Partecipazione, cittadinanza e l’essenza della democrazia. Un saggio di Giovanni Moro

Una illustrazione del valore "politico" delle varie forme d’azione del cittadino come essere sociale e attivo per risolvere i problemi della comunità. L’incidenza di questo fenomeno sul sistema politico istituzionale. Alcuni dati indicano una incidenza superiore a quella dei partiti

Da anni, Giovanni Moro, Docente all’Università di Roma La Sapienza, studia i temi della cittadinanza attiva e della partecipazione, che stanno alla democrazia come all’essere umano l’aria che respira, perché sono le altre facce della libertà.

Sono temi di una stringente, quasi drammatica attualità, se pensiamo, per esempio, che da qualche anno nelle elezioni si presenta alle urne poco più della metà dei cittadini elettori, e se teniamo conto di come tanti saggi di sociologia e antropologia culturale gettino l’allarme sull’individualismo e l’egoismo di non pochi cittadini, senza contare il fenomeno già studiato di un certo familismo amorale. L’astensionismo dilaga, il disinteresse verso la res publica non diminuisce, molti giovani guardano ai partiti con diffidenza e sfiducia, mentre paradossalmente c’è chi vorrebbe anticipare a 16 anni il diritto di votare.

Dall’altra parte, per fortuna, perché non bisogna generalizzare e bisogna sempre coltivare la speranza civile, c’è attenzione e voglia di contribuire all’attività e alle iniziative dei corpi intermedi. Soprattutto c’è il vasto e variegato mondo dell’associazionismo operoso e civico e della cittadinanza attiva, volta a influenzare e a premere sul sistema politico, sui decisori pubblici, e a proporre iniziative e valori in difesa di emarginati, bisognosi, discriminati.

In questo saggio, i temi della partecipazione e della cittadinanza attiva sono affrontati da Giovanni Moro, secondo un registro teorico e assiologico, senza particolari cenni alle contese politiche contingenti, su cui l’autore vola alto. Il suo è anche un “discorso sul metodo”, in cui definisce i concetti di cittadinanza, di partecipazione, dà una definizione della visione standard della partecipazione, ne indica i vari soggetti coinvolti. É un discorso teorico ma non astratto, che tiene in conto tanti fenomeni sociali del nostro tempo, ed è quindi utilissimo per capire meglio le dinamiche politiche e sociali della comunità civile e per individuare quali sono gli anelli che non tengono.

Il saggio di Giovanni Moro fa parte di un volume collettaneo, edito da Carocci, con il titolo La democrazia. Concetti, attori, istituzioni, a cura di Marco Almagisti e Paolo Graziano. Dopo aver premesso che il tema della partecipazione politica dei cittadini  “è di importanza cruciale, non solo perché in essa prende corpo il nucleo centrale della democrazia”, Giovanni Moro spiega che dall’ultimo quarto del ‘900 è emersa una pluralità di forme non previste di partecipazione che la comunità scientifica ha cercato di cogliere in vari modi, ma senza giungere a un punto di arrivo comune.

E perciò nel suo saggio Moro approfondisce il tema in tre passaggi. Il primo identifica una visione standard della partecipazione. Il secondo mette a fuoco le distonie che le forme correnti di partecipazione presentano a confronto con questa visione standard. Il terzo passaggio presenta alcune coordinate concettuali utili a osservare la partecipazione come fenomeno empirico e non come teoria o modello normativo; in altre parole, esemplifica Moro, non che cosa la partecipazione potrebbe o dovrebbe essere, ma come si presenta e può essere osservata nella realtà materiale.

Ma cosa comprende e prevede questa visione standard?

In questa visione, al centro della partecipazione ci sono i partiti politici, i quali raccolgono, rendono compatibili e fondono in una visione generale le domande dei cittadini, operando come “enti intermedi”. “Benché la natura dei partiti si sia profondamente modificata – afferma Moro – la standard view prevede che essi comunque aggreghino le domande dei cittadini e, a elezioni avvenute, come attori del sistema politico concorrano a produrre le decisioni-risposte (ai cittadini)”.

“Nella visione standard viene privilegiata la dimensione di conoscenza della partecipazione, intendendola come dibattito e formazione e trasformazione di opinioni. Essa può avere o meno una natura di tipo deliberativo ma è comunque fondata sulla discussione. Di qui l’importanza assegnata al dibattito come essenza della partecipazione, in tutte le forme di democrazia partecipativa (consultazione dei cittadini da parte delle istituzioni) ma anche nell’enfasi posta sulle piattaforme partecipative digitali”.

“La partecipazione è dunque prioritariamente connessa al funzionamento del sistema politico attraverso il voto e i partiti. Tutto il resto è considerato partecipazione “non convenzionale”. In questa tipologia di partecipazione non convenzionale rientrano “azioni al limite od oltre la legalità”. Esempi? l’autoriduzione di tasse e bollette, la occupazione di edifici, i blocchi stradali, gli scioperi selvaggi, il danneggiamento di beni materiali, la violenza contro le persone”.

Ma poi ci sono altre forme di classificazione delle forme di partecipazione: la partecipazione civica, civile, sociale; ad esse viene attribuita la funzione di palestre della democrazia, dove i cittadini apprendono le tecnologie della organizzazione e del dialogo.

Ebbene, avverte Moro, “nessuno degli elementi che definiscono la visione standard della partecipazione è in sé erroneo. Attraverso il voto e per il tramite dei partiti o attraverso proteste e pressioni i cittadini scelgono chi e per che cosa governerà”.

Di questa visione standard, tuttavia, l’autore del saggio rileva due criticità.

La prima: al mondo di oggi essa è messa in discussione nei suoi presupposti ed elementi qualificanti da eventi, processi e fenomeni di lungo periodo. La seconda criticità consiste nel fatto che la visione standard è una forma di perimetrazione della realtà che esclude, fraintende, marginalizza o considera anomali fenomeni rilevanti.

Le azioni di partecipazione possono aver luogo – sottolinea Moro – prima, malgrado e in assenza di qualunque decisione politica. E ad esempio cita le iniziative dei cittadini per l’accoglienza e la tutela dei diritti umani di immigrati dichiarati illegali o irregolari; oppure le iniziative per verificare periodicamente la qualità ambientale dei mari e delle città; oppure quelle dirette a creare un regime dei rischi degli edifici scolastici attraverso il monitoraggio degli edifici stessi, la diffusione di buone pratiche in assenza del potere politico.

A questo punto Moro formula un concetto molto importante e quasi di principio:

Se il potere si intende come relazione, cioè come la capacità di un soggetto di incidere sui comportamenti di altri soggetti e sul corso delle cose, si può osservare come molte forme correnti di partecipazione consistano nell’esercizio di propri poteri da parte dei cittadini.

Come esempio cita il cambiamento di prospettiva imposto alla cultura della pubblica amministrazione: da organo di servizio del governo a strumento di tutela dei cittadini.

Di più: una quota significativa di mobilitazione nei luoghi pubblici consiste non solo nella protesta, ma anche nella espressione di solidarietà (ad esempio verso comunità o gruppi sociali in condizioni di marginalità o di emergenza) e nella rivendicazione di identità misconosciute (come nel caso del Gay Pride o del Disability Pride).

Ma se si inceppa il circuito domande dei cittadini/risposte del sistema politico?

Le forme di partecipazione correnti consistono in molti casi nel concorso alla costruzione delle risposte, non solo alla formulazione delle domande. Ciò può avvenire sin dall’inizio in collaborazione con le istituzioni, ma più spesso avvengono per iniziativa autonoma, come nel caso dei consultori familiari e dei più recenti centri anti-violenza per le donne a rischio o in quello delle comunità che accolgono persone senza issa dimora.

C’è un dato che dovrebbe (diciamo noi) far riflettere i partiti. Sono i numeri a dirlo.

“Le forme non previste di partecipazione hanno sopravanzato quella partitica. É l’esempio del fenomeno della cittadinanza attiva: forme di azione collettiva nella scena pubblica, che sono volte alla tutela dei diritti, alla cura dei beni comuni materiali e immateriali, al sostegno di soggetti in condizioni di debolezza, attraverso il patrocinio di cause di interesse generale, la organizzazione di servizi”.

In Italia si tratta di circa 96 mila organizzazioni formalmente costituite (e c’è un’area informale non quantificabile), con 2,3 milioni  di attivisti, che sono presenti pressoché  in tutti i campi di policy, che non partecipano alle elezioni e hanno scarsi o nulli rapporti con i partiti. Il 4,6 % degli italiani contro l’1% che opera con i partiti.

Altri dati significativi: le forme di partecipazione affermatesi negli ultimi decenni consistono in azioni che modificano la realtà e non solo nel dibattito e nella discussione: il 74% delle già citate organizzazioni di cittadinanza attiva opera attraverso forme di intervento diretto, il 57% organizzando servizi, il 44% promuovendo azioni di advocacy. Il caso della partecipazione digitale è particolarmente significativo.

É difficile – sottolinea Moro – negare la natura politica dei fenomeni partecipativi oggi prevalenti.

Si pensi ad esempio alla qualità urbana, al centro di “adozioni” di spazi e beni pubblici, alla lotta al degrado e alla speculazione, all’animazione sociale e culturale di aree abbandonate. O alla disabilità. O alla lotta per il riconoscimento dei diritti di cittadini malati e utenti del Ssn, che ha concorso e concorre in modo sostanziale a evitare che la sanità pubblica sia smantellata e privatizzata.

Questi temi di “politica della vita quotidiana” non sono meno politici di quelli che vengono trattati dagli attori istituzionali.

Dopo i passaggi precedentemente illustrati, risulta molto chiaro definire l’essenza della partecipazione, come pratica di cittadinanza, ossia come parte delle relazioni dinamiche tra i cittadini e la comunità politica e il sistema delle istituzioni. La cittadinanza è a sua volta intesa come dispositivo di inclusione, coesione e sviluppo della società. Queste pratiche possono investire la dimensione operativa sia quella comunicativa, ma sono azioni che costituiscono quelli che Moro definisce come “regimi di cittadinanza”.

Le tre arene della partecipazione

Interessante è poi notare come Moro definisca tre arene della partecipazione.

  • l’arena politico-elettorale, in cui la posta in gioco riguarda la vittoria alle elezioni, la egemonia nel sistema politico, il governo delle istituzioni;
  • l’arena del dibattito pubblico, in cui vengono proposti, discussi e diffusi valori e interessi dei cittadini e in cui la posta in gioco è la definizione dell’agenda pubblica, l’affermazione e la diffusione di significati, valori e standard di comportamento;
  • l’arena delle politiche pubbliche, in cui vengono promossi, progettati, realizzati e valutati programmi proposti da autorità pubbliche e altri attori.

Queste tre arene della partecipazione hanno evidenti relazioni ma sono indipendenti l’una dall’altra. Esempio delle loro relazioni: il tema dell’immigrazione, emerso nell’arena del dibattito pubblico, si è trasferito in quella politico-elettorale e quindi nelle politiche pubbliche, con atti di governo che hanno riguardato la gestione dei rifugiati.

Un esempio opposto: il tema della disabilità, massimamente politico, non è mai diventato rilevante nell’arena politico elettorale: nessuno ha mai vinto o perso le elezioni a causa dei disabili. E i cittadini? I cittadini che partecipano in forma collettiva alla vita pubblica agiscono in tutte e tre queste arene, in modi diversi e con diversi obiettivi e modelli operativi, nonché con peso ed effetti varabili.

Moro fa un cenno anche ad altri aspetti: per esempio, le variabili socioeconomiche che determinano diseguaglianze nella partecipazione, i fattori che facilitano la scelta dei cittadini di impegnarsi.

In conclusione: “la visione standard della partecipazione si riferisce all’idea (patrimonio storico della comunità scientifica) di un sistema sociale chiaramente e nettamente suddiviso in sottosistemi: quello politico, quello economico, quello familiare, religioso ecc.  Benché in relazione reciproca, il perimetro e gli attori di questi sottosistemi erano chiaramente disegnati. Il punto è che, tra gli effetti delle grandi trasformazioni maturate nell’ultima parte del ‘900, questi confini si sono indeboliti e in alcuni casi sono scomparsi”.

Quanto alla politica, ciò si può osservare ad esempio nel crescente ruolo dei giudici e dei media, nella politicizzazione di questioni private come il fine vita o la unione di coppie omosessuali, e anche nello sviluppo di forme di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica estranee al sistema politico e indipendenti dagli attori partitici, ancorché dotate di significato e impatto politico.

A questo proposito Moro cita concludendo il suo saggio, le parole del sociologo tedesco Ulrich Beck: “Noi cerchiamo la politica nel luogo sbagliati, nei concetti sbagliati, ai piani sbagliati, nelle pagine sbagliate dei quotidiani”.

Aggiunge di suo, Moro: “Gli inattesi sviluppi della partecipazione, dunque, sono l’indicatore di una grande trasformazione in corso della politica. Anche in questo sta la loro rilevanza”.

 

Mario NanniDirettore editoriale

 

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