Impudica mens. Riflessione sulla parola scandalo

Da qualche giorno mi ronza nell’orecchio- costringendomi ora a parlarne- il termine scandalo di cui si abusa nelle reazioni, verbali o scritte, ai recenti fatti di corruzione, una corruzione tanto plateale e insultante da essere percepita per l’appunto come scandalosa.

La parola in questione deriva da una radice skand che esita nel latino scandere, cioè salire, a sua volta collegabile a scala, scandire, e in origine significava “mettersi in movimento”, valore semantico riscontrabile anche in area celtica e indiana. Probabilmente si deve al transito greco il derivato sostantivale skάndalon, cioè trabocchetto, ostacolo e affini. Pensando all’etimo mi viene naturale fare dell’ironia amaramente analogica: altro che movimento! E non esclusivamente per e di denaro.

Si è trattato di un flusso micidiale, di una corrente corruttiva a carattere non solo individuale o consortile, non solo nazionale – in primis ovviamente italiano- ma anche transnazionale, con grave compromissione delle Istituzioni europee. E subito dopo è arrivata da parte dei nostri cervelloni la spiegazione di rito con annessa giustificazione(!): è l’effetto degenerativo a carattere globale che caratterizza ogni aspetto della nostra civiltà e quindi anche il fenomeno corruttivo.

Come dire che è una questione quantitativa, non qualitativa: cresce l’integrazione economica e quindi anche quella dell’interesse disonesto. Scandalo globale e cattivo esempio globale, con turbamento della sensibilità morale globale, costretta a prendere atto di azioni illecite, a visualizzare montagne di banconote (anche con un’inconscia invidia che non mi sentirei di escludere..) e poi gridare appunto allo scandalo.

Rifletto di nuovo sul termine scandalo: in un passato che, ahimè, ricordo fin troppo bene, il campo semantico di riferimento era soprattutto sessuale- così come il lemma “malaffare” evocava donne dai facili costumi- e investiva comportamenti troppo spregiudicati, liberi, ribelli, antinomici o anomici, perché infrangevano il comune sentire riflesso nelle norme e nelle consuetudini borghesi.

Ma ricordo anche un uso più ristretto della parola che compariva nel lessico familiare di casa, specialmente tramite la bocca di mia madre, quando mi voleva rimproverare con particolare vigore: “Sei stata tu la pietra dello scandalo!” riferendosi alla mia eccessiva vivacità nei giochi, forse anche pericolosi. La mortificazione morale era immediata e acuita dalla ignoranza del senso dell’espressione che mi feriva come una freccia avvelenata. Educazione anni Cinquanta.

Ora so cosa significa: richiama un costume romano e riflette quindi un uso socio-economico, quello del debitore che, seduto su quella fatidica pietra, dichiarava pubblicamente la rinuncia ai suoi beni per sottrarsi alla perseguibilità giudiziaria. Cedo bona era la formula “magica” prevista. Proprio la stessa scelta dei nostri malfattori, malversatori, concussi…!

Neppure lo ius romano avrebbe potuto trovare il termine capace di definirli pienamente. Altro che de repetundis! De repetitis, trattandosi di una reiterata associazione a delinquere! La ripugnanza manifestata nei confronti del Qatargate è innegabilmente trasversale: parole di indignazione scorrono sui nostri teleschermi. Proprio di giorni fa è il suggerimento (la fonte è Bersani ) che la politica ( sono ormai insofferente a una simile astrattezza linguistica) corra a ripari solidi e tangibili, esigendo, da chi vuole darsi a quest’attività così degradata, una sorta di “giuramento di Ippocrate” etico e deontologico. Che idealista Bersani!

Su questa strada, allora, suggerisco anche la lettura obbligatoria di Socrate (attraverso Platone) e soprattutto di Zenone. E se l’antica Stoà è troppo indigesta per i nostri miseri mestieranti, può anche bastare il neo-stoicismo, ci accontentiamo di Epitteto o di Seneca. Essere filosofo significava per costoro vivere secondo la dottrina della propria setta, conformandovi la propria condotta e il proprio stile di vita, costruendo una sorta di sistema immunitario contro le debolezze morali e comportamentali dell’uomo comune, cioè ignorante.

Essere politico dovrebbe voler dire “automatica” adesione al proprio sistema etico-ideale, “guadagnandola” però con l’esercizio, come il filosofo stoico arrivava a garantire per sé (e per la comunità) una composita mens tramite la conoscenza e l’armonia dell’anima. Mai come in questi giorni il nome di Enrico Berlinguer viene citato come guru della questione morale, ma sono certa che il suo fosse un richiamo, un’indicazione di traiettoria, e che egli sapesse che anche nella sfera della politica si è dei procedentes, che chi vuole occuparsi della cosa pubblica, non può e non deve improvvisare, ma fare un cammino di consapevolezza, di studio e di FORMAZIONE. Come si richiede in qualunque disciplina, come si richiede a un atleta.

La querela post res perditas ha stancato tutti tranne gli addetti ai lavori (?) politici, la cui resilienza nei comportamenti indebiti e delittuosi nell’esercizio di pubblici servizi sembra essere la risposta più rapida e appassionata alle richieste del Piano/ Patto siglato con l’Europa. Pecunia non olet!- ripete ancora una volta la bocca oscena di quella valigia colma di banconote.

E io, per non irritarmi troppo, ripeto a me stessa la massima fondamentale dell’Encheiridion di Epitteto: Tra le cose che esistono al mondo, alcune sono in nostro potere, altre no. [..]Togli di mezzo dunque l’avversione da tutte quelle cose che non sono in nostro potere… Che pharmakon! Medicina e veleno insieme.

 

Caterina Valchera – Docente, filologa

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