40 anni governo Craxi / Interviste/ 16/ parla Stefano Rolando. Fu all’origine della modernizzazione della comunicazione istituzionale in Italia

Stefano Rolando, dal 2001 di ruolo nel sistema universitario come professore di Comunicazione pubblica e politica (in IULM a Milano dopo esperienze in Luiss, Lumsa, Siena e Lugano), fu dalla metà del primo governo Craxi direttore generale dell’Informazione e dell’Editoria alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal 1988, con la riforma della Presidenza, capo del Dipartimento con assegnate quelle competenze, per complessivi dieci anni di esperienza a Palazzo Chigi, dopo essere stato dirigente della Rai e direttore generale dell’Istituto Luce.

 

 

 

Dopo quell’incarico fu anche direttore centrale del gruppo Olivetti, poi segretario generale del Consiglio regionale della Lombardia. In questa intervista, rispondendo a dieci domande, ricorda lo spirito e il contenuto della missione a cui era stato chiamato da Giuliano Amato e richiama altresì i tratti salienti del carattere riformatore di quel periodo della politica italiana.

 

 

 

Professor Rolando, quando data il tuo arrivo a Palazzo Chigi come direttore generale dell’Informazione e dell’Editoria?

Non arrivai con la squadra politica del gabinetto dell’esordio del primo governo Craxi. Ero in quel momento distaccato dalla Rai – in cui per cinque anni ero stato dirigente e assistente sia del presidente Paolo Grassi sia del presidente Sergio Zavoli – all’Istituto Luce come direttore generale. La delega dell’Informazione e dell’Editoria l’aveva Giuliano Amato, il sottosegretario di Stato a Palazzo Chigi che aveva portato quella funzione a rango di ministro. In realtà Palazzo Chigi, sulle prime di quel governo avviato nel marzo del 1983 non aveva quasi valutato a fondo  il significato  di avere  tra le competenze quel,  pur voluminoso (oltre trecento dipendenti), residuo del passato, diciamo pure l’erede del Ministero della Cultura Popolare ( Minculpop), per la parte Informazione, perché per la parte Editoria era invece un corpo amministrativo nato con le norme recenti, quindi inserito nell’agenda.

Di questo secondo aspetto, Amato si era dovuto infatti occupare subito, per problemi di antitrust, questioni proprietarie, aspetti connessi ai contributi dello Stato. Ma ci volle la preparazione del vertice europeo di Milano durante il 1984 (che poi avverrà nel giugno del 1985) a fare emergere un dossier “in fieri” sulla comunicazione istituzionale in Europa (sarà il dossier Adonnino dal nome del parlamentare europeo della DC che lo curò, per ricucire rapporti tra istituzioni e cittadini, con tantissime cose, tra cui l’invenzione di Erasmus) a porre agli stessi governi europei il problema di una leva moderna di governo che alcuni paesi avevano, altri no.

L’Italia non l’aveva?

L’Italia, per esempio, non l’aveva. Era sepolta da quarant’anni di marginalità delle funzioni esercitate prima con enfasi ed eccessi dal regime fascista. E tra i paesi europei, chi esercitava questa funzione aveva anche imparato a capire che comunicazione istituzionale e comunicazione politica non erano la stessa cosa. Dunque, nel 1984 si aprì un barlume di percezione di un tema che solo uno con la testa poliedrica di Giuliano Amato poteva intercettare.

Quindi entrasti nell’84, secondo anno di quel governo e penultimo anno di Pertini al Quirinale?

No, nel 1984 lavorai diciamo nell’ombra ad un rapporto che il sottosegretario Amato volle avviare con un’ équipe di esperti (oltre a me, estensore di quello studio – che ero ancora nei ranghi del servizio pubblico televisivo e cinematografico – c’erano il prof. Enzo Cheli per gli aspetti connessi alle riforme istituzionali e il direttore generale del Censis Nadio Delai per valutare la domanda sociale di nuove funzioni comunicative in capo al Governo). Si trattava di fare una ricognizione appunto europea per capire cosa facessero in questo campo gli altri paesi membri dell’Europa.

 

 

 

A cosa portò quella ricognizione?

Fu una cosa molto istruttiva. Che costruì anche le motivazioni di una vera rivoluzione necessaria in un campo in cui l’Italia era come narcotizzata dalle ombre del passato. Tutto questo allungò i tempi di un progetto che cresceva in modo del tutto riservato. E lo stesso quadro di governo e più in generale il quadro politico avevano un’idea ancora vagamente propagandistica di quelle funzioni. In parallelo con il vertice europeo di Milano, che resta nella storia per l’affermazione del mercato unico interno ma che portò alla luce provvedimenti importanti nel campo comunicativo,  arrivò anche la sostituzione in quella direzione generale di un direttore generale cultore di Dante che si occupava per lo più di premi letterari e che fu collocato  dignitosamente ai Beni Culturali con la nomina di un giovane (37 anni) che veniva dal giornalismo, dalla comunicazione di impresa (in area IRI), poi con responsabilità  alla Rai e nel cinema di Stato.

Era un percorso tecnico di chi aveva avuto anche il tempo di studiare il settore per come riattivarlo in sintonia con altre democrazie europee – a cominciare dai britannici, che erano il modello più forte – che si muovevano in ambiti moderni e innovativi. Malgrado ciò ci fu chi tuonò e aizzò anche i media a gridare contro quelle che un noto settimanale italiano chiamò “le mani di Craxi sull’informazione”.

Sarà stato l’Espresso e magari con artiglieria originata dalle opposizioni?

Nossignore. Fu Panorama con una sorprendente pagina intera, con mio ritratto e titolo che puntava al ludibrio (“Sarò il vostro Minculpop”), che nasceva nella redazione tendenzialmente anti-governativa, al tempo, di quella rivista. Il sottotitolo era: “Arriva a Palazzo Chigi un nuovo capo dell’informazione. Vuole modernizzare. Troppo?”. Un articolo firmato – pare incredibile dirlo oggi – da Augusto Minzolini. Utilizzando alcune reazioni parlamentari “allarmate”, tra cui quella dell’on. Franco Bassanini, reduce da rottura con i socialisti. Acqua passata. Lo stesso Bassanini, in anni successivi, riconobbe il senso di quella svolta. E anche avemmo diverse occasioni di seria collaborazione. Ma al tempo anziché comprendere che un grande passo verso la trasparenza e la cultura del servizio stava nascendo, si misero in moto alcuni spiriti che cercavano di colludere con il modo che per esempio Forattini aveva per ritrarre il presidente del Consiglio del tempo, cioè Craxi, regolarmente con gli stivali neri di Mussolini.

Ma in concreto quale era la missione assegnata a quell’incarico?

La descrissi in un libro scritto poco dopo il mio arrivo per spiegare prima di tutto a dirigenti e dipendenti e poi agli stakeholder del sistema mediatico-editoriale che si aspettavano all’opera una sorta di nuovo Bottai o peggio Pavolini. Libro che si intitolava “Il principe e la parola – Dalla propaganda di Stato alla comunicazione istituzionale” e che Leonardo Mondadori – che era una persona intelligente che capiva i cambiamenti – volle fare, assegnandola a una casa editrice del suo gruppo, che era nientemeno che Comunità. Lo stesso Giuliano Amato aveva tratteggiato l’obiettivo in brevi e scarne parole il giorno dell’insediamento (c’è ancora una foto tra gli arredi vetusti della sede di via Boncompagni). Abbattere la cultura del “silenzio segreto” che dominava la pubblica amministrazione del tempo e costruire l’esemplarità di fatti che dovevano portare a “trasparenza e accesso” (argomento che dopo cinque anni divenne infatti legge dello Stato e dopo quindici anni trovò la modalità bipartizan di diventare legge-quadro sulla comunicazione pubblica in Italia).

 

(1985)

 

Il presidente Craxi era solidale con questa impostazione?

Il presidente Craxi per i due anni in cui io operai nel quadro del suo governo, aveva del mio lavoro un’idea pragmatica di servizio alle istituzioni e di tutela degli interessi italiani. In Italia e all’estero. Era l’altra rilevante componente dello sviluppo della materia nelle esperienze europee, ambiti ai quali era molto sensibile e su cui c’erano anche scambi di opinione di alto livello tra i capi dei governi di quella fase di straordinario rilancio europeistico che fu la seconda metà degli anni ’80. Potrei raccontare molti episodi di chiamata diretta per affrontare temi che corrispondevano alla sensibilità di un leader che credeva nella trama solidale dell’Europa ma che aveva al tempo stesso un’idea forte della tutela dell’interesse nazionale oggetto non di retorica ma ovviamente della conflittualità connaturata con la crescita di competitività internazionale dell’Italia.

Hai fatto riferimento alla sintonia con i paesi europei. In cosa si manifestava?

 

 

 

Ricevetti tra i primi stimoli di iniziativa proprio quel dossier Adonnino adottato nel vertice europeo a Milano con la scritta sul faldone “attuare” e tra le cose che furono pensate fin dal 1985 e poi impostate nel 1986, vi era la creazione – che fu resa permanente –  di un “Club di Venezia” (dalla città che lo insediò) – di una rete stabile di rapporti e confronti tra i direttori della comunicazione di tutti i paesi membri,  per attivare – dopo quarant’anni di silenzi – scambi istituzionali e professionali, sempre gestiti nella informalità con presidi però delle istituzioni europee che furono preziosi.  Fu  un motore di armonizzazione, con un bagaglio di esperienza che dura tuttora, con segretariato presso il Consiglio UE e ancora oggi con un mio coinvolgimento. Tre figure politiche resero possibile la partenza. Amato (e lo stesso Craxi che autorizzò l’iniziativa) in Italia, Carlo Ripa di Meana, commissario italiano alla cultura e all’informazione in Europa, che fu presente all’apertura dei lavori e Michel Rocard, primo ministro francese, che fu il primo premier che aderì, con il suo direttore generale, al progetto. A ruota poi tedeschi, inglesi e Benelux, facendo in tempo ad aprirsi anche ai nuovi arrivati, tornati alla democrazia dopo esperienze dittatoriali, come Grecia, Spagna e Portogallo.

 

 

 

“Comunicazione istituzionale” era espressione riferita più alla relazione con i media o più al rapporto diretto con i cittadini?

L’espressione era concepita come perimetro globale di un sistema di governo all’interno di un processo democratico, di controllo e bilanciamento, in cui pesano anche media, imprese e cittadini. Dopo di che l’area dei rapporti con la stampa si muoveva a rapporto diretto e con nomina a chiamata, con il vertice politico dell’istituzione; mentre il dialogo sociale era in capo a una struttura radicata nell’amministrazione con personale selezionato per concorso, ampia e attrezzata per essere concepita come un’agenzia al servizio di tutto il quadro di governo capace di utilizzare tutte le tecniche in campo nella comunicazione di impresa ma con il fine di “spiegare” e non di “vendere”. Soprattutto con la missione – estesa anche ai rapporti inter-istituzionali soprattutto con regioni e città – di accompagnare la comprensibilità delle norme (esperienza di punta in Germania, al tempo), di svolgere iniziativa di ascolto dell’opinione pubblica (esperienza ineludibile in Francia), di svolgere una produzione informativa integrata, dall’editoria alla pubblicità (sulla quale imparavamo tutto dagli inglesi ma cominciavamo ad essere tra i migliori in Europa, per qualità,  creatività e riconoscibilità).

Che cosa in particolare produsse l’agenzia?

L’agenzia (come la chiamo io) produsse, nei miei dieci anni, mille realizzazioni, con alle spalle il supporto del Poligrafico, della Rai, delle agenzie di stampa convenzionate e un personale rinnovato, entusiasta di svolgere una “professione” non di essere solo un “sesto o settimo livello”. Limite invalicabile: mai la propaganda. Posso ancora fare una prova d’archivio con chiunque per dimostrarlo. In un libro intervista dedicato centralmente a questa esperienza (Il dilemma del re dell’Epiro, a cura di Stefano Sepe, ES-Editoriale Scientifica, 2018) ho provato ad argomentare in modo più contestualizzato questo aspetto.

Qualche esempio di quelle “mille realizzazioni” si può fare per capire la natura di quel lavoro?

Certamente. Esiste ancora un catalogo generale. Ma c’è ancora traccia nella memoria collettiva di alcuni risultati. Il contenitore più significativo creato nel tempo del governo Craxi fu il quarantennale della Repubblica, concepito in una cabina di regia in cui fu decisivo l’apporto (per partire dal Paese, dalla società, dai “nuovi” italiani) del Censis, che comportò mostre, ricerca storico-sociale, realizzazioni editoriali e audiovisive, rapporti con le università e con le piazze delle città italiane, trasformazione delle onorificenze di Stato (memorabile le cento “commendatrici della Repubblica”, tutte donne per il contributo scientifico, sociale e culturale dato all’Italia in quei quaranta anni). Ricordando qui l’equilibrio con cui Giuliano Amato governò un quadro decisionale che comprendeva il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il presidente del comitato delle celebrazioni Leo Valiani.

Altri esempi?

Tra quelle realizzazioni il corredo comunicativo della Commissione parità uomo-donna presso Palazzo Chigi fu il risultato di un incessante impegno civile. Stessa sorte per il quarantennale della Costituzione, che si attuò poi con il governo Goria, ricordo solo i 16 milioni di copie della Costituzione compiegate gratuitamente nelle edicole e distribuite in ogni luogo pubblico, dalle carceri agli ospedali. Riuso con determinazione la parola “memorabile” per ricordare la performance dell’Italia prima ospite d’onore alla Buchmesse di Francoforte nel 1988, con il governo De Mita, un protagonismo di autori, editori, artisti, creativi, intellettuali nel cuore dell’Europa che moltiplicò la vendita dei diritti e in generale del prodotto culturale italiana in Europa (nel 2024 l’Italia lo sarà per la seconda volta) e che lanciò la creazione del salone nazionale del libro a Torino.  A catena le iniziative tra fine anni ’80 e primi anni ’90 (governi De Mita e Andreotti) attorno alla costruzione del mercato interno europeo e ai progressi del processo di integrazione. Bellissima l’esperienza di comunicazione scientifica attivata da un programma iniziato con il ministro Antonio Ruberti e proseguito per alcuni anni.

Della stessa epoca il salto di qualità della pubblicità di Stato, programmata, sociale

Grandi campagne e grande raccordo tra punte comunicative e adeguamento dei presidi socio-sanitari (dalla tossicodipendenza all’Aids).La caduta del muro di Berlino mise in movimento un quadro di iniziative di intensificazione culturale con i paesi che stavano uscendo dalla perdita di identità nell’asservimento al sistema sovietico.

Celebre (in quel paese) fu il nostro treno della cultura giunto a Bucarest salutato dagli intellettuali romeni che videro arrivare per prima Roma (mater etimologica della stessa Romania) rispetto agli altri paesi UE.

Con gli anni ’90, pur facendo i conti con le ombre del declino della prima Repubblica, c’era ancora posto per una robusta attività editoriale che era anche alla base della dotazione delle rete dei nostri istituti culturali all’estero e con una attivazione delle convenzioni Rai per una diversa relazione con  i paesi soprattutto del Mediterraneo. La riforma della Presidenza del Consiglio (nel 1988) portò accentuate iniziative legate alla modernizzazione dello Stato e alle riforme amministrative, con una produzione di cosiddetta “editoria grigia” che alimentava una collaborazione interistituzionale. Con i governi Amato e Ciampi si mantenne lo sforzo di coordinamento pur legato a provvedimenti anche emergenziali (come le privatizzazioni).

L’efficacia comunicativa nel quadro dei grandi vertici internazionali era diventata un’ordinaria amministrazione che giunse ad efficacia riconosciuta nel passaggio dai governi Ciampi-Berlusconi attorno al G7 di Napoli. E poi – come connessione teorica costante – ci fu una seria riflessione sul perimetro disciplinare di un ambito che nessuno aveva davvero studiato e attorno a cui si sono poste al tempo basi metodologiche e contributi concettuali, fino a creare le condizioni per definire più materie (è del tempo l’intuizione sulla specificità della comunicazione di crisi e di emergenza; come è del tempo la relazione con l’educazione civica che si è trasformata anche negli ultimi contributi dati nel quadro della recente pandemia nell tema del “governo della spiegazione”, nel mio La comunicazione pubblica come teatro civile, ES-Editoriale Scientifica, 2021).

 

(1986)                   (1988)                    (1993)

 

Nella prima parte dell’esperienza di governo, Craxi era collocato in una coabitazione istituzionale con un presidente della Repubblica che apparteneva al suo stesso partito ma anche aveva naturalmente un’assoluta indipendenza di giudizio anche rispetto al leader del socialismo italiano. Si è parlato anche di tensione o comunque di rapporto difficile. Ti pongo questo quesito per essere stato tu – per nessi familiari – molto vicino al presidente Pertini fin dalla tua gioventù.

Anche su questo ho detto qualche volta, con la sobrietà che l’argomento richiede, il mio punto di vista.

Non stiamo parlando di un circolo del bridge dove gentiluomini si sfidano innervosendosi se tocca perdere una mano. Stiamo parlando dei massimi vertici di un paese occidentale in una fase di uscita dalle morse del terrorismo e dell’inflazione in cui si torna a competere a viso aperto in Europa e nel mondo. Soprattutto un paese che aveva al tempo i due terzi dell’elettorato che votavano i due maggiori partiti italiani, la DC e il PCI, che per alcuni versi soffrivano un po’ la nuova posizione del PSI di guida del governo.

È chiaro che il Capo dello Stato che per primo in Italia – prima con Spadolini e poi con Craxi – aveva mostrato che l’alternativa nella guida di governo era possibile, rimuovendo il convincimento diffuso sulla democrazia bloccata, e il Capo del Governo che stava conquistando una inedita stabilità (quattro anni di governabilità), non potevano cinguettare e complimentarsi a vicenda tutti i giorni. Il rapporto era antico e solido (il papà di Craxi, socialista e resistente, era stato prefetto della Liberazione a Como nominato dal capo dei socialisti del CLN che era Pertini).

C’erano differenze generazionali e di approccio a varie questioni politiche. E in più avevano entrambi una scorza un po’ ruvida e abitudini non curiali nel trattare le loro relazioni. Di qualsiasi genere. Io ho visto Craxi agire con grande e interiore affetto nei confronti di Sandro Pertini e ho sentito con le mie orecchie Pertini lodare Craxi a tu per tu dandogli dello “statista” verso la fine del suo mandato. Credo che entrambi – senza troppe intese ma con una soglia minima di buon senso – dovevano assumere le loro abitudini franche e indipendenti per salvaguardare la loro esposizione di esponenti di una forza minoritaria in una fase di grande potere istituzionale. Le pagine di testimonianza su di loro le avevo curate con scrupolo nel libro “Quarantotto” (edito nel 2008 da Bompiani).

 

(1987)

 

 

Nel tuo “visti da vicino” che giudizio hai elaborato nel tempo attorno al governo Craxi nel suo complesso?

Ho agito in quella compagine in un ruolo tecnico, ma con ampie dinamiche relazionali molto evidenti, perché quello era il settore di iniziativa. La cosa che mi porto dentro da quel tempo, come una sorta di codice immateriale di appartenenza a un’epoca anche di formazione per dirigenti giovani quale io e altri eravamo, è di vedere attorno non posso dire tutti, ma nemmeno voglio dire casi rari, persone che non erano lì per scaldare una sedia, per avere un posto, tanto meno uno stipendio (che al tempo, tra l’altro, erano fortemente limitati e dunque per niente competitivi).

La ragione che esprimeva la trama dei rapporti tra politici e tecnici – e non solo dell’area socialista, naturalmente – era quella di intere filiere che erano lì per svolgere anche se per aspetti dettagliati, il proprio frammento di un compito “sacro”, che era quello di riformare, cambiare, migliorare il segmento di Stato assegnato alla propria responsabilità. Me lo scrisse Giuliano Amato nella prefazione a quel citato mio primo libro-bandiera. Ma me lo scrisse di persona con una dedica inaspettata (nel frontespizio di una nostra pubblicazione sul vertice UE di Venezia da lui guidato) il presidente del Consiglio dei Ministri che sostituì, sia pure per breve tempo,  lo stesso Craxi a Palazzo Chigi e che era nientemeno che Amintore Fanfani.

Un bel riconoscimento

Ed era questo il fattore con cui i più anziani, quelli che avevano fatto l’esperienza del primo centrosinistra degli anni ’60, valutavano coloro a cui toccava questa “seconda ondata” all’insegna di una parola che non era vuota come lo è diventata poi negli anni, l’espressione “riformare lo Stato”. Feci un libro intervista quasi al termine della sua vita con Giovanni Pieraccini, ministro nei governi Moro del primo centro-sinistra, in cui questo era lo spirito della sua memoria e questo fu il titolo che volle dare al libro stesso (malgrado gli esiti acquisiti, quel titolo era L’insufficienza riformatrice, edito da Pezzini nel 2019).

 

 

 

Il secondo fattore che penso riassuma quella vicenda – ben al di sopra del mio spazio di testimonianza – era la percezione di appartenere ad una partita altamente responsabile per i destini internazionali del Paese, in cui non c’era bisogno di vantare tutti i giorni “l’orgoglio italiano” perché, quando sei in veri percorsi relazionali e competitivi al tempo stesso non fai mai propaganda inutile. Segui i dati, leggi i ranking, consulti la verità delle statistiche. Ma non ti imbrodi con lo stile diciamo così piccoloborghese che il fascismo aveva sperimentato e che purtroppo è tornato di moda.

 

(1987)

 

 

Mario NanniDirettore editoriale

 

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