Le recenti elezioni in Russia, che hanno registrato la vittoria di Putin (per la 5^ volta) con una percentuale vicina al 90%; le dichiarazioni di qualche politico nostrano, che ha plaudito a tale risultato affermando che “chi vota ha sempre ragione”; le prossime elezioni negli Stati Uniti d’America, connotate da una campagna elettorale urlata al limite della violenza, fra Biden e Trump, con quest’ultimo che ha affermato che la sua sconfitta determinerebbe un bagno di sangue; tutto ciò induce qualche riflessione sullo stato di salute della democrazia, nel mondo e nel nostro Paese, e sul rilievo che, rispetto ad essa, va attribuito al momento elettorale.
Intanto: cosa si intende per “democrazia”? La parola, com’è noto, deriva dal greco demokratìa, a sua volta composta da due parole, demos (che vuol dire “popolo”) e kratos (che vuol dire potere). Da qui la traduzione (e semplificazione) italiana: potere del popolo. Ma è proprio così? Senza indugiare più di tanto in riflessioni di ordine politologico, può dirsi che, sul piano dei concetti, la moderna democrazia si basa sul principio di maggioranza relativa, nel senso che a governare è la maggioranza che viene fuori dalle elezioni, ma nel rispetto dei diritti della minoranza, onde il demos, cui viene riconosciuto il potere, è, in realtà, una maggioranza e non tutto il popolo.
Emerge già da queste prime considerazioni l’importanza del momento elettorale, posto che attraverso le elezioni il popolo si esprime, scegliendo i suoi governanti (non essendo ipotizzabile, oggi, almeno con riferimento agli Stati, una forma di democrazia diretta). Eleggere, deriva dal latino eligere e significa “scegliere”. Scopo immediato delle elezioni è, pertanto, quello della scelta, che, secondo logica, dovrebbe cadere sui “migliori”, sotto il profilo della capacità politica, perché in uno Stato rappresentativo ad essi è affidato il governo del Paese.
La scelta dei “migliori”, tuttavia, non esaurisce di per sé la funzione elettorale, perché, a ben vedere, al momento della scelta, viene in considerazione anche la consonanza politica fra elettore ed eletto, mediata, solitamente, dai partiti politici. Proprio questa duplicità della funzione elettorale ha portato (rectius: dovrebbe portare) alla ricerca di sistemi elettorali tali da poterla garantire al massimo grado. Pertanto i sistemi elettorali – ossia quel complesso di regole e procedure che porta alla selezione della classe politica cui è affidato il Governo del Paese, o al livello più basso, delle Regioni, delle Province e dei Comuni – tendono a porre l’accento ora su una, ora sull’altra delle esigenze prospettate, anche a seconda delle diverse epoche storiche, e finiscono col costituire un sorta di “filtro” tra la società e la politica o – il che è lo stesso – fra i cittadini e le loro istituzioni rappresentative.
Evidente, dunque, la loro grande importanza, talmente rilevante che in taluni casi si è finito col costituzionalizzarli (così era, per esempio, per la Costituzione della D.D.R.). Anche in Italia vi fu in Costituente una proposta di inserire in Costituzione il principio della “proporzionalità”, ma non se ne fece nulla e si è preferito ricorrere alla legge ordinaria proprio perché le conseguenze che possono derivare dall’adozione di un sistema piuttosto che di un altro non possono mai essere completamente previste e/o padroneggiate.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, per lunghi anni (nel corso di quella che viene definita Prima Repubblica) si è votato col sistema proporzionale puro, almeno fino al referendum del 1993, che segnò l’avvento del maggioritario (anche se la legge elettorale che ne seguì, definita da Giovanni Sartori Mattarellum, in omaggio al suo ideatore – l’attuale Presidente della Repubblica Mattarella – conteneva un importante recupero proporzionale).
In occasione delle elezioni del 2006, però, la maggioranza di centrodestra, forte di sondaggi che la davano perdente se si fosse votato con quel sistema elettorale, accantonò il Mattarellum e varò quello che sempre Giovanni Sartori definì porcellum, chiosando il pensiero del suo ideatore, il sen. leghista Calderoli, che aveva definito la nuova legge una “porcata”. Da allora si sono succeduti altri due sistemi elettorali, il c.d. “Italicum” (che vanta il record “planetario” – la definizione è di Michele Ainis – di non essere mai stato utilizzato) e il “Rosatellum” (dal nome del Relatore Ettore Rosato), oggi in vigore: sistemi, questi ultimi, che hanno una connotazione mista (proporzionale e maggioritaria insieme), ma si caratterizzano, essenzialmente, per avere le liste bloccate: come scrive Ainis nel suo recente libro “Capocrazia”, “in ogni collegio i partiti presentano un elenco del telefono di nomi, ciascuno col suo numeretto in ordine progressivo al fianco e significa… che l’elettore non può metterci becco”, dal momento che risultano eletti coloro che sono primi nella lista. Da qui la domanda irridente di Ainis: “Se lorsignori sono già certi del tuo voto, tu elettore cosa sei, un soldato, un burattino? E allora in ultimo diserti, ti ribelli agli ordini che arrivano dall’alto”.
Già queste considerazioni dovrebbero essere sufficienti ad evidenziare che il momento elettorale, per quanto importante, non può essere considerato il “proprium” della democrazia (anche Hitler, in un certo senso, andò al potere dopo un’elezione popolare e Mussolini, fatta approvare la legge Acerbo, ebbe un premio di maggioranza talmente elevato che gli consegnò il governo del paese).
Ciò che rileva, invece – e principalmente – è che le elezioni siano libere. Ma perché ciò accada occorre che anche le opinioni degli elettori siano libere, ossia liberamente formate e non costituiscano oggetto di manipolazione o, peggio, di imposizione. Oggi si vota in quasi tutti i paesi del mondo, ma non per questo tutti i paesi del mondo possono dirsi democratici (l’esempio della Russia di Putin né l’esempio più evidente). Dunque è fondamentale che sia garantita agli elettori la libertà politica, la quale fa sì che essi siano cittadini e non sudditi.
Ma, forse, ancora più importante del momento elettorale perché vi sia vera democrazia, è che sia in qualche modo previsto un potere di controllo dell’elettore sull’ eletto, che può avvenire attraverso istituti come il “Recall” (una sorta di revoca dell’eletto, esistente in alcuni Stati americani), ovvero attraverso un’efficace azione dei gruppi di pressione – primo fra tutti la stampa – o degli stessi elettori grazie alla dialettica nell’ambito dei propri partiti (i quali, peraltro, nella più gran parte dei casi, sono oggi ridotti a dei gusci vuoti nelle mani dei loro satrapi, tanto che oggi si parla – lo fa Michele Ainis – di “capocrazia” più che di democrazia). Giudichi il lettore se ciò accade anche in Italia.
La democrazia, d’altro canto, pur risalente alla civiltà greca (ovviamente in forme diverse dalle attuali), ha impiegato oltre duemila anni per affermarsi nel mondo (non in tutto il mondo, ma in quello che, non del tutto correttamente, chiamiamo mondo occidentale: secondo una recente indagine statistica solo l’8% degli Stati può dirsi veramente democratico), segno proprio della difficoltà nel realizzarla; solo dalla seconda metà del secolo scorso la parola democrazia si è impadronita del lessico degli uomini politici.
Per quanto riguarda l’Italia, dopo qualche decennio dalla fine della guerra, il concetto stesso di democrazia si è un po’ appannato, soprattutto a causa di una sorta di indifferenza politica che ha preso a serpeggiare e che Norberto Bobbio ebbe ad indentificare con l’espressione: “le promesse non mantenute della democrazia”. Apatia politica, voto di scambio, inquinamenti di tipo mafioso, lobbismo e corruzione, disaffezione al voto hanno portato ad una sorta di “democrazia per assuefazione”.
Qualche tempo fa Zygmunt Bauman, il noto pensatore polacco teorico della società “liquida”, nell’esaminare il tempo presente, la società e le istituzioni di questi nostri giorni sottolineava proprio la crisi dello Stato democratico, evidenziando come ad esso – e dunque ai suoi cittadini – non sia quasi rimasta alcuna vera capacità decisionale, dal momento che le decisioni sono prese altrove, in un contesto supernazionale. Scomparso lo Stato nazionale (che garantiva di risolvere in modo omogeneo i problemi dei suoi cittadini), venute meno le ideologie ed entrati in crisi i partiti – riflette Bauman – è venuta meno (o si è sensibilmente ridotta) la capacità del singolo di incidere nel potere decisionale e di rappresentare i propri bisogni: da qui un individualismo sfrenato dove nessuno è più compagno di strada ma “antagonista” di qualcun altro, un soggettivismo esasperato che mina la società moderna, rendendola, appunto “liquida”. In questo contesto pare difficile trovare soluzioni. Bauman comunque non ne indica. Probabilmente occorre che la politica e l’intellighenzia comprendano appieno l’analisi critica del pensatore polacco e ripensino ad una quanto mai necessaria ri-vivificazione della democrazia.
Per quanto ci riguarda, forse potrebbe essere utile tornare alla nostra Costituzione, quella del’ 48 non la “costituzione materiale” cui, spesso, si fa riferimento, che altro non è se non una “frode alla Costituzione”: provare finalmente ad attuare, più che a cambiare, la nostra vecchia “Carta”, perché – come ebbe ad affermare anni fa l’allora Presidente Scalfaro – in essa ci sono le regole perché un popolo possa convivere nella pace e nella serenità, in modo costruttivo, collaborativo, solidale… nella Costituzione ci sono scritte tutte le regole della democrazia”.
Che, ricordiamolo, avrà pure mille difetti, ma non esiste sistema migliore.
Roberto Tanisi – Già presidente del Tribunale e della Corte d’Appello di Lecce