: “La figura di cera | Gli occhi di vetro e gli occhi morenti…| Coré – Coré – Coré”.

 

 

Man Ray, Luisa Casati, fotografia in una cornice con la dedica della marchesa a d’Annunzio nello scrittorio dell’Officina della Prioria al Vittoriale

 

 

Il testo della prosa La figure de cire poi venne inglobato da d’Annunzio nel Libro segreto uscito nel 1935. Il ritratto in cera non è ancora individuato con sicurezza; a una «figura di cera» in suo possesso, sicuramente in miniatura, fa riferimento nel febbraio 1922 d’Annunzio descrivendo la statuetta “vestita di merletti preziosi e ornata del toson d’oro. Fragilissima, ha sfidato i viaggi e i pericoli. Non le manca neppure un dito delle tenuissime mani. Sembra un’immaginetta foggiata per l’involtura”, forse corrispondente a una statuetta polimaterica anonima tre le migliaia che popolano il Vittoriale.

La fortuna inarrestabile dell’iconografia della marchesa non si ferma, tanto da arrivare fino a creazioni teatrali e cinematografiche di cui Qui rido io, da cui sono partita, è la penultima. Difatti mentre scrivevo ho visto sullo schermo cinematografico più grande di Milano (che ha sensibilmente favorito il mio apprezzamento) uno dei film più falcidiati dalle mancate candidature agli Oscar, Babylon di Damien Chazelle, che ha fatto arrabbiare la critica americana come l’immagine di Calibano riflessa nello specchio (sto parafrasando la prefazione di Oscar Wilde al suo Ritratto di Dorian Gray): il fatto è che Babylon è tratto quasi completamente dal leggendario libro gossipistico Hollywood Babylone pubblicato nel 1959 dal regista Kenneth Anger, una sorta di parallelo, per il cinema hollywoodiano, di Lo specchio della moda di Beaton; ma Hollywood Babilonia è tradotto in italiano e ristampato per Adelphi anche recentemente.

 

 

La copertina della ristampa italiana di Kenneth Anger, Hollywood Babilonia, Adelphi 2021

 

 

Di Hollywood Babylone la sceneggiatura del film modifica i nomi, ma il risultato risulta indigesto agli americani farisei come il libro a cui è ispirato. Pertanto Margot Robbie e Tobey Maguire subiscono la stessa damnatio inflitta al film nel quale recitano e non sono stati candidati, come forse avrebbero meritato, a migliore attrice protagonista e a migliore attore non protagonista.

 

 

Diego Calva, Margot Robbie e Tobey Maguire in Babylon. Regia: Damien Chazelle. Produzione: Paramount Pictures, Marc Platt Productions, Material Pictures (USA 2022)

 

La candidatura della costumista Mary Zophres per i migliori costumi è secondaria rispetto alle candidature mancate ma almeno c’è, non fosse altro che per quell’interminabile volgare rutilante fantastico videoclip che è il ballo in maschera (nel quale la cocaina è l’irregolarità minore) con cui Babylon apre le danze.

Zophres in America è stata rimproverata di non essere stata filologa; ma come si fa a non trovare perfetta per un party hollywoodiano del 1926 Jean Smart che interpreta la fetida giornalista Elinor St. John (che evoca Louella Parsons) con in testa un mega fascinator che è praticamente una citazione di quello che indossa Marisa Berenson travestita da marchesa Casati (che era diventata subito famosa anche negli USA, quando vi era andata, proprio per i suoi abiti e accessori) con un costume ideato da quel genio di Piero Tosi e fotografata da Cecil Beaton nel dicembre 1971 per il numero di gennaio 1972 di “Vogue” durante uno dei balli in maschera più mitici del Novecento, il Proust Ball organizzato dai Rotschild per festeggiare un secolo dalla nascita di Proust?

Se si aggiunge che in Babylon Smart/St. John/Parsons dichiara la propria superiorità rispetto agli attori dei quali scrive guardandoli dall’alto (proprio fisicamente dall’alto, come Sin/Casati nel film di Di Majo-Martone) sibilando a un’assistente: “Ma chi me lo fa fare? Guarda quegli idioti! Io ho letto Proust, capisci?!”, allora il cerchio si chiude (e qui rido io).

 

 

Cecil Beaton, Marisa Berenson vestita da Piero Tosi come la Marchesa Casati per il Rothschild “Proust” Ball, 12 dicembre 1971

 

Diego Calva e Jean Smart in Babylon. Regia: Damien Chazelle. Produzione: Paramount Pictures, Marc Platt Productions, Material Pictures (USA 2022)

 

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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