Cultura

Philip Roth e “la vendetta della scimmia”

Torniamo a parlare di donne, ma facciamolo in altro modo, attraverso qualcuno che le ha vistosamente, spregiudicatamente ma anche incomparabilmente “rappresentate” in termini narrativi. A maggio saranno cinque anni dalla scomparsa di uno dei più grandi e prolifici scrittori del secondo Novecento e sembra quasi che sia calato un deliberato silenzio su di lui. Su un autore sempre “in odore di premio Nobel” e che fino all’ultima cosa scritta ha trascinato il lettore nel magma incandescente del desiderio, degli istinti primordiali concentrati sul sesso, nella convinzione che quest’ultimo sia “la vendetta sulla morte”. Scandaloso, disinibito, spudorato Roth. Tacciato- a mio avviso ingiustamente- di misoginia e perciò, si dice, poco apprezzato dalle lettrici donne. Ma come è possibile? – mi chiedo. Lui, che tra le sue prime prove narrative, nel lontano 1972, immagina di trasformarsi (ovviamente a mezzanotte che è l’ora metamorfica per antonomasia) in un seno femminile gigantesco di 70 chili! Un sogno surreale degno di Dalì, una macro-disfunzione ormonale, un’esplosione ermafroditica di cromosomi o un attacco di follia? Liscio e adiposo, rotondo e sorretto da due stringhe, questo “amputato quadruplo” che ora vive su un’amaca, sembra ignorare il galateo della perfetta mammella e, come prima reazione all’inverosimile metamorfosi, richiede all’imperturbabile Claire, all’accondiscendente Claire, prestazioni rispondenti a una libido ancora maschile. Come ridicolizzare di più e meglio quest’ultima, se non riducendola a superficiale strofinio escludente la cura e l’amorevole consenso da parte dell’altro? Altro che misoginia: i passaggi del testo relativi a quest’ossessione conservativa da parte di David Kepesh (è il nome dell’uomo-seno) sono esilaranti e oscillano tra il registro comico-grottesco, ironico e paradossale. Ma poi sfiorano anche i toni drammatici, allorché il protagonista monologante inizia un percorso critico-analitico sul SENSO di un’esperienza tanto aberrante e sul perché sia capitata propria a lui. In quest’angosciosa inchiesta, per prima cosa David

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Cultura

Attualità dell’Inattuale

Tra i rimproveri che vengono solitamente mossi alla generazione dei giovani – i cosiddetti postmillennials o generazione Z – c’è quello di aver perduto il senso della storia, di non avere profondità prospettica e di vivere in un eterno presente, veleggiando col favore delle odierne tecnologie in un mare di perenne simultaneità e orizzontalità. Vorrei spezzare una lancia a loro favore, con il soccorso- incredibile dictu – di Friedrich Nietzsche, che oggi forse ci saprebbe spiegare, meglio di tanti pensatori contemporanei, il senso del martirio della gioventù iraniana mentre rinnega i propri legami con la tradizione, con il passato e con le consuetudini religiose. Tra gli scritti del filosofo che ogni tanto amo rileggere, attratta dagli aspetti anche creativi del suo pensiero, tramato com’è di apologhi, metafore, parabole laiche, figurano Le considerazioni inattuali, un’opera considerata a torto “minore”, divisa in quattro sezioni che non rivelano particolari legami tra loro, se non riconducendole alla filigrana polemica e anti-filistea del pensiero del “maestro del sospetto” quale tutti conosciamo. Riflettendo su alcuni passaggi della seconda delle sue Inattuali rimango ancora una volta stupita, oltre che per i legami serratissimi, anche se impliciti, con i grandi scrittori del primo Novecento, soprattutto per la modernità della prospettiva che essa offre in termini culturali. Il titolo “Sull’utilità e il danno della storia per la vita” indica il focus del discorso che riguarda il valore e il non-valore della storia, legittimando fin dagli esordi l’impostazione critica del filosofo e il suo sentimento “inattuale”, cioè antistoricistico. La citazione di Goethe che apre la Prefazione (D’altronde detesto tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza ampliare o eccitare immediatamente la mia attività) è già un chiaro indizio del rifiuto della tradizionale concezione della storia come “magistra vitae”, e introduce all’idea, indubbiamente inattuale, che il senso storico contemporaneo sia una “virtù

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Cultura

Impudica mens. Riflessione sulla parola scandalo

Da qualche giorno mi ronza nell’orecchio- costringendomi ora a parlarne- il termine scandalo di cui si abusa nelle reazioni, verbali o scritte, ai recenti fatti di corruzione, una corruzione tanto plateale e insultante da essere percepita per l’appunto come scandalosa. La parola in questione deriva da una radice skand che esita nel latino scandere, cioè salire, a sua volta collegabile a scala, scandire, e in origine significava “mettersi in movimento”, valore semantico riscontrabile anche in area celtica e indiana. Probabilmente si deve al transito greco il derivato sostantivale skάndalon, cioè trabocchetto, ostacolo e affini. Pensando all’etimo mi viene naturale fare dell’ironia amaramente analogica: altro che movimento! E non esclusivamente per e di denaro. Si è trattato di un flusso micidiale, di una corrente corruttiva a carattere non solo individuale o consortile, non solo nazionale – in primis ovviamente italiano- ma anche transnazionale, con grave compromissione delle Istituzioni europee. E subito dopo è arrivata da parte dei nostri cervelloni la spiegazione di rito con annessa giustificazione(!): è l’effetto degenerativo a carattere globale che caratterizza ogni aspetto della nostra civiltà e quindi anche il fenomeno corruttivo. Come dire che è una questione quantitativa, non qualitativa: cresce l’integrazione economica e quindi anche quella dell’interesse disonesto. Scandalo globale e cattivo esempio globale, con turbamento della sensibilità morale globale, costretta a prendere atto di azioni illecite, a visualizzare montagne di banconote (anche con un’inconscia invidia che non mi sentirei di escludere..) e poi gridare appunto allo scandalo. Rifletto di nuovo sul termine scandalo: in un passato che, ahimè, ricordo fin troppo bene, il campo semantico di riferimento era soprattutto sessuale- così come il lemma “malaffare” evocava donne dai facili costumi- e investiva comportamenti troppo spregiudicati, liberi, ribelli, antinomici o anomici, perché infrangevano il comune sentire riflesso nelle norme e nelle consuetudini borghesi. Ma ricordo anche

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Cultura

Alla ricerca della passione perduta

Forse si tratta di una percezione esclusivamente personale, ma le attuali conversazioni politiche in questo teatrino pre-elettorale hanno in sé qualcosa di funereo, una coloritura lugubre che invita al diniego, al rifiuto, talora alla repulsione nei confronti di quel poco di contenuto che offrono e, ancor di più, dei modi adottati per farlo. La campagna politica è talmente scialba, talmente stanca del suo stesso doversi ripetere, da apparire- come l’inetto sveviano – “indisposta a tutto”. Le lezioncine ripetute a memoria, i post it pseudo-programmatici, propinati da soggetti con le braccia abbandonate lungo il corpo nell’atteggiamento di scolaretti che ripetono la lezione a memoria, restituiscono un’immagine indecorosa del nostro Paese, un quadro tanto esangue da rasentare, appunto, il cadaverico. Manca la linfa della capacità psicagogica, assente qualunque indizio di PASSIONE.  Ecco, parliamo di passioni con l’aiuto dell’antipassionale Descartes. In un suo interessante trattatello sulle passioni dell’anima, il filosofo cogitante per eccellenza le analizza alla luce del suo pensiero fondamentalmente fiducioso nella capacità da parte dell’uomo di attivare la volontà e la razionalità come antidoti alla violenza delle passioni stesse. Sostiene che quelle che si riferiscono all’anima “muovono”, eccitano gli spiriti e coincidono sempre con quello che capita di nuovo [..] che chi più è agitato da loro non è quello che meglio le conosce e che esse rientrano in quelle percezioni che lo stretto legame tra anima e corpo rende confuse e oscure[..]e ancora che si possono chiamare emozioni dell’anima perché di tutti i pensieri che essa può avere, non ce ne sono altri che la agitino e la scuotano con tanta forza:  ma sa anche che non basta, per esempio, avere la volontà per suscitare in sé il coraggio, mentre è importante soffermarsi sulle ragioni, gli oggetti o gli esempi che persuadono che  si è sempre più sicuri a difendersi che

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Cultura

A proposito di smanie imperialistiche. Kublai Kan, imperatore malinconico. Sulla scia di un libro pensato tutto al femminile, Le città invisibili

Come altri grandi autori, Italo Calvino nelle sue opere rappresenta problematiche e aspetti dell’età in cui vive e scrive, ma ne preconizza anche molti inquietanti sviluppi: in particolare egli sonda le ragioni segrete della storia dell’uomo civilizzato, progredito, avanzato e, pur accogliendo totalmente e con entusiasmo la post-modernità (basti pensare all’ibridazione dei generi), la interroga ora in modo realistico, ora in forme altamente visionarie e densamente allegoriche. Tra queste ultime, ho una particolare predilezione per un libro pensato tutto al femminile: Le città invisibili. Scritto “saltuariamente, un pezzetto per volta” sulla scia degli umori e ondeggiamenti dell’autore, inizialmente destrutturato, il testo si va poi costruendo e legittimando in senso narrativo come relazioni di viaggio fatte da Marco Polo a Kublai Kan. Con quale intento? Per l’ambizione, dichiarata dallo stesso Calvino, che il libro possa diventare un “continente immaginario” dell’altrove. Un antidoto, mi viene da dire, alla globalizzazione uniformante, alla fine della diatopia. Ogni città invisibile ha un nome di donna, simbolo di differenziazione caratterizzante, ma anche di enigmaticità. Apparentemente atemporale, la città raccontata (meglio dire evocata come un poliedro dalle tante facce e dai mille colori) corrisponde totalmente alla città contemporanea, alla megalopoli dei “big numbers”, anche quando assume i tratti di un luogo arcaico, memoriale, archeologico: come Zaira, che ha scritto il suo passato nelle sue vie, in ogni suo anfratto, nei suoi angoli, ovunque, come le linee di una mano. O come quella solo sognata, Isidora, o solo desiderata, Dorotea, imprevedibile dono divino. O come Diomira che sembra già conosciuta, ma ciononostante fa urlare per la sorpresa una donna da una sua terrazza. O come Anastasia, città ingannatrice che “risveglia”- lo dice il suo etimo- ogni desiderio, e perciò ti inganna, perché, mentre ne avverti uno, te ne sta proponendo un altro, rendendotene schiavo: senza che tu te ne

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