“Coltivate l’inutile” è uno dei moniti della filosofa ungherese Agnes Heller; un invito intrigante che apre alla realizzazione della libertà di pensiero attraverso lo studio del greco antico, del latino, della matematica pura, della filosofia. E, aggiungerei, della poesia.
Inutile è la poesia perché ποίησις , dal verbo greco ποιέω che vuol dire fare dal nulla, creare, è il processo che consente di inventare ciò che non c’era e che mai sarà oggetto, cosa, strumento valutato per la concretezza del vivere con finalità utilitaristiche; la poesia è visione, interpretazione, lettura del mondo di volta in volta differente, variabile da momento storico a momento storico, da soggetto a soggetto, nata da un linguaggio che consente al non-essere, di essere. Ed è creazione, è enigma, o avventura intima “che va oltre, anche oltre la stessa esperienza per la quale essa stessa avviene.
La poesia è la Bellezza, l’esperienza che accade appena svoltato l’angolo” sostiene il nostro Omero argentino Jorge Luis Borges (L’invenzione della poesia- Le lezioni americane). La poesia è luce improvvisa, inspiegabile, inafferrabile perché nasce dalla una folgorazione di un attimo che si fa strada e diviene tempo lungo. Il tempo da vivere intimamente, o da interpretare e reinterpretare socialmente, storicamente. Un tempo durante il quale abbiamo imparato che l’origine del poetare dalla oralità alla scrittura si è fuso, intersecato, si è esplicitato con un altro “fare”, il fare la guerra, anche questo inutile, ma da non aggiungere all’elenco di Agnes Heller.
Le guerre narrate in versi
Un fare dannoso, dis-umano, spregevole. Le guerre narrate in versi dai grandi cantori Omero, Virgilio, Ariosto, hanno aperto e curato ferite, hanno scolpito caratteri, atti, illusioni, speranze, ne hanno insomma ingentilito i tratti poeticamente; abbiamo imparato, ad esempio, che Achille dimostra di desiderare ardentemente la pace pronunciando davanti agli ambasciatori mandatagli da Agamennone le seguenti parole: “Niente, per me, vale la vita: non i tesori che la città di Ilio fiorente possedeva prima, in tempo di pace, […]; non le ricchezze[…]; si possono rubare buoi, e pecore pingui, si possono acquistare tripodi e cavalli dalle fulve criniere; ma la vita dell’uomo non ritorna indietro, non si può rapire o riprendere, quando ha passato la barriera dei denti”.
Achille odia profondamente la guerra, la stessa che gli porterà via Patroclo, eppure la sua ira lo conduce ad agirla. Ma la Storia non insegna nulla, non è maestra di vita, ci ricorda Hegel; gli atti degli uomini, anche i più deplorevoli, si ripetono in altre forme, ma nella stessa sostanza. Si spiega così il ritrovarsi ancora oggi a vivere venti di guerra che si alzano sempre più vigorosi; è per questo motivo che atti inumani si consumano a poche migliaia di chilometri da noi, a breve distanza da un’Europa che ha conosciuto gli orrori delle guerre del Novecento e, ciò nonostante, ne asseconda altre.
Si rinforzano non le ragioni, ma i torti degli altri in un clima di assoluta incapacità, nuovamente, di agire in favore di una pacificazione. Allora penso: Forse abbiamo bisogno di altri cantori perché gli orrori divengano “accettabili”, o almeno “comprensibili”, o che si prefiggano il fine di addolcire gli eventi mostruosi che si rincorrono? Forse abbiamo bisogno, nonostante tutto, o meglio a ragione di ciò che accade, di una pacificazione, almeno dell’anima, anche con un solo verso? E cosa può offrire la poesia in questo mondo distorto dagli argini corrotti? Cosa può un verso? Come può incidere un verso nel Ventre della Terra e seminare i buoni sentimenti e ritrovarne il senso?
L’epifania del colore
Come si può accarezzare la Bellezza se intorno regnano la dis-umanità, la noncuranza della vita, l’irresponsabilità, la mancanza di visione per un mondo giusto, il vuoto di valori etici e morali? Forse il poeta può tentare di creare un varco, seppur appena visibile, che dura pochi istanti, verso la felicità, verso la pace dell’attimo che annebbia, che alleggerisce, che dona un profumo d’altrove e non ci fa tastare il terreno?
Forse l’epifania del colore e dell’odore dei Limoni che si offre su un portone semi aperto, lì dove “per delle divertite passioni … tace la guerra” (Eugenio Montale, I limoni), ci fa intendere la poesia come evasione? Oppure la poesia deve essere vissuta come impegno, come ribellione, come smascheramento, come rottura per una rifondazione? O ancora come possibilità pedagogica?
Forse sono valide tutte le funzioni poetiche, forse una, o nessuna, non so. Ritorno a pensare alle parole dell’Omero argentino che non definisce l’indefinibile, quella astrazione che si avverte dentro e si fa corpo e si distende e ci veste di Bellezza. Perché la poesia è un incontro, il più impalpabile degli incontri che ti rimane addosso e ti fa umano anche in questo mondo dis-umano. Un incontro con l’inutile fondante, che rende liberi. Questo so.
Rita Rucco – Docente, poetessa, saggista. Direttrice della collana editoriale Pluriverso femminile della Casa editrice Milella