Estrema destra, come si è andata evolvendo la comunicazione

Intervista al prof. Cammarata, dell’Università di Milano: “Si tratta di una comunicazione basata principalmente sulla paura”. Ecco un’altra puntata della serie d’interviste sui movimenti di estrema destra europei a cura del nostro Francesco Fatone

Come comunica oggi l’estrema destra? Far passare un determinato messaggio sui social e su altri mezzi è fondamentale per la crescita della popolarità. Oggi i guru delle destre sono riusciti tramite una comunicazione 2.0 a influenzare e affascinare tantissimi utenti e a portare tanti consensi alle urne in tutta Europa. Il professor Roberto Cammarata, dell’Università di Milano, spiega a Beemagazine l’evoluzione della comunicazione dell’estrema destra.

Roberto Cammarata

Quali mezzi usa l’estrema destra per comunicare oggi?

“I mezzi possono essere intesi in più modi in realtà: dal punto di vista degli strumenti che offrono le nuove tecnologie della comunicazione da un lato, ma anche mezzi comunicativi dal punto di vista contenutistico.

Le due definizioni stanno insieme. C’è una buona capacità della destra di utilizzare gli strumenti della comunicazione digitale. Questo è dimostrato non solo a livello italiano ma anche a livello europeo e globale, dove gli strateghi della comunicazione della destra hanno avuto la capacità di leggere per primi le trasformazioni della tecnologia della comunicazione riuscendo ad aumentare i consensi.

Faccio un esempio. Quella che gli analisti oggi chiamano la democrazia a bolle o delle bolle, la bubble democracy: una frammentazione del “pubblico” della comunicazione politica, in particolare quello che si informa sui social network, che grazie ai filtri e agli algoritmi che generano delle vere e proprie bolle comunicative, consentono ai più scafati tra gli attori politici di non preoccuparsi delle contraddizioni nei messaggi che lanciano.

Provo a spiegare meglio: io posso lanciare un messaggio all’interno di una bolla comunicativa che contraddice un altro messaggio lanciato all’interno di un’altra bolla, senza preoccuparmi troppo della contraddizione generata: le due uscite produrranno ugualmente consenso tra gli appartenenti alle due bolle. Questa leggerezza comunicativa, se così vogliamo chiamarla, contraddistingue maggiormente l’atteggiamento della destra rispetto a una sinistra che è invece sempre molto più attenta alla propria coerenza comunicativa, anche se a volte lo è stata meno rispetto a quella tra comunicazioni e decisioni politiche. Tutto ciò dal punto di vista dell’utilizzo degli strumenti tecnologici a disposizione di chi si occupa di comunicazione politica.

Dal lato contenutistico, invece, i mezzi che usa la destra sono principalmente quelli della nostalgia e della paura, che riescono ancora a mobilitare la partecipazione politica”.

In che senso?

“Le rivendicazioni non sono più mirate a un futuro più o meno utopico da costruire, ma molto spesso guardano a un passato da ricostruire o da rigenerare. Molto spesso questa è un’illusione che in campagna elettorale però funziona, anche se poi magari delude in tempi relativamente brevi dopo il voto, ma nell’immediato porta a casa risultati”.

Che tipo di linguaggio è quello dell’estrema destra?

“Si tratta di un linguaggio a volte anche frivolo che ha a che vedere con le sensazioni e i bisogni della vita quotidiana delle singole persone, più che con i grandi obiettivi di carattere collettivo.

È un linguaggio che ha molto più a che vedere con le emozioni piuttosto che con la razionalità, con le esigenze del momento in termini individualistici, piuttosto che con mete comuni da perseguire. Questo è l’altro lato di quello che Zygmunt Bauman ha chiamato “retrotopia”, il guardare indietro piuttosto che avanti, frutto secondo lui di una doppia negazione dell’utopia. Con questo concetto Bauman si riferiva al venir meno, in sequenza, delle utopie collettiviste – per le quali un mondo e una vita migliori si sarebbero potute costruire attraverso la solidarietà, la condivisione e l’azione collettiva – e poi a seguire dei risultati nefasti dell’utopia opposta, nata dalla sconfitta delle precedenti, ossia quella della possibilità di farcela da soli, ognuno per sé, con un intervento dello stato ridotto al minino: il trionfo dell’individualismo mischiato con il neoliberismo. Ecco, senza più utopie, non resta che rifugiarci nella nostalgia”.

“I guru della comunicazione della destra hanno capito molto meglio e molto prima di quelli della sinistra, se mai ce ne fossero, come interpretare queste fasi per produrre maggiore consenso elettorale: prima, lanciando segnali di disimpegno dagli obiettivi comuni, per concentrarsi su quelli individuali (si può allora parlare di cibo, di viaggi, di piccole esigenze quotidiane, così come dei vuoti che la politica ha prodotto in questi anni, dell’incapacità della politica di dare risposte alle persone); poi, recuperando una dimensione dell’appartenenza che ha a che vedere con la comunità di origine, ed ecco tornare i nazionalismi, magari mascherati da sovranismi”.

“Questo connubio è particolarmente fruttuoso dal punto di vista della costruzione del consenso. Da un lato la protesta nei confronti dell’élite, di chi dovrebbe gestire la cosa pubblica e fatica a dare risposta al cittadino, esaltando al tempo stesso le emozioni individuali istantanee; dall’altro lato il recupero di un evergreen politicamente sempre molto produttivo come quello della comunità nazionale”.

Quanto la soft communication gioca un ruolo nel catturare un elettorato più giovane che riesce ad essere avvicinato?

“Ha indubbiamente un ruolo importante. A volte assume il tono della ridicolizzazione, altre volte assume modalità più intelligenti, e interessanti, volte alla costruzione di una sorta di egemonia culturale della destra. Non solo attraverso le grandi agenzie della comunicazione, come i giornali o le istituzioni culturali, ma anche tramite canali comunicativi più giovanili dove sostanzialmente si inserisce neanche troppo sotto traccia uno sfondo di cultura di destra attraverso l’utilizzo di linguaggi che molto spesso non sono quelli alti della politica, bensì quelli più pop”.

“La capacità di sfruttare questa cosa è stato un ulteriore elemento utile a sdoganare ciò che veniva additato come politicamente scorretto e quindi come fuori dall’arena del possibile. Oggi si può usare tutto, come l’audio di “Faccetta Nera” sotto i TikTok, si può usare tutto ciò che in qualche modo solo fino a qualche anno fa veniva reputato inaccettabile nella dinamica della comunicazione politica democratica”.

“Oggi, vuoi perché con vezzo più scherzoso, più soft, appunto, si può usare tutto e il contrario di tutto e alla fine, se utilizzato sapientemente (come la destra ha dimostrato di saper fare) tutto ciò riesce anche a produrre consenso politico”.

Qual è l’anello mancante del passaggio dalla ridicolizzazione di un ideale fino al sostegno?

“L’anello mancante è il vuoto a sinistra. La protesta, la ridicolizzazione, l’insulto, il linguaggio d’odio, funzionano nel momento in cui non c’è un’alternativa praticabile. La protesta oggi è principalmente una protesta qualunquista o di destra. Non c’è stata nelle ultime decadi un’organizzazione efficace del dissenso a sinistra che porti con sé poi anche la capacità di utilizzare tutti questi strumenti anche più pop. O perlomeno sembrava non esserci fino alle elezioni inglesi e alla sorpresa francese delle scorse settimane, che forse danno qualche motivo di speranza in tal senso”.

In Spagna il partito S’Acabò la Fiesta – mosso da ideali simili a quelli di Milei – ha vinto le elezioni. E’ un primo germe dell’anarco-liberismo in Europa?

“Sì, ma con accenti differenti a seconda anche della storia e del contesto politico locale. C’è una tendenza anarco-liberista che va da Milei a queste nuove rappresentazioni anche europee di una destra che è tutt’altro che sociale, ma che riesce a costruire consenso anche tra le fasce sociali più deboli della popolazione.

Di fondo, secondo me, c’è una crisi profonda di autorevolezza della politica. E il risultato è che si oscilla tra la prospettiva anarco-liberista (“ognuno pensi per sé che funziona meglio, lo Stato è più che altro un vincolo, un freno alla nostra libertà, ed è quindi sul banco degli imputati”) e una prospettiva protezionistica-nazionalista che sembra in parte contraddire la precedente, ma in realtà la compensa. Sono le due facce di una destra che solo fino a due settimane fa sembrava imbattibile”.

Su cosa ha giocato l’estrema destra nel corso delle ultime elezioni europee?

“Sulla paura soprattutto. La paura verso l’idea di insicurezza che pervade le nostre menti ormai da diversi decenni e in risposta della quale la destra avanza una proposta più securitaria e più identitaria. I populismi identitari e i populismi protestatari si sommano in una dimensione cooperativa che utilizza la categoria della paura nei confronti del diverso inteso non solo in termini culturali, come possibile attacco alla nostra identità, ma anche di tutto ciò che è difficilmente classificabile in una concezione di ordine politico e sociale (si può leggere in tal senso, ad esempio, anche la questione dell’omotransfobia).

Sia la questione dell’identità, sia la questione della paura manifestano in realtà la necessità che l’individuo trovi in qualche modo una dimensione di appartenenza collettiva e di ordine che lo protegga, capace di generare una sensazione di maggiore sicurezza. Di questo anche la sinistra deve farsi carico, altrimenti regala alla destra un tema enorme e politicamente molto produttivo”.

Sui social c’è necessità di nuove normative che possano evitare la condivisione di contenuti d‘odio?

“Sicuramente sì, necessitiamo di una cornice normativa che tuteli contro le discriminazioni e contro la diffusione di un linguaggio d’odio. Serve farlo con accortezza, però, cioè facendo attenzione a non cadere nella trappola opposta, nelle contraddizioni di quella che oggi viene definita come woke culture.

Il rispetto e la correttezza comunicativa non devono produrre di fatto una sorta di autocensura o peggio nuove forme di difesa identitaria, dove il rispetto verso tutte le identità porti in realtà alla costruzione di gabbie identitarie inscalfibili, con regole (anche della comunicazione) che in qualche modo tutelino maggiormente l’identità rispetto alla libertà di esprimersi e di muoversi tra le identità stesse.

Questo è un grande tema della comunicazione contemporanea, perché è sottile il confine tra il necessario rispetto nei confronti di chiunque, a partire da chi è portatore di differenza e i meccanismi di autodifesa di identità collettive che a volte celano dinamiche di potere al loro interno che limitano la libertà dell’individuo. È il grande tema del rapporto tra appartenenza, identità e libertà, che come abbiamo visto distingue ancora oggi in termini politici destra e sinistra e che necessita di essere affrontato anche in termini di regolamentazione della comunicazione (non solo politica), facendo però attenzione a non dar vita a regole troppo asfissianti”.

 

 

Francesco Fatone Giornalista

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