Lusso, fiamme e Volontà. La pittura su pietra dal Cinquecento all’eternità

Recensione della mostra Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento (Roma, Galleria Borghese, 25 ottobre 2022-29 gennaio 2023)

 

Ebano, lega metallica dorata, diaspro rosso di Giuliana, lapislazzuli, ametista, diaspro giallo-verde di Giuliana, agata, foglia d’argento, vetro, abete, pioppo, legni tropicali, corno, bronzo dorato, argento, argento dorato, cera, ardesia… Non è la lista di ingredienti per un incantamento, ma l’elenco dei materiali di due dei pezzi più spettacolari nel loro genere che sono esposti alla mostra Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento, in corso alla Galleria Borghese a Roma fino al 29 gennaio per le cure della Direttrice Francesca Cappelletti e di Patrizia Cavazzini. Le studiose hanno curato anche il bel catalogo, che è un libro meritoriamente dotato anche di Indice dei nomi, raramente presente nell’editoria da mostra.

I due oggetti a cui faccio riferimento sono esposti al piano terra della Galleria, nella sala a cui si accede dopo essere usciti da quella di Caravaggio, dove c’è il più alto numero di quadri del pittore in un unico museo, tra cui il Giovane con la canestra di frutta: da quest’opera Cappelletti ha fatto eliminare il vetro il 23 agosto 2021 “in linea anche con la riappropriazione fisica del museo dopo i mesi di chiusura. Il vetro peraltro non aveva ragione di restare, era lì per inerzia, e dei sei quadri di Caravaggio era l’unico ad averlo. Nessun motivo conservativo. Per cui, via. Ora questa visione svelata permette davvero di ammirare tutta la maestria del pittore fin nei dettagli, straordinari” (cito dall’intervista con Edoardo Sassi per il “Corriere della sera” del 23 agosto 2021).

Ora il ministro Sangiuliano vorrebbe coprire tutti i quadri musealizzati per proteggerli dagli attacchi degli ambientalisti e di eventuali vandali: “Musei gratis? Non possiamo che prevedere un aumento del costo del biglietto d’ingresso. Bisogna aumentare la sicurezza per impedire il vandalismo degli ambientalisti, ci saranno spese per mettere il vetro a tutti i quadri” (la dichiarazione del ministro è riportata da Salvatore Merlo su “Il Foglio” del 22 novembre) . Vedremo se, anche ragionando sui costi oltre che sulle ragioni storiche, si procederà in questa costosissima e antistorica direzione (che tra l’altro predilige, in linea teorica, i quadri nei musei rispetto a quelli nelle chiese, totalmente incustoditi) oppure semplicemente (e ove la struttura lo consenta e nel rispetto della legge) controllando le borse dei visitatori all’ingresso, senza particolari misure poliziesche di sorta come qualcuno ha anche ventilato.

Vengo ai due oggetti da cui sono partita, entrambi allestiti nel Salone di Mariano Rossi sotto la scenografica statua equestre con Marco Curzio che si getta nella voragine del Foro per salvare Roma attribuita a Pietro, il padre di Gian Lorenzo Bernini (all’epoca del cardinal Scipione Borghese il gruppo composto dal cavallo antico, risalente al II d.C., e dal cavaliere, risalente al 1618, si trovava all’esterno della Palazzina, sulla facciata verso Porta Pinciana).

Il mobile noto come Stipo Borghese-Windsor ha la forma di una chiesa, è dotato di settantaquattro cassetti segreti, è insolito per dimensioni, varietà di materiali e accuratezza nelle finiture. È una vera e propria cattedrale da salone appartenuta ai Borghese dal 1673, poi ai Windsor dal 1827 al 1959, poi comprata all’asta dal J. Paul Getty Museum nel 2018.

Questa cattedrale dell’ingegno intorno al 1620 è fatta di abete, pioppo, ebano, legni tropicali, corno, intarsio di pietre dure, decorazioni in bronzo dorato, argento e argento dorato (per la prima volta il prestito permette il ritorno a Roma dell’opera; la scheda in catalogo è alle pp. 126-131). Guardare lo stipo, girarci intorno, esaminarne i minimi, colorati dettagli ricorda al visitatore che uno degli usi privilegiati della pietra commessa è la sua duttilità nel rappresentare architetture in miniatura, in particolare le facciate delle chiese, che contemporaneamente rappresentano anche un microcosmo enciclopedico delle pietre.

 

 

Lo Stipo Borghese-Windsor, 1620 ca., abete e pioppo, ebano, legni tropicali e corno; intarsio di pietre dure; decorazioni in bronzo dorato, argento e argento dorato, 178 x 126 x 154 cm, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum; sullo sfondo, la sala con il Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini.

 

 

Guglielmo della Porta, Crocefissione, 1550-1577 ca., cornice: ebano, lega metallica dorata, diaspro rosso di Giuliana, lapislazzuli, ametista, diaspro giallo-verde di Giuliana, agata, foglia d’argento, vetro?, 148 x 86 cm, rilievo: cera su ardesia, Roma, Galleria Borghese. In alto sullo sfondo, Marco Curzio che si getta nella voragine del Foro per salvare Roma attribuito a Pietro Bernini.

 

 

La Crocefissione a rilievo in cera su lastra di ardesia fa sicuramente parte delle collezioni Borghese dal 1619 e la sua attribuzione a Guglielmo della Porta risale al 1935 e si deve a uno dei massimi studiosi di scultura italiana del Rinascimento, Ulrich Middeldorf. L’impiego della cera potrebbe giustificarsi con una originaria destinazione del rilievo a un progetto che prevedeva pannelli bronzei monumentali. La raffinatezza e la modulazione dell’intaglio hanno reso il modello stesso un oggetto da collezione da mostrare incastonato nella cornice multiforme, nella quale spiccano alcuni tipi di diaspro molto rari tra cui il diaspro verde e giallo listato di cui è fatta la lastrina al centro del timpano curvilineo. Questo diaspro proviene dalle cave siciliane di Giuliana e prende il nome di “borghesiano” perché se ne conosce l’uso solo in un’altra occasione, la decorazione dell’altare della cappella Borghese in Santa Maria Maggiore a Roma (1605-1613; la scheda sulla Crocefissione è alle pp. 136-137 del catalogo).

 

 

Le copertine del catalogo della mostra Meraviglia senza tempo e degli Itinerari, entrambi editi da Officina Libraria.

 

 

La mostra rientra nella serie delle esposizioni pensate dalla Direttrice della Galleria Borghese, di concerto con altri studiosi, nel solco di un percorso di ricerca unitario iniziato nel 2021 con l’approfondimento del tema della Natura e del Paesaggio all’interno della collezione permanente del museo. Anche in questa occasione la mostra temporanea si salda alla collezione permanente e al territorio con un agile volume di Itinerari in italiano e in inglese (degli Itinerari stampati a ruota di una delle precedenti mostre in Borghese e, in generale, di questo tipo di letteratura periegetica moderna legata alle mostre “Bee magazine” ha parlato il 21 giugno e il 15 luglio). Curati dalle stesse Cappelletti e Cavazzini, con testi di Piers Baker-Bates, Francesca Parrilla, Enrico Parlato, Mauro Casaburo, Costanza Barbieri, gli Itinerari si intitolano Alla ricerca dell’eternità. Dipingere sulla pietra e con la pietra a Roma. La guida permette a chi abita a Roma e a chi la visita di raggiungere a piedi molta parte del patrimonio pubblico accessibile gratuitamente, coincidente quasi completamente con chiese adibite al culto, per individuare le pale d’altare dipinte su pietra che (per ovvie ragioni conservative e per non strappare le opere al loro contesto) non sono esposte in mostra. Gli Itinerari questa volta permettono visite da compiere in poche ore, in pochi minuti tra un impegno e l’altro o da distribuire su più giorni, permettendo l’impagabile opportunità di vedere molti capolavori a casa loro, in un solo luogo, spesso in privilegiata solitudine. Gli Itinerari questa volta hanno un valore aggiunto in relazione alla fruizione del patrimonio pubblico:

“È il secondo esperimento di una serie che mira a portare oltre le pareti del museo e del circostanziato arco temporale di una mostra le ricerche svolte durante la sua preparazione. L’itinerario delle opere di Guido Reni a Roma, pubblicato la scorsa primavera, ha accompagnato il visitatore della retrospettiva Guido Reni a Roma. Natura e devozione oltre il percorso all’interno delle sale, a riscoprirne l’intera carriera, ricostruendo, grazie a una interminabile passeggiata, la fortuna dello stile dell’artista, che continuò a trovare nella città uno scenario per le sue opere, anche dopo il suo primo fondamentale soggiorno. Questo volume, non meno importante, accompagna i lettori alla scoperta di opere spesso non molto note, in chiese non sempre aperte. Durante la mostra alcune di loro lo saranno e, per il futuro, la documentazione fotografica, realizzata appositamente in questa occasione, darà la possibilità di conoscerle e studiarle, anche se i luoghi in cui si trovano dovessero continuare a essere poco accessibili” (così Francesca Cappelletti spiega finalità e funzione del libro a p. 7 della sua premessa, Alla ricerca della pietra nascosta).

 

 

Sebastiano del Piombo e Francesco Salviati, Natività della Vergine, 1532, olio su lavagna, cm 252 x 198 cm, Roma, basilica di Santa Maria del Popolo, Cappella Chigi.

 

 

È il caso della basilica di Santa Maria del Popolo, dove oltre alla Cappella Chigi, che da sola riunisce una genealogia altissima della storia dell’arte (da Raffaello a Bernini) e dove gli Itinerari prevedono una sosta per la Natività della Vergine dipinta a olio su lavagna dall’inventore della tecnica, Sebastiano del Piombo (poi terminata da Francesco Salviati), esistono altri ambienti ricchi di capolavori. Qui si possono anche vedere due dei sei quadri di Caravaggio accessibili gratuitamente nelle chiese di Roma, la Conversione di Saulo e la Crocifissione di Pietro, laterali della Cappella Cerasi sul cui altare c’è la pala con l’Assunta di Annibale Carracci.

La cappella è un concentrato di ciò che piace a Roma all’inizio del Seicento ai ricchi committenti. Soggetti e collocazione delle opere dimostrano che in quel momento una pala di Annibale Carracci e della sua bottega (impegnati nella profana Galleria Farnese) ha maggiore rilievo di due quadri di Caravaggio. A questo proposito, gli Itinerari richiamano l’attenzione anche su un dato materiale strettamente collegato al tema di fondo della guida e della mostra. Inizialmente i tre quadri per la Cappella Cerasi sarebbero dovuti essere dipinti non su tela, ma su tavole di pioppo. Infatti la tela come supporto per la pittura non è consueta a Roma e nel secolo di Caravaggio non è il supporto privilegiato. Anche in questi casi, la motivazione di fondo della scelta di un supporto lapideo, o ligneo, è la presunta eternità dell’opera garantita dalla durevolezza del supporto.

L’inventore della tecnica della pittura a olio su pietra e su supporti alternativi alla tavola e alla tela per rendere durevole l’opera sarebbe il veneziano Sebastiano del Piombo secondo Giorgio Vasari: “ha lavorato sopra le pietre di peregrini, di marmi, di mischi, di porfidi e lastre durissime, nelle quali possono lunghissimo tempo durare le pitture; oltre che ciò, ha mostrato come si possa dipingere sopra l’argento, rame, stagno e altri metalli”. La mostra dedica una sezione apposita, II. La pietra dipinta e il suo inventore, ai primi oggetti di questo tipo, offrendo anche l’occasione praticamente inedita di vederli tutti insieme, perché sono in collezioni private e in musei italiani e stranieri.

È il caso del Ritratto di Clemente VII dipinto a olio su lavagna da Sebastiano nel 1530 ca. (la scheda sull’opera è alle pp. 154-155 del catalogo). Il papa figlio di Giuliano de’ Medici e nipote di Lorenzo il Magnifico si fa crescere la barba per un voto a seguito del tremendo Sacco di Roma del 1527, significativo anche per le conseguenze sulla storia dell’arte. Gli artisti si disperdono in giro per l’Italia; nel nostro caso, la presunta durevolezza dei supporti prende spesso il sopravvento sulla resa finale delle opere. È il caso di un altro ritratto di un membro della famiglia Medici, il duca Cosimo I, figlio di Giovanni dalle Bande Nere e bisnipote di Lorenzo il Magnifico, dipinto a olio su porfido probabilmente da Bronzino, forse come dono diplomatico per la corona di Spagna. Il porfido diventa il materiale per eccellenza deputato a ritrarre i re fin dalla prima tetrarchia e il colore rosso della pietra viene ritenuto affine alla regalità e al carattere sacro del potere. A Firenze Cosimo I accumula consistenti quantitativi di porfido, che evidenzia la longevità del potere mediceo e la forza dell’effigiato (in catalogo le schede sono alle pp. 154-155 e 164-165).

Il collezionismo e la lavorazione delle pietre dure a Firenze hanno una tradizione importantissima, del resto, che nei nostri studi confluisce nel 1980 nelle monumentali mostre e cataloghi fiorentini Firenze e la Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, tra cui Palazzo Vecchio: committenza e collezionismo medicei 1537-1610, a cura di Paola Barocchi, e Il potere e lo spazio. La scena del principe, a cura di Franco Borsi, con una particolare attenzione a cammei, intagli, mobili, pietre dure (nel primo volume) e a Arti decorative: cultura e strumenti di progetto, Arti decorative: oggetto e società, La Cappella dei principi e le pietre dure (nel secondo volume). Per volontà di Ferdinando de’ Medici, inoltre, inizialmente per la lavorazione delle pietre nasce l’Opificio delle Pietre Dure (OPD), poi evolutosi nell’attuale eccellente Istituto di restauro.

 

 

Sebastiano Luciani detto Sebastiano del Piombo, Ritratto di Clemente VII, 1530 ca., olio su lavagna, cm 50 x 30, Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Collezione Farnese, inv. Q 1930, n. 141.

 

 

Agnolo Tori detto il Bronzino (attribuito), Ritratto di Cosimo I de’ Medici, 1560 ca., olio su porfido rosso, cm 16,6 x 13,5, Madrid, collezione Abelló.

 

 

Altre sette sezioni riguardano sviluppi e implicazioni storiche e semantiche della competizione della pittura su pietra con gli altri supporti e con la scultura e l’architettura tra Cinquecento e Seicento. La competizione tra le arti si instaura nelle collezioni dall’inizio del Seicento, che si configurano come spazi nei quali il confronto tra i pezzi permette la verifica dei dibattiti teorici. Soprattutto quando gli artisti lasciano a vista il supporto lapideo, dialogando con esso e dandogli autonomia figurativa, “si crea un punto di incontro fra interessi naturalistici e passione per l’arte figurativa, due istanze che convivono nelle collezioni romane di fine Cinquecento” (cito dal saggio di Francesca Cappelletti, Interrogare la pietra, p. 16).

La pietra dipinta entra nei due diversi tipi di raccolte che si formano in Europa: la galleria e la wunderkammer, assecondando anche esigenze decorative e d’uso, dato che può essere usata per i mobili, per tavoli e cornici, oltre che per quadri e sculture. Per la durabilità dei materiali, per il loro valore e per la fattura questi oggetti sembrano trascendere le mode: diversi pezzi tra quelli in mostra si integrano con pezzi che facevano parte della collezione di Scipione Borghese rimasti in Galleria.

Da qui non si è mai mosso uno degli oggetti messi in luce dalla mostra, che certo deve avere fatto sorridere il mondano Scipione quando, come è verosimile, lo ha ricevuto in dono: la formella con Un uccello (cardinale rosso) sembra infatti una rappresentazione allegorica del cardinale, colto a sufficienza per riconoscere un suo criptoritratto giocoso in forma di ‘cardinale rosso’, una specie volatile di origine americana con un piumaggio rosso che evoca il colore delle vesti cardinalizie.

 

 

Maestranze toscane (?), Un uccello (cardinale rosso), primo quarto del XVII secolo, commesso di pietre dure, 19 x 24 cm, Roma, Galleria Borghese, inv. 485.

 

 

Tra gli oggetti di marmi colorati rimasti in Galleria ci sono anche statue secentesche polimateriche fatte realizzare a partire da un pezzo antico da scultori moderni: è il caso della cosiddetta Zingarella di Nicolas Cordier, della quale è antico il marmo grigio del mantello.

 

 

Nicolas Cordier, La zingarella, 1607-1612, marmo, bronzo, Roma, Galleria Borghese, inv. CCLXIII, fotografata il 16 novembre scorso alla mostra Recycling Beauty, Milano, Fondazione Prada, 17 novembre- 23 febbraio 2023, a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola con Denise La Monica e progetto di allestimento di Rem Koolhaas/OMA (“Bee magazine” parlerà della mostra e del catalogo prossimamente).

 

 

Il cardinal nipote più rapace del Seicento (amante della pittura e della scultura antiche ma anche della pittura di Caravaggio) e i suoi contemporanei collezionisti avevano un concetto di cosa fossero l’esibizione del lusso e i ‘beni di posizione’ piuttosto diverso da quello, usa e getta, della maggior parte dei milionari di oggi: gli stipi, i vasi, le statue, i quadri di pietra dovevano durare per sempre ed essere esibiti e tramandati in eredità a testimonianza del potere, delle azioni e delle ricchezze del primo proprietario e della sua famiglia o del destinatario, se l’oggetto era un regalo.

La sezione VII. Antico e allegoria spiega anche che, mentre un giovane pittore milanese violento e ambizioso cercava di affermarsi a Roma, andava assai di moda la pittura mitologica su pietra, che permetteva tra l’altro di custodire in casa propria preziose immagini di ragazze nude, incatenate alla roccia, e simili alla pietra stessa, di cui gli uomini che arrivano a salvarle possono fare praticamente ciò che vogliono. È il caso del Perseo e Andromeda, che il titolare della bottega di maggiore fama a Roma, il Cavalier d’Arpino, dipinge a olio su pietra paesina, una varietà di calcare alberese figurato presente su tutto l’Appenino settentrionale, che offriva già in natura venature e cromie simili a quelle che un pittore si aspettava per realizzare un paesaggio di sfondo o che poteva impiegare in intarsi per mobili e altri oggetti di arredamento (la scheda sull’opera è alle pp. 242-243 del catalogo).

Il Cavalier d’Arpino dipinge Perseo e Andromeda almeno dieci altre volte su sette supporti diversi. Nel 1592, poco prima di iniziare a dipingere le versioni del mito su pietra, accoglie il giovane pittore milanese tra i suoi collaboratori; ma Caravaggio si stanca presto di dipingere solo nature morte di fiori e frutta e trova di meglio dimorando dal Cardinal del Monte.

 

 

Giuseppe Cesari detto Cavalier d’Arpino, Perseo e Andromeda, 1593-1594, olio su pietra paesina, cm 14 x 11, collezione Pajelu.

 

 

Il nero lucido degli sfondi di numerose opere esposte in mostra è ciò che più attirava i collezionisti negli anni Venti del Seicento. Aggiornando con l’uso del supporto nero la fortuna della pittura tenebrista di ascendenza caravaggesca, praticata da artisti italiani e nordici, sulla pietra nera si potevano dipingere soggetti allegorici, religiosi ma anche storie profane e truci che potevano accadere solo in un buio rischiarato dal fuoco: quindi stregonerie e incendi epici come quello di Troia erano soggetti opportuni.

Una scena di saccheggio, distruzione e violenza è uno dei rarissimi dipinti del fiorentino Stefano Della Bella, che studiò da orafo e diventò uno dei maggiori incisori del Seicento, protetto da don Lorenzo de’ Medici. Al mecenate di Stefano apparteneva l’Incendio di Troia a olio su marmo nero del Belgio, un supporto ancora più rilucente della pietra di paragone con la quale il marmo in passato è stato spesso scambiato in relazione a questo oggetto. Il supporto prevale sulla pittura e le parti a nudo evocano l’effetto devastante delle fiamme rosse (la scheda in catalogo è alle pp. 216-217, nella sezione V della mostra e del libro, Una notte nera come la pietra). L’effetto è quello che cercava chi collezionava notturni dipinti su pietra nera: il supporto sembra un palcoscenico di un teatro con una scena di massa e macchine (il cavallo sullo sfondo) e apparati effimeri e i protagonisti sul proscenio, con tanti punti di fuga che consentono agli occhi di indagare a lungo e più volte i fatti che accadono ai personaggi.

 

 

Stefano Della Bella, L’incendio di Troia, 1637 ca., olio su marmo belga, cornice in ebano con marmi commessi, 43,5 x 58, 5 (ovale), Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 4974.

 

 

Lo stesso effetto di coinvolgimento in una scena notturna o solenne persegue il veronese Alessandro Turchi detto l’Orbetto in un quadro a olio su lavagna in cui si compie uno dei miracoli più terrificanti della storia evangelica, la resurrezione di Lazzaro. Si tratta di un’altra delle opere della collezione permanente della Galleria Borghese, di particolare importanza storica perché comprata dal cardinal Scipione nel 1617. Turchi rende la lavagna lucida a tal punto da permettere allo spettatore di specchiarsi, partecipando alla scena insieme agli astanti dipinti (la scheda in catalogo è alle pp. 202-203). La riproduzione dell’opera, particolarmente rappresentativa del tipo di oggetti esposti in mostra e delle collezioni della Galleria, è stata scelta dalle curatrici per la quarta di copertina del catalogo, che riproduce anche l’effetto specchiato della lavagna.

 

 

Alessandro Turchi detto l’Orbetto, Resurrezione di Lazzaro, 1617, olio su lavagna, cm 36 x 27, Roma, Galleria Borghese, inv. 506, particolare sulla quarta di copertina del catalogo della mostra.

 

 

Prima di lasciare la Galleria, il 22 novembre mi sono fermata un poco più a lungo nella sezione VII. Antico e allegoria (che ospita anche il Perseo e Andromeda del Cavalier d’Arpino) davanti alla teca dietro cui riluce il nero riflettente della pietra di paragone su cui è dipinta un’allegoria: ne sono protagonisti due donne e un uomo seminudi che interagiscono come in un passo di danza. Alessandro Turchi attorno al 1620 ha reso riconoscibili le personificazioni di Volontà, Intelletto e Memoria dagli attributi che tengono nelle mani o sulla testa e da tre iscrizioni in latino che le accompagnano e che significano: “la volontà è come la natura del mare”; “l’intelletto in azione è qualcosa di divino”; “tabula rasa” e “storia” associate alla Memoria. Si tratta delle tre facoltà che, secondo Agostino, rendono l’uomo simile a Dio se non si disgiungono l’una dall’altra. Le tre facoltà umane sono quelle indispensabili nella vita attiva, e ragionevole, di ognuno: “la Memoria, bifronte, meditando sul passato e guardando al futuro, rifugge dallo specchio rivolto invece verso lo spettatore mentre assorta rilegge le proprie azioni registrate nel libro della storia” (cito dalla scheda sull’opera a p. 248 del catalogo della mostra). Carica di significato è la scelta del supporto, che ha addirittura un’origine mitica: nel secondo libro delle Metamorfosi di Ovidio, Mercurio punisce il pastore Batto, che ha violato un patto di silenzio su un furto commesso dal dio del commercio e del guadagno ai danni di Apollo, trasformandolo nella pietra che da allora in poi si usa per verificare se un metallo prezioso è vero o falso.

L’incantamento delle pietre dure è accresciuto dalla disposizione degli oggetti negli ambienti ricchi di capolavori che si trovano riprodotti sui manuali di storia dell’arte: se l’effetto immediato di esposizioni come questa sarà anche di invogliare a tornare nel museo che le ha ospitate e a visitare i luoghi gratuiti suggeriti dagli Itinerari, magari portando lì – e non solo in un più prevedibile bar o in un ristorante una persona cara – ancora una volta le conseguenze di una mostra saranno buone per il corpo e per la testa. Perché “l’intelletto in azione è qualcosa di divino”.

 

 

Alessandro Turchi detto l’Orbetto, Volontà, Intelletto e Memoria, 1620 ca., olio su pietra di paragone, 43 x 32 cm, Regno Unito, collezione privata.

 

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

 

 

 

 

 

 

 

 

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