Il Ramadan e la chiusura delle scuole

Due casi eclatanti, che hanno finito per dividere l’opinione pubblica e il mondo politico

C’è stato un tempo – se più o meno felice, decida naturalmente il lettore – in cui il primo giorno di quaresima la campanella suonava con un’ora di ritardo, per consentire ad alunni e insegnanti di “prendere le Ceneri” (o magari, più prosaicamente, per consentire a quanti avevano fatto tardi al veglione del martedì grasso di dormire un’ora di più).

Erano gli anni in cui per Venerdì Santo la Rai non mandava in onda Carosello, spettacolo preferito dai bambini, in segno di lutto per la ricorrenza della morte di Gesù e la scuola, appena cominciata il primo ottobre, chiudeva tre giorni dopo per la festa di San Francesco, “il più italiano dei santi, il più santo degli italiani”. D’altra parte, in base all’articolo 36 del Concordato fra Stato e Chiesa del 1929, incardinato nella Costituzione col consenso del Pci di Togliatti, lo Stato riconosceva “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica.”

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, non solo e non tanto perché il nuovo Concordato stipulato da Bettino Craxi e dal segretario di Stato Casaroli ha sostituito quello sottoscritto da Benito Mussolini e dal cardinal Gasparri, ma perché nel corso degli ultimi decenni si è assistito a un’impressionante laicizzazione della società italiana. Ormai solo un italiano su cinque si dichiara cattolico praticante (per l’esattezza il 19 per cento, secondo la rilevazione del 2022, contro il 36 per cento del 2001), le nozze civili superano per numero i matrimoni religiosi, sia pure con significative differenze fra il Mezzogiorno, più legato alle tradizioni, e il Centro-Nord.

Per quanto attiene all’ambito scolastico, la scelta dell’insegnamento religioso concordatario è scesa all’84,4 per cento nell’anno scolastico 2021/22, l’ultimo di cui si conoscano i dati, con una significativa diminuzione nelle scuole medie superiori e negli istituti professionali, in parte spiegabile con la maggior presenza in quest’ultimo ordine di studi di alunni extracomunitari, professanti spesso altre religioni.

Si potrebbe obiettare che insieme a Polonia, Irlanda, Malta e Slovacchia l’Italia si colloca comunque nel gruppo di testa delle nazioni dell’Unione Europea per pratica religiosa, rispetto ai Paesi protestanti e alla stessa Francia, in cui solo il 10 per cento dei cittadini va a Messa e le chiese vengono sconsacrate per essere riconvertite magari in discoteche, o addirittura demolite se prive di particolari valori architettonici. Ma la tendenza è ormai una e la profezia formulata mezzo secolo fa da Guido Piovene, nel suo L’Europa semilibera, secondo cui nei paesi mediterranei le tradizioni muoiono senza rimpianti o declinano in folclore appare sostanzialmente avverata.

Proprio mentre attraversa un innegabile e a giudizio di molti irreversibile processo di secolarizzazione, il nostro Paese si trova a fare i conti con il ben diverso approccio alla religione dei “nuovi italiani”, molti dei quali di fede islamica. E, naturalmente, è la scuola ad affrontare maggiormente l’impatto del problema, considerato anche il fatto che, un po’ per il fenomeno dei “minori non accompagnati”, un po’ per l’alto tasso di nascite fra gli immigrati islamici, la percentuale di alunni di religione musulmana è quasi pari in certe realtà a quella degli studenti cattolici. Questa primavera il fenomeno è affiorato in seguito a due casi eclatanti, che in occasione del Ramadan hanno finito per dividere l’opinione pubblica e il mondo politico. Ma in realtà problematiche legate alla conciliazione fra questa pratica religiosa e la normale attività didattica erano già emerse in passato.

Il primo caso riguarda l’istituto comprensivo di Pioltello, comune dell’hinterland milanese, il cui dirigente scolastico, col voto favorevole del Consiglio d’Istituto, ha disposto la chiusura della scuola il 10 aprile per la festa di fine Ramadan. Tale scelta è stata motivata col fatto che in occasione di quella ricorrenza negli anni passati si era registrata un’elevata percentuale di assenze, visto che circa il 40 per cento degli iscritti alla scuola, comprendente materna, primaria e media, è di fede islamica. La decisione è stata criticata sia per motivi giuridico-formali, sia per questioni di principio, e il ministro Valditara ha fatto presente come le scuole non possano istituire nuove festività, nemmeno in modo indiretto.

È vero infatti che rientra nell’autonomia scolastica adattare il calendario a esigenze ambientali, ma una cosa è disporre un giorno di sospensione delle lezioni per consentire un “ponte”, o prolungare le vacanze invernali in una località sciistica, altro istituzionalizzare una festa religiosa. C’è da notare che la delibera risaliva al maggio dello scorso anno e che per consentire un giorno di vacanza in più aveva anticipato di un giorno l’inizio delle lezioni.

La questione ha finito per sollevare contestazioni di impronta politica, impronta che è legittimo però sospettare anche nella delibera del Consiglio d’Istituto: un giorno di scuola con i banchi semivuoti, per uno sciopero dei trasporti o perché le famiglie fanno un “ponte”, è ordinaria amministrazione e il buon senso vorrebbe che in questi casi gli insegnanti approfittino della circostanza per fare ripasso con gli alunni presenti. Ad ogni modo, e al di là degli sviluppi burocratici e non della vicenda – l’invio degli ispettori ministeriali, l’invito a riformulare “in autotutela” la delibera, l’intervento del Presidente della Repubblica in risposta alla lettera della vicepreside – occorre riconoscere che la scelta del preside e del Consiglio d’Istituto della scuola di Pioltello non entra nella sfera della libertà d’insegnamento. E del resto il ministro Valditara ha manifestato l’intenzione di recarsi in visita all’Istituto Comprensivo, riconoscendo le notevoli difficoltà che incontra per l’inclusione di alunni di etnia e cultura molto diverse.

Più sottile, ma per certi aspetti più inquietante, il secondo caso, riguardante un istituto comprensivo di Soresina, Comune in provincia di Cremona, dove la preside ha diramato una circolare dal titolo “Informazioni sul Ramadan e linee guida per il personale docente”.

A questo proposito, sorge spontanea una considerazione. La Costituzione della Repubblica Italiana, nell’articolo 33, sancisce il principio della libertà d’insegnamento e la Corte Costituzionale già nella sentenza n. 77 del 1964 ha ribadito il concetto che “non esistono né arte né scienza ufficiale o di Stato”. A maggior ragione non dovrebbe esistere una didattica di Stato, fermo restando il dovere del docente di rispettare quelli che una volta si chiamavano i programmi ministeriali e che sono stati in seguito ribattezzati “indicazioni nazionali”.

Se non esiste una didattica di Stato, non dovrebbe però a maggior ragione esistere una didattica d’istituto: in altre parole è molto discutibile che un dirigente scolastico proponga (o imponga, magari sotto forma di pressione psicologica o moral suasion che dir si voglia) come insegnare. Purtroppo nel corso degli ultimi decenni il concetto di libertà d’insegnamento si è andato sempre più “collegializzando”, con la devoluzione di molte scelte a Collegi dei Docenti e a “dipartimenti”: l’avvento della cosiddetta autonomia scolastica ha finito per erodere l’indipendenza del singolo docente, rispetto ai tempi del tanto biasimato centralismo burocratico. Che un dirigente scolastico si senta in dovere d’insegnare ai docenti come comportarsi in occasione del ramadan lascia perplessi, al di là del merito delle raccomandazioni formulate nella circolare.

Alcune di queste raccomandazioni, nel caso dell’Istituto Comprensivo di Soresina, possono apparire manifestazioni di semplice buon senso, dote che l’insegnante dovrebbe avere e, se ne è sprovvisto, difficilmente recupererà dopo la lettura di una circolare. Per esempio la dirigente suggerisce ai docenti: “se notate stanchezza o disagio in studenti o colleghi offrite il vostro sostegno e comprensione”. È normale che un insegnante si astenga dall’interrogare un alunno visibilmente provato, a prescindere dalla sua religione, e magari cerchi di risalire col dialogo alle cause del suo disagio, ma non perché indottovi da un atto burocratico.

La circolare si spinge però oltre, sollecitando insegnanti e studenti a evitare di consumare cibi e bevande all’interno della scuola durante le ore di digiuno del Ramadan “come segno di rispetto per coloro che lo stanno osservando”. Qui dal riguardo per una scelta religiosa si passa alla sua imposizione anche a quanti non la condividono, che rischia di suscitare una sorta di “guerra delle merendine”. Un ulteriore passo è compiuto dalla preside là dove invita “quando possibile a fornire opportunità per i momenti di preghiera e riflessione, durante la giornata scolastica per coloro che desiderino parteciparvi”. In barba alla laicità della scuola, si rischia con questa logica di trasformare le aule in luoghi di culto o di predicazione.

La circolare della preside in parte parrebbe ispirata alle “Linee guida per sostenere studenti e studentesse” divulgate dal Collettivo di insegnanti Assenze Ingiustificate e curate da Elisa Belotti, docente e giornalista, tra l’altro membro del comitato promotore dell’LGBT+ History Month Italia. Eppure, al di là delle reazioni politiche suscitate, solleva una problematica che sarebbe ipocrita sottacere.

In molte scuole dell’obbligo con il tempo pieno o prolungato è istituzionalizzato il servizio mensa e purtroppo non sempre esistono spazi idonei e soprattutto personale sufficiente per ospitare e sorvegliare i ragazzini che seguono il digiuno mentre gli altri mangiano. Questi ovviamente non sono felici di coabitare in sala mensa con i loro coetanei che pranzano come sempre, né (almeno per il momento) è possibile imporre a questi ultimi di “ramadanizzarsi” anche loro.  Tale situazione ha indotto alcuni presidi a diramare una comunicazione in cui si invitano i genitori di alunni che praticano il digiuno a venire a riprendersi i figli e a tenerli con sé per la durata della pausa mensa. Ma non tutti, ovviamente, possono farlo. Ne sono nati problemi più seri, che esulano dalla retorica dell’accoglienza e della “inclusività”, perché toccano esigenze familiari degne di rispetto.

Occorre aggiungere però che le problematiche relative al ramadan sono amplificate dall’interpretazione estensiva dell’obbligo della pratica previste dalla dottrina prevalente nel mondo islamico. Secondo tale interpretazione, i bambini sarebbero esonerati dall’osservanza del digiuno, per ovvii motivi. L’esonero si protrae però solo fino all’insorgere della pubertà e del menarca; quindi per gli alunni della prima media non si dovrebbe porre il problema, per gli altri in buona misura sì.

Occorre aggiungere che vari scolari di fede musulmana, magari minori non accompagnati, iniziano la frequenza scolastica più tardi e che i bambini africani hanno pubertà precoci, che per altro comportano a volte seri problemi di convivenza con le coetanee. Non è trascurabile neppure l’effetto emulativo per cui ragazzini ancora impuberi vogliono condividere con i genitori e i fratelli maggiori una pratica “da grandi”, aspirazione che non sempre i familiari hanno il buon senso di scoraggiare. Anche questo contribuisce a incrementare un contenzioso che se l’esonero dal digiuno si protraesse sino ai quattordici anni non si porrebbe, vista l’assenza alle superiori di un servizio mensa istituzionalizzato o comunque la possibilità di lasciare agli studenti islamici un locale dedicato senza bisogno di sorveglianza, come avvenuto già nello scorso anno nel fiorentino Istituto Superiore “Marco Polo”.

Cosa accade nelle altre Nazioni

Può essere interessante, però, anche volgere lo sguardo a come in altre nazioni, con una presenza musulmana superiore a quella che si registra in Italia, è stato affrontato il problema. In Francia, per esempio, le organizzazioni islamiche non vogliono che agli alunni musulmani praticanti il ramadan vengano concesse facilitazioni: il digiuno è considerato un atto “eroico”, che è giusto comporti sacrifici. In Austria e Germania, invece, sono le istituzioni pubbliche a cercare di scoraggiare i genitori dal far seguire ai figli tale pratica, facendo presenti le problematiche sanitarie che un digiuno prolungato può comportare anche per un adolescente. In Italia, invece, sembra prevalere la tendenza a incoraggiare una pratica problematica sotto il profilo sanitario per un adolescente, con un approccio più ideologico che pedagogico e sanitario.

Al di là delle opposte reazioni che le vicende di Pioltello e di Soresina possono avere suscitato, un dato di fatto appare incontrovertibile: l’impatto della multietnicità sul sistema educativo potrebbe essere tutt’altro che indolore, e non soltanto per la “guerra delle merendine”. Che non avesse proprio tutti i torti l’arcivescovo di Bologna cardinal Biffi quando all’alba del nuovo millennio, scandalizzando anche molti credenti, auspicò che i governi europei privilegiassero l’ingresso di immigrati cristiani? Una risposta a questo interrogativo potrà darla soltanto la Storia.

 

Enrico NistriSaggista

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