De profundis. Dove sono finiti gli intellettuali

I "nipotini" di Popper. Le idee di Gramsci, Umberto Eco e di Bobbio. "Capire prima di discutere". "A cosa si è ridotta l’ "opposizione" degli intellettuali nel mondo libero e democratico, nel nostro amato Occidente?"

Si è spento da tempo ormai il dibattito culturale di alto livello che ha contrassegnato, in forme e con risultati diversi, il secolo passato e oggi ci si ripara, banalizzando il fenomeno, dietro l’asserzione – reiterata  come un mantra – che ciò si deve alla fine delle ideologie.

Di recente in un talk nostrano Umberto Galimberti l’ha menzionata, nella variante però di crollo, probabilmente suggeritagli dal lessico di guerra che sta attanagliando anche il nostro pensiero. Questa funerea e rassegnata ammissione, ovviamente, non è intesa nel senso positivo adoperato da Gramsci, cioè come liberazione dalla prigione del fanatismo ideologico attraverso un punto di vista “critico”, che è l’unico fecondo nella ricerca scientifica.

Il valore semantico attuale è piuttosto quello di una perdita di “fondamentali”, di crisi radicale e irreversibile delle costruzioni teoriche che nel passato si sono sviluppate sotto la pressione di interrogativi vitali, permettendo di meglio comprendere la realtà e gli uomini, di affrontare con strumenti mentali idonei problemi di convivenza e sopravvivenza, ma anche problemi di significato dell’esistenza.

Un mondo di idee che, come ad esempio quelle scientifiche, sono la cosa più reale che esista al mondo, come asseriva John Dewey, e che sono in grado di smontare la realtà, di abbattere montagne, di aprire nuovi varchi alla conoscenza. Pezzi reali del mondo reale creato dall’uomo. Quando si parla di costruzioni di idee non ci si riferisce solo alle idee scientifiche, ma anche a quelle morali, alle teorie dello Stato, a quelle economiche e alle concezioni del mondo che, una volta create, hanno retroagito sulla realtà, sull’esistenza e sulle altre idee, indicando nuovi problemi che reclamavano a gran voce la loro soluzione.

La produzione, la critica e la diffusione delle idee sono sempre state incardinate nella società, anzi hanno caratterizzato e distinto alcune società rispetto ad altre, concorrendo al raggiungimento di uno stadio diverso da quello precedente e da quello di un’altra società: le idee, il cosiddetto “mondo di carta”, hanno sempre contribuito a fare di una società quello che essa è, a “giustificarne” le scelte basilari e a farle muovere i passi con cognizione di causa e precise finalità da raggiungere.

È questo il compito di chi svolge un lavoro intellettuale. Nel migliore dei mondi possibili sarebbe auspicabile una divisione del lavoro che non radicalizzi quello manuale in certi strati della società e lasci costantemente all’aristocrazia dell’’intelligenza la prerogativa del lavoro intellettuale. Non è qui il caso di ripercorrere la demarcazione tra artes liberales e artes mechanicae che il mondo antico trasmise a quello medievale, sancendo un paradosso tautologico: le discipline che sono in grado di liberare l’uomo dalla sua materialità sono anche appannaggio esclusivo degli uomini liberi.

E gli altri?

Gli altri, covando un secolare senso di inferiorità non solo sociale, ma anche psico-esistenziale, andavano svolgendo lavori “manuali” di assoluta indispensabilità sociale ed economica. Mens versus manus: una contrapposizione che possiamo considerare superata? Non del tutto, ma il nodo del problema attualmente riguarda la vocazione degli intellettuali all’arte di rappresentare le idee parlando, insegnando, facendo interventi in televisione o sulla carta stampata.

A parte qualche pensatore della domenica, si registra un silenzio insopportabile da parte di coloro ai quali, per statuto e grazie a una competenza polivalente, il Novecento aveva assegnato il compito precipuo di interlocutori del potere. Quest’ultimo- come sosteneva Canetti- nella sua essenza più profonda è una forza statica, imperniata sul silenzio. I soggetti conflittuali capaci di trasformarlo,di renderlo dinamico sono i “padroni” della parola, perché “nell’eloquio tutto comincia a scorrere tra gli uomini, mentre nel silenzio tutto si irrigidisce”.

La tipologia dell’intellettuale è sempre stata disomogenea, costituita da voci corali e organiche di un movimento politico (saggi, ideologi, esperti, scrittori), oppure da singoli spiriti “eletti”, ma oggi si fatica a riscontrarla, immersi come siamo nello tsunami parolaio dei social e dei talk shaw, dove chiunque pensa di poter intervenire nel dibattito pubblico, di averne i mezzi e la competenza.

Tutti in scena nella concatenazione di domande e contro-domande e alla vana ricerca di risposte capaci di mettere fine alle repliche. Tutti nipotini di Popper, per il quale il conflitto tra principi morali e programmi politici procede  per tentativi e interventi limitati e suscettibili di correzioni continue. Solo che l’esercizio della critica attualmente sembra girare a vuoto, esaurirsi in se stesso, senza produrre le metamorfosi sperate sui ceti egemoni e sulla prassi politica, perché cantano troppi galli senza avere la voce intonata.

Una buona attrezzatura intellettuale è necessaria, in verità, ad ogni cittadino responsabile per corrispondere ai suoi bisogni autentici, per leggere e godere nel contribuire al mondo in cui vive, per non diventare il marcusiano “uomo a una dimensione”, cioè quella esclusiva del consumo.

Ma è altrettanto chiaro che il lavoro intellettuale vero e proprio necessita di un addestramento forte e continuo che può, anzi deve,impegnare la vita intera di un individuo: ars longa, vita brevis! Tanto più in una realtà complessa come quella contemporanea, che in alcune regioni del mondo lo è ancora di più e quindi presuppone uno sguardo non solo aperto, un’osservazione non solo attenta, ma anche profonda e articolata.

La complessità, come indica il termine stesso dal verbo latino complector, cioè abbraccio, non indica una sommatoria di parti, ma il loro intreccio, i nessi che le tengono insieme. Lo gnommero di cui parla Gadda nel suo Pasticciaccio, intendendolo però come groviglio, come “un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”, che non può essere riportato facilmente entro l’ordine rassicurante del logos universale.

Comprendere la complessità – anche in quel disordine che irritava l’ingegnere milanese – non significa “analizzarne” le singole parti, le zone di influenza, ma piuttosto le relazioni, come in un sistema secondo cui il tutto è sempre maggiore della somma delle singole parti: una realtà inter e multi-disciplinare, dialogica più che dialettica, che può comportare il superamento dei confini tra le scienze.

Questo lavoro reclama un’osservazione  che sia anche “riflessione” sulla conoscenza stessa, sui suoi limiti e sul suo dinamismo permanente. Conoscenza come processo attivo e inesauribile. “La complessità non è la totalità, anzi la complessità nasce dalla crisi della totalità”, ci insegna Morin.

Avere a che fare con la complessità è dunque un lavoro intellettuale molto più faticoso che in passato, direi quasi onnivoro oggi. Non può essere lasciato all’improvvisazione di dilettanti ma piuttosto, a parte il genio di  pochi singoli, affidato alle istituzioni deputate alla ricerca e all’insegnamento, il cui ruolo è socialmente imprescindibile, se non si vuole che la società stessa vada verso l’imbarbarimento.

Tanto più oggi con lo sviluppo inaudito e il continuo perfezionamento tecnologico dei mezzi di trasmissione dell’immagine e della parola scritta. La distinzione storica che fece Umberto Eco tra intellettuali “apocalittici” e “integrati” definiva le due posizioni assunte nei confronti dei media: da una parte l’accusa di contribuire potentemente all’appiattimento e impoverimento della cultura popolare, dall’altra, condivisa da Eco stesso, l’attribuzione a questi mezzi di un potenziale, mai registrato nella storia, di emancipazione e democratizzazione della cultura.

Ma “caldo” o “freddo” che fosse, il medium privilegiato per la comunicazione di massa, nell’ormai lontano 1964, era la televisione, mentre oggi, sempre secondo Eco, i social network danno diritto di parola a legioni di imbecilli. Pensatori apocalittici verso i social ce ne saranno pure, ma poi per manifestare le loro idee, sono obbligati ad usarli; così come esistono quelli che Roberto Maragliano chiama gli “asceti della tecnologia”, ingegneri informatici attratti esclusivamente dall’oggetto macchina, dal dispositivo tecnologico, e mossi dall’obiettivo di creare mezzi sempre più fluidi e colloquiali.

Dentro questi spazi specialistici, la logica della fluidità culturale e l’aspetto immateriale della conoscenza non sono adeguatamente studiati e problematizzati. Avremo macchine in grado di governare tutto lo scibile e tutte le forme dello scibile umano, ma è ammesso il sospetto che non andrà di pari passo con il loro perfezionamento quello dell’apporto culturale,  ridotto in genere alla “spettacolarizzazione” delle conoscenze o a un ritorno all’oralità dissimulata nella orizzontalità della scrittura elettronica.

In questa nuova e imprescindibile realtà, dove sono e come si pongono gli intellettuali? Qual è la loro famosa “funzione”? In cosa consiste il loro contributo alla ricerca e alla crescita culturale e morale della società? In quali luoghi si svolge questo ruolo e con quale “responsabilità”? Gramsci opportunamente  osservava che “tutti gli uomini sono intellettuali[..], ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali.  Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali, in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali…”.

Oggi questa distinzione è saltata e risulta non confacente, per l’appunto, alla complessità del reale contemporaneo. Mi chiedo chi potrebbero essere oggi gli intellettuali nel senso specifico e professionistico inteso da Gramsci. Un coacervo indistinto di maîtres à penser, o i filosofi di professione? Non certo i “politici attivi”, che non sono organici neppure al loro partito. E poi artisti, architetti, professionisti socialmente impegnati, scrittori  e letterati: categorie che si auto-definiscono intellettuali.

Ma per esserlo davvero dovrebbero prendere posizione contro ogni forma di prevaricazione del potere politico e combattere la “ragion di Stato” in nome della ragione e della verità, come dichiarato nel Manifeste des intellectuels che ne segna la genesi. Gli specialisti contemporanei del sapere non corrispondono neppure a quel profilo che il sociologo polacco Zigmunt Bauman ha definito di “interprete”, cioè di qualcuno che si fa carico dell’intermediazione comunicativa nel pluralismo dei discorsi globali del nostro tempo.

A me pare che confermino piuttosto quanto scrisse Raymond Aron nel suo L’oppio degli intellettuali: “Quanto più gli intellettuali appaiono estranei alle preoccupazioni dei governanti, degli amministratori e degli industriali, tanto più i professionisti del denaro e i capitani d’industria mostrano aperto disprezzo e antipatia nei confronti dei professionisti della parola. Quanto più i privilegiati sembrano ribelli alle esigenze delle idee moderne e incapaci di assicurare la sicurezza collettiva e il progresso economico,tanto più gli intellettuali si volgono all’opposizione”.

Anche questo genere di conflitto è sempre più raro, almeno nel nostro Paese, o lo si vede espresso in forme superficiali, aggressive, spesso insultanti e autoreferenziali. A cosa si è ridotta l’”opposizione” degli intellettuali nel mondo libero e democratico, nel nostro amato Occidente?

Manca di certo quella spinta verso una rivolta virtuosa che faceva parlare di militanza, di domande razionalmente formulate dalla propria coscienza  e che fu resa famosa dall’aforisma di Albert Camus “mi ribello, dunque siamo”.

Una spinta presente – in forme solitamente drammatiche – solo nei regimi, nelle cosiddette “democrazie dittatoriali”. In Italia, in particolare, l’intellighenzia si è dispersa nell’anonimato o emerge solo rapsodicamente e confusamente dal fondo poltaceo delle ideologie perdute. E di solito parlano tecnici delusi e letterati inaciditi.

Alla categoria degli intellettuali odierni non è neppure ascrivibile il difetto che ad alcuni attribuiva Stanislav Andreski, cioè quello di nascondersi dietro un linguaggio oscuro e ambiguo, dando così ai mediocri la possibilità di commentare quanto da quelli espresso in modo tenebroso e pesante. Tacciono anche questi intellettuali con “propensioni parassitarie”, come li definiva il sociologo polacco.

Talvolta si ricordano per caso di Bobbio e tentano di seminare dubbi, con l’apparente intento di dare spazio alla critica, ma ottenendo quasi sempre l’effetto di risultare banalmente polemici e provocatori. Il “dovere di essere pessimista”- come lo intendeva il filosofo torinese- era legato alla paura dell’uomo di ragione, cioè al timore  che a causa dei nostri errori, del cattivo uso che i potenti fanno e possono fare del loro potere e gl’impotenti delle loro libertà, potesse essere distrutto l’ordinamento civile costato lacrime e sangue.

Capire prima di discutere: questo un altro grande insegnamento di Bobbio, perché un maestro non è un leader né un capo e l’esercizio della critica deve avere un compito antidogmatico e di intelligente mediazione tra diverse posizioni. Non può tradursi nel negazionismo modaiolo che non semina dubbi e non favorisce il dibattito democratico.

Bisogna richiamare all’impegno gli “uomini di lettere”, quegli stessi che circa venti anni or sono Pietro Citati invitava al silenzio,accusandoli di produrre parole sciocche e inutili quando si occupano di politica, materia che non conoscono da vicino. Come dire che Sofocle, Dante, Victor Hugo, Zola, Sciascia, Pasolini, in quanto letterati, non avrebbero dovuto occuparsi di politica! Stare consapevolmente, e non da estranei o da spettatori, nella polis è proprio compito del  metier d’homme che è la scrittura.

Della scrittura civile, come pure della poesia civile del passato si sente proprio la mancanza, nel proliferare di scritti di politica, di arte militare, di geopolitica, di fantapolitica, di pseudo-politica del presente. La nostra collettività, a quanto pare, ha la letteratura che le si addice, perché il capitale intellettuale non ha messo il turbo per adeguarsi ai tempi.

 

Caterina Valchera – Filologa e saggista

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