Scenari – La “solitudine” di Giorgia

Tra l’urgenza di costruire una forte classe dirigente e la necessità di progettare un partito nuovo di stampo liberal-conservatore di massa

Tra l’urgenza di costruire una forte classe dirigente e la necessità di progettare un partito nuovo di stampo liberal-conservatore di massa. Magari attraverso una Costituente. Ma bisogna cogliere i segni dei tempi perché il voto dell’elettore italiano è diventato volatile. Da 15 anni a questa parte il lettore troverà il titolo “la solitudine di Giorgia” un po’ eccentrico, inattuale, forse addirittura surreale. Lo sembrerà un po’ meno dopo un chiarimento preliminare, almeno sulla parola “solitudine”. Da intendere, in questo caso, nel senso di mancanza, di una cosa che non c’è o non c’è ancora.

Intendiamoci: è necessario, è giusto dare all’Onorevole Giorgia Meloni e al suo partito, ma soprattutto a lei, quel che le spetta. È al governo da un anno e mezzo, ci è arrivata grazie a una specie di lunga marcia stando sempre sulla trincea dell’opposizione di vari governi, giallo- verde,  giallo–rosso, poi del governo Draghi.  Ci è arrivata, bisogna però anche ammetterlo, grazie a una legge elettorale –  il discusso Rosatellum – che rimane sciagurata, quale che sia lo schieramento a vincere le elezioni, perché colpisce al cuore l’idea stessa della rappresentanza: l’elettore non può scegliere il suo candidato ma limitarsi a votare liste bloccate di candidati, decise da privati cittadini quali sono pur sempre i segretari di partito.

Ma tant’è: quella per ora è la legge, e Meloni ha vinto. Tra lo stupore generale, forse anche il suo. Bisogna tuttavia riconoscere anche, a suo merito, che ha vinto con un partito che di fatto si identifica in lei (partito personale, dicono gli avversari a corto di argomenti), ma soprattutto un partito, l’unico in Italia, fondato da una donna.  Che, altro record, ha portato per la prima volta la Destra a Palazzo Chigi, facendo cadere quello che era stato per oltre 70 anni il fattore D (Destra), dopo che il fattore K (Kommunism) era già caduto con l’avvento di D’Alema succeduto a Prodi, due volte vincitore su Berlusconi e due volte azzoppato senza finire la legislatura.

Inoltre da un anno e mezzo, la presidente del Consiglio (usiamo “la presidente” perché noi restiamo affezionati alla lingua italiana) ha tessuto importanti relazioni internazionali: dai gesti affettuosi di Biden, al feeling con Ursula von Der Leyen, a “trovate” politiche per tentare di risolvere la complessa questione migratoria (accordi con l’Albania e in Africa), mentre viene attaccata per la sua “amicizia” o contiguità con autocrati come Orban, che governa un Paese dell’Unione Europea  (l’Ungheria) dove il rispetto dei diritti umani è messo in crisi da scene come quella di Ilaria Salis, tradotta in catene e condotta al guinzaglio come un cane nell’aula di giustizia.

I sondaggi su Fratelli d’Italia, sull’operato del governo e di chi lo guida, vanno un po’ a intermittenza, con oscillazioni, sul filo dei decimali, attorno alla soglia del 26, a volte 27 per cento e in certi mesi anche di poco oltre. Un bel bottino, se si pensa al punto da dove era partita la formazione di Fratelli d’Italia: il 3 per cento!

L’esplosione di consensi verso il partito di Giorgia Meloni non è, tuttavia, di per sé, un fenomeno nuovo né strano nel panorama politico italiano: sono dieci – quindici anni anni più o meno che l’elettorato italiano ha di queste accensioni, chiamiamoli pure innamoramenti, infatuazioni, cotte. Seguite finora da altrettante delusioni. Prima è accaduto con Renzi, l’homo novus, che arrivò a oltre il 40 per cento alle europee per il suo partito, che allora era il Pd. Animato, o forse più propriamente posseduto, da quello che i francesi chiamano esprit florentin, un misto di furbizia e machiavellismo domestico, invece di governare e puntare, quale capo di un partito pur sempre di sinistra, contro le disuguaglianze, e fare seriamente la riforma fiscale, si mise a toccare la Costituzione: di solito le riforme costituzionali sono terreno di lavoro dei partiti, del Parlamento, non sono certo in testa all’agenda di un governo, come si è messa a fare anche l’on. Meloni.

Sappiamo com’è finita la favola bella che arrideva a Matteo Renzi e alla Ministra delle riforme, Maria Elena Boschi. Renzi è addirittura uscito dal partito che aveva guidato, si è portato appresso qualche fedelissimo (tra cui Rosato, sì proprio lui, l’autore del rosatellum, che poco tempo fa lo ha peraltro abbandonato per passare a Calenda), ha costruito un altro partito, Italia Viva, che è come certi aerei che non riescono a decollare e rischiano di schiantarsi se si alzano in volo.

Incidentalmente osserviamo che c’è un certo “patriottismo lessicale” nei nomi di tanti partiti italiani: cominciò Berlusconi con Forza Italia; poi Di Pietro con Italia dei valori, poi Fratelli d’Italia, Italia Viva (Renzi), Italexit di Gianluigi Paragone, Italia dei moderati, Italia al Centro (Toti e Quagliariello), Noi con l’Italia (Maurizio Lupi), Coraggio Italia e Vinciamo Italia. Ma si tratta di patriottismo o di mancanza di fantasia?

Giorgia Meloni tra “l’opzione Bobbio” e “l’opzione Montale”

Quella riforma costituzionale e il referendum disastroso furono fatali a Renzi e al suo destino politico: il senatore di Rignano, come, credendo di denigrarlo, lo chiamano i suoi detrattori, resta pur sempre un politico brillante e intuitivo, ma la scarsa messe di voti che stenta a crescere nonostante i suoi fidanzamenti-sfidanzamenti (prima con Calenda, ora con Emma Bonino, in versione elezioni europee) ci dice che gli elettori gli hanno voltato le spalle. E come succede in amore, quando è finita è finita, specialmente se la delusione è stata cocente. Non vale qui il detto “mai dire mai”. Niente grandi progetti, solo piccolo cabotaggio.

Incidentalmente domandiamo all’on. Meloni: lei crede a quelle che Norberto Bobbio chiamava le dure repliche della storia? Crede alla teoria della storia magistra vitae? Oppure è più d’accordo con Eugenio Montale che dice “la storia non è magistra di nulla che ci riguardi”?

La domanda non è oziosa, perché la rivolgiamo alla presidente del Consiglio che, come il suo predecessore prima nominato che pensò di mettere mano alla Costituzione, ora vuole introdurre l’elezione diretta del premier, un esperimento che non ha attecchito in nessun Paese democratico, e che ha già subito molte critiche e non solo da parte dell’opposizione.

Ma riprendiamo il nostro telegrafico excursus sulle volatilità del sentiment elettorale del popolo italiano. Passano cinque anni e nel 2018 gli italiani cambiano oggetto d’amore: è la volta dei Cinque Stelle, di un movimento che dichiarò di aver eliminato nientemeno che la povertà, e si propose di aprire il Parlamento come una scatola di tonno.  Ma poi, quando l’hanno aperta,  si sono accorti che dentro c’erano loro stessi.

I Cinque Stelle sono stati per molti italiani che li avevano votati, più del 30 per cento, e in alcune regioni più del 60-70 per cento – una nuova speranza, un po’ di astenuti erano ritornati alle urne, ma poi due governi Conte, prima giallo-verde (con la Lega)  poi giallo-rosso (con il Pd), non sono serviti a tenere accesa quella speranza di vero rinnovamento del Paese. Il governo cadde e si rese necessario l’arrivo di un tecnico, Draghi, per aggiustare un po’ di cose e per salvare il salvabile, con un’agenda rigorosa e severa, che poi, ironia delle cose, diventò per qualche motivo una specie di bandiera programmatica e salutare per chi arrivò al governo dopo di lui: la Destra. Questa “agenda Draghi” ora non la si menziona più, in compenso l’ex presidente del Consiglio continua a godere di un certo prestigio in Europa, e sembra destinato a qualche incarico di livello europeo.

La solitudine di Giorgia Meloni

Beneficiaria degli insuccessi dei governi precedenti, è risultata la Destra nel 2022: da una parte le divisioni della sinistra, l’incapacità di far prevalere le cose che uniscono su quelle che dividono, la miopia e il protagonismo di certi personaggi (Renzi, Calenda, lo stesso Enrico Letta); dall’altra parte, una certa compattezza dei partiti del centrodestra hanno portato quest’ultimo al governo del paese, ma stavolta con la Destra come guida, e Giorgia Meloni presidente del Consiglio.

Dati a Meloni i meriti che le spettano, ora vediamo in che cosa consista quella che abbiamo chiamato la solitudine di Giorgia. Lo diciamo ovviamente da osservatori distaccati, neutrali, senza intenzioni beneauguranti o malauguranti, tenendo presente che in questi casi l’analista può apparire, al di là delle intenzioni, una sorta di avvocato del diavolo.

Ci sono due questioni importanti: una certa volatilità dell’elettorato italiano, come si è visto negli ultimi 15 anni, e anche una certa propensione a disertare le urne, con punte di astensionismo allarmanti. Sono dati che una donna politica accorta come Meloni ha ben presenti per le varie implicazioni ad essi collegate.

Gli stessi sondaggi pur favorevoli non sono immutabili come le tavole di Mosè e possono essere soggetti a tante cose: i risultati concreti dell’azione del governo, la congiuntura internazionale, vari fattori imprevedibili. Per stabilizzare tali fattori è evidente che l’azione di governo ha bisogno di una continua accelerazione per lasciare il segno, per marcare una vera discontinuità rispetto ai governi passati. Questa discontinuità, che in molti si aspettavano, finora non si è vista ma Giorgia Meloni ha ancora tempo per realizzarla.

Ma in che cosa consiste propriamente la solitudine dell’on. Meloni? Detto schematicamente, la presidente di Fratelli d’Italia e la presidente del Consiglio, che sono la stessa persona, ha due grossi problemi da affrontare all’orizzonte politico di medio e lungo periodo, anzi tre: non ha (ancora) una classe dirigente politica e di governo adeguata alle sfide che i tempi nuovi e le elezioni del 2022 hanno prodotto. Il consenso della presidente del Consiglio, quello anche personale, è superiore a quello del suo partito; lo si scoprì durante le elezioni comunali di Roma, quando Meloni prese un bel bottino di voti, anche se non fu sufficiente a prevalere su Virginia Raggi; è la stessa situazione in cui si trovò Fini, quando sfidò Rutelli a sindaco di Roma nel 1993, ed ebbe l’endorsement di Berlusconi, non ancora sceso in politica ma quasi pronto a farlo: se votassi a Roma, voterei Fini.

Il partito di Fratelli d’Italia è un contenitore bisognoso di definire meglio la sua identità, la sua carta ideale. Detto più chiaramente: l’on. Meloni avrebbe bisogno di una nuova forma partito, di un rassemblement che raccolga tutti i moderati e i conservatori, oltre alla quota di nostalgici il cui peso zavorra ancora l’identità stessa del partito. Perciò potrebbe essere utile, magari dopo le elezioni europee, una Costituente dei liberal-conservatori, che assumesse in sé il meglio della dottrina liberale dei diritti coniugandola con l’anima sociale che è stata sempre un connotato della Destra.

Non si tratta di ingrandire la casa già esistente di Fratelli d’Italia ma di costruirne una nuova, in cui chi entra non si senta un “ospite” o un “nuovo arrivato” ma un condòmino ab initio. In questo modo, forse, fasce di elettori che tuttora restano a casa insoddisfatti e scettici non solo verso la Sinistra ma, a quanto pare, anche verso la Destra, potrebbero tornare a essere soggetti di cittadinanza politica attiva.

Una casa nuova, secondo una analoga intuizione che ebbe Berlusconi quando costituì la Casa delle libertà, servirebbe a coloro che sono orientati a destra ma anche a tanti cittadini moderati che non guardano a sinistra e magari a sinistra non voteranno mai, ma restano al centro, un centro finora frastagliato dove ci sono tanti galli e galletti a cantare, e questo tra l’altro spiega perché, come dice il proverbio, stenta a farsi giorno. Perché ognuno di questi galletti pretende di dare il la all’inizio della giornata politica e alla relativa agenda.

L’intuizione berlusconiana di una casa dei liberal moderati conservatori certo la potrebbe sviluppare Forza Italia, dove il generoso Tajani cerca di rilanciare una formazione che per anni ha vissuto con il carisma di Berlusconi. Ma la dura legge dei numeri (e dei voti) assegna oggettivamente a Giorgia Meloni questo compito storico di fare un rassemblement di “tutti coloro che non votano a sinistra”. Piaccia o no a Tajani, che tuttavia mantiene un aplomb british dentro la coalizione e nel governo, e a Matteo Salvini che invece non riesce e elaborare il lutto di essere il vice di Giorgia Meloni, spetterebbe alla presidente di Fratelli d’Italia, che è il partito guida del governo, tentare questa opera di ricomposizione dei ceti moderati e conservatori nel nostro Paese.

Ovviamente, una nuova casa ha bisogno di solide fondamenta. Fuor di metafora, ha bisogno di un atlante ideale e politico in cui chi aderisce possa riconoscersi. Per costruire questo atlante Gianfranco Fini fece la svolta di Fiuggi, fece alcuni atti di ripudio, definì il fascismo il male assoluto.

La “nuova casa” potrebbe avere anche una forma di federazione, dove i singoli partiti coesistono ma mantengono i loro connotati storici, ideali e politici, ma dove c’è un federatore che guida l’alleanza.

Giorgia Meloni ha definito le leggi razziali una infamia. E non ci sono dubbi. Ma forse andrebbero scritte in una ideale Carta dei valori parole nette e definitive sul ripudio del fascismo non solo come esperienza storica ma anche come metodo politico, ben al di là dunque dell’alternativa di Almirante, che si limitò a proclamare: “non rinnegare non restaurare”.

Una casa nuova passa per una netta e irreversibile affermazione dei valori della persona, della  libertà di pensiero, d’impresa, di espressione, la libertà di fare cultura e ricerca; il netto ancoraggio all’Europa, a una forma federale come gli Stati Uniti d’Europa; il taglio di legami con Paesi, fossero anche europei, che non rispettano i diritti umani.
Chissà, forse ci sono altri cittadini disposti a entrare nel partito dell’on. Meloni, ma vengono frenati da vari fattori: qualche opacità nella fisionomia politica e diciamo pure ideologica (questa parola non deve fare paura) di Fdi; la domanda se ha chiuso i conti definitivamente con il passato a cui Fdi, uscita da An, uscita dal Msi, si riferisce.

Giorgia Meloni in che rapporti si pone con il fascismo? Ha detto parole coraggiose e inequivocabili contro le leggi razziali, definendole infami. Ma sul fascismo?

Ma al di là di questo, e parlando in positivo, l’on. Meloni potrebbe elaborare una carta di valori liberal democratici a cui pensa di ispirare la sua politica.  Sfrutti il vento favorevole, finché soffia, per costruire una nuova formazione che faccia scelte irreversibili, una carta dei diritti. Faccia un manifesto liberal conservatore, mobiliti gli intellettuali della Destra, esponenti della cultura, del mondo accademico, della ricerca in qualche modo contigui con il mondo di destra, anche se non sono gramscianamente organici. E faccia di questa formazione il centro propulsore di un partito liberal conservatore di massa. Berlusconi non c’è riuscito, pur avendo avuto nel 2001-2006 una stragrande maggioranza politica e parlamentare. Ora Meloni, a capo di uno schieramento di Destra-Centro, potrebbe ritentare l’impresa. Tentativo comunque difficile, ma non proibitivo, soprattutto se praticato con spirito nuovo, lavorando sulle idee, e abbandonando criteri di stretta appartenenza, o di stretta fedeltà di gruppo, ma aprendo le porte alla società civile.

In Italia, lo sappiamo, per molti anni chi era, o si definiva, di destra, era scambiato per nostalgico, fascista o neofascista.  A destra, c’è stato, è vero, il partito liberale di Einaudi, di Croce e di Malagodi, ma a prevalere nella percezione elettorale è finita la destra e l’estrema destra. Sempre confinata all’opposizione, tanto che Moro, per evitare che gli votassero il governo, predicava la delimitazione della maggioranza, e dichiarava i voti di destra, specialmente quelli missini, non richiesti e non graditi.

Poi nel 1994 c’è stato lo sdoganamento, da parte di Berlusconi: i voti del Msi erano spendibili. Fini poi ha fatto un lavoro meritorio, un’opera di depurazione ideologica tagliando i ponti col passato, emblematicamente usando frasi da “troppa grazia sant’Antonio”: dopo aver definito Mussolini il più grande statista del secolo, definì il fascismo un male assoluto; sciolse il Msi, fondò Alleanza nazionale sciacquando nelle acque di Fiuggi schemi, idee e programmi.

Nella carta costitutiva dei riferimenti culturali fu inserito perfino Gramsci. Poi Fini incappò in alcune disavventure, più personali che politiche, s’illuse di fare il delfino di Berlusconi, entro nel Pdl con un partito di cui già Berlusconi aveva conquistato molti dei suoi luogotenenti, per cui quella scelta è ancora in dubbio se fu un suicidio o un passo obbligato.

In ogni caso Fini aderì anche perché Berlusconi si era proposto di attuare la rivoluzione liberale, con un partito che anche nel nome si chiamava “della libertà”. Resta la curiosità di sapere che cosa sarebbe successo se Fini fosse rimasto a capo del suo partito, senza entrare nel Pdl. Giorgia Meloni, giovane Ministra dello Sport, dopo il crepuscolo di Fini, non volle imbarcarsi nella formazione di Forza Italia, preferendo coltivare il suo orticello, dove allora le piante erano poche e poco rigogliose. Ha attraversato anni di opposizione rifiutando di entrare nei governi dove forze politiche ex alleate facevano il bello e cattivo tempo.

Questa rendita di posizione le ha giovato, e oltre ogni previsione si è trasformata in un successo elettorale al punto che è riuscita ad arrivare a Palazzo Chigi. Forte di fama e di ventura, con i sondaggi che puntualmente registrano un trend molto alto di consensi. E allora, ripetiamo il ragionamento fatto prima, con altre parole e altre domande: Giorgia Meloni pensa di restare con un partito come l’attuale? O di costruire una nuova casa, una nuova nave per allargare il consenso a nuovi strati della società italiana? Per fare entrare energie nuove, professionalità qualificate, altri ceti, e quindi creare le condizioni per una classe dirigente rinnovata e attrezzata per gli ardui  compiti da affrontare?

Una tale operazione sarebbe oltretutto un servizio al Paese, alla democrazia, alla semplificazione del quadro politico e degli schieramenti. Perché si creerebbe, per contraccolpo, a sinistra una analoga spinta alla ristrutturazione delle forze politiche e l’impulso a federarsi. Sempre sperando che dal cilindro della Storia esca un Federatore.

 

Mario NanniDirettore editoriale

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