Verso le elezioni / Europa. La lunga vigilia

Il voto del prossimo giugno ha dentro molto di più: il destino stesso di un’Europa ferita da attacchi esterni e da fratture interne, avvelenata da un ideologismo nazional-populista, che, per quanto meno impattante rispetto a qualche anno fa, continua ad essere pericoloso, impastandosi con l’unico punto di convergenza tra i sovranisti americani alla Trump, e quelli asiatici come Putin e Xi: il ridimensionamento dell’incomodo europeo sulla scena mondiale. Per l’Italia occorrerebbe ritrovare un idem sentire per difendere gli interessi nazionali concretamente e partecipare alla costruzione della nuova Europa da protagonista, ricordando che da vent’anni non ci viene riconosciuta la carica del Presidente della Commissione-l’ultimo è stato Prodi- e che dalla riforma del 2009 non abbiamo mai avuto il Presidente del Consiglio europeo. Avrebbe senso, forse, ritrovarsi tutti su una candidatura di caratura e reputazione internazionale come Mario Draghi. Occorre, dunque, scrivere una seria agenda italiana per il futuro dell’UE.

Nella politica italiana è antica abitudine la rimozione del presente nell’attesa di un evento elettorale che, una volta compiuto, predisporrà gli attori ad altre attese di nuovi compimenti, oltre che all’aggiustamento provvisorio del tiro e dei rapporti con partner e competitori. Si tratta di una postura che discende, con ogni probabilità, dalle abitudini della primissima Repubblica, quando lo strumento ausiliario di conoscenza rappresentato dal sondaggio elettorale non era diffuso e il richiamo alle urne rappresentava l’esclusivo strumento di misurazione del consenso dei partiti, a prescindere dall’occasione- se voto locale o nazionale, parziale o globale- che portava la gente ai seggi.

Oggi esistono gli istituti demoscopici con la loro produzione alluvionale e quasi quotidiana del gradimento, ma non esistono più i partiti e tra un po’ neanche gli elettori. Forse per questo le elezioni europee di giugno si propongono come il giudizio di Dio per la politica italiana, totalmente ripiegata sul “domestico” e, apparirebbe, poco consapevole del significato ultimativo che questo turno elettorale assume, mettendo l’UE di fronte al bivio: contenitore di euroburocrazie autoreferenti e procedure ammuffite oppure soggetto politico dotato di dignità e peso internazionale, il “terzo” necessario tra Usa e Cina.

 

 

 

Il primo comandamento per affermare un’autorevolezza politica al cospetto del popolo che s’intende rappresentare è, appunto, l’investitura: quanto più è ampia la partecipazione al voto tanto più la rappresentanza sarà forte, avvertita, legittimata. Come siamo messi, allora, con l’affluenza alle urne? L’Italia, che partì nel 1979 con un vero e proprio plebiscito partecipativo, che vide alle urne l’85,7% degli elettori (a fronte di un 62% globale europeo dell’epoca), ha subito il crollo d’interesse e di partecipazione più forte tra gli Stati membri, registrando un 54,5% di votanti, più del 31 % in meno in 45 anni (mentre la media europea, in rialzo rispetto alle ultime tornate, è stata del 51%, l’11% in meno rispetto al dato di partenza).

L’Europa rappresentata dalla politica italiana e dai media resta dunque un’entità distante, un pianeta sconosciuto, spesso percepito come perverso dispensatore di balzelli, di regole draconiane, di regolamenti inutili se non persecutori. Non esiste una narrazione controcorrente che spieghi, per esempio, che l’attività legislativa del nostro parlamento, altro non è nella maggioranza delle norme approvate se non quella originata dall’Unione Europea, che ci chiama a ratificare e ad eseguire le sue decisioni, in base al tracciato segnato dai Trattati.

Dunque l’Europa c’è già nelle nostre vite, ma le sue istituzioni devono scegliere: cambiare, seguendo l’intuizione dei Padri, per rafforzarsi in autorevolezza e in efficienza, oppure diventare un Moloch composto da burosauri autoreferenti.

Di fronte ai cambiamenti radicali in atto sullo scacchiere mondiale, di fronte alla nuova distribuzione dei poteri e delle sfere d’influenza, di fronte all’equilibrio instabile come connotato permanente, di fronte alle guerre vicine, ai flussi migratori imponenti, alla travolgente e incontrollabile avanzata delle tecnologie della comunicazione, che ci impone di riflettere sul ruolo degli Over the Top, i padroni del Web e della finanza globale e quale sia la loro incidenza nel processo democratico, alla crisi climatica, l’Europa o diventa soggetto politico in grado di reclamare il suo protagonismo sulla scena globale, oppure dei suoi resti sopravvivrà soltanto il “mercato unico”, come ricordava Mario Draghi al Financial Times nel novembre 2023.   

Un mercato unico di cui gli attori della politica europea potrebbero accontentarsi, beninteso, accomodandosi in una confort zone di sovranità ed interessi nazionali che rinunciano a proiettarsi nella più alta dimensione unitaria. Ma questa è miopia pericolosa: la polarizzazione della geopolitica globale è oggi peggiore di quella dell’età della guerra fredda. In un mondo diviso e conflittuale manca il ruolo del mediatore che potrebbe essere svolto dall’Europa. Di più: in un tavolo planetario in cui dovranno necessariamente codificarsi i nuovi equilibri globali, perché ai tempi di Yalta, ormai lontana più di tre generazioni, la Cina e l’India non c’erano, perché il crollo del muro di Berlino è datato 1989 e la Russia non è più ormai l’Unione Sovietica, ma una potenza locale che invade Stati sovrani con sogni allucinatori d’impero zarista, l’Europa non c’è. Come non c’è nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Come non c’è neanche nell’UE stessa, paradossalmente, dove sulle questioni che contano i trattati impongono la regola dell’unanimità, che poi si traduce nel diritto di veto dell’unico che si mette di traverso.

Il voto delle Europee, allora, resta, per la politica italiana, sullo sfondo come una fastidiosa ineluttabilità, mentre la scena pubblica continua a consumarsi sul quotidiano, fatto di microconflitti ad uso mediatico, del solito apparato di digrignamento di denti, di uso di parole violente per coprire il vuoto di pensiero. Passa in cavalleria un dettaglio: la posta in gioco, non è certamente quella di consentire o meno alla premier in carica di prendere le misure per un eventuale show down della legislatura, con l’obiettivo di ricomporre sotto l’icona della leadership un nuovo governo senza incomodi interni e con un’opposizione azzoppata.

Il voto del prossimo giugno ha dentro molto di più: il destino stesso di un’Europa ferita da attacchi esterni e da fratture interne, avvelenata da un ideologismo nazional-populista, che, per quanto meno impattante rispetto a qualche anno fa, continua ad essere pericoloso, impastandosi con l’unico punto di convergenza tra i sovranisti americani alla Trump, e quelli asiatici come Putin e Xi: il ridimensionamento dell’incomodo europeo sulla scena mondiale.

Forse non è facile da raccontare ad un elettore inondato da messaggi traversi che questo potrebbe essere, invece, per noi italiani forse il momento migliore per provare a riacciuffare un ruolo non più laterale ma protagonistico nel contesto europeo, come lo è stato nel breve biennio a guida Draghi, perché l’Unione dovrà necessariamente rivedere i suoi progetti e le forme normative per farli vivere, attraverso una revisione dei trattati che superi la palla al piede dell’unanimità sulle decisioni politiche.

Per l’Italia occorrerebbe ritrovare un idem sentire per difendere gli interessi nazionali concretamente e partecipare alla costruzione della nuova Europa da protagonista, ricordando che da vent’anni non ci viene riconosciuta la carica del Presidente della Commissione- l’ultimo è stato Prodi- e che dalla riforma del 2009 non abbiamo mai avuto il Presidente del Consiglio europeo. Avrebbe senso, forse, ritrovarsi tutti su una candidatura di caratura e reputazione internazionale come Mario Draghi. Occorre, dunque, scrivere una seria agenda italiana per il futuro dell’UE.

 

 

 

Perché non è più tempo di ripetere come un mantra l’assioma “non possiamo non essere europei” senza spiegarne le ragioni, ma dobbiamo dare risposte di senso al rischio di un declino irreversibile dell’Europa dei Padri, che non è la matrigna che produce direttive e regolamenti insostenibili, ma è una necessità storica, politica ed economica, in un mondo che si muove a grandi blocchi geopolitici e mette in campo nuovi attori portentosi che non hanno bisogno di popolo e territorio per affermare la loro sovranità.

 

Pino PisicchioProfessore Ordinario di Diritto Pubblico comparato. Deputato in plurime legislature, presidente di Commissione, Capogruppo parlamentare, sottosegretario

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