Siamo ancora il Paese “dove il sì suona”?

A proposito di corsi universitari "soltanto" in inglese negli Atenei italiani

Con buona pace di una storica sentenza della Corte Costituzionale – la n. 42 del 24 febbraio 2017 – l’Università di Bologna ha deciso di sopprimere il corso in lingua italiana di Economia del turismo, tenuto presso la sede di Rimini, per mantenerlo esclusivamente in lingua inglese ribattezzandola, ovviamente, Economics of Tourism and Cities.

Interpellata per un giudizio di costituzionalità sulla legge Gelmini, la Consulta, pur ammettendo la pratica della didattica in inglese, aveva richiesto che la lingua italiana non venisse estromessa del tutto da ogni corso di studi, in quanto vettore della cultura e della tradizione proprie della comunità nazionale, sostenendo che “l’esclusività della lingua straniera (…) estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall’insegnamento universitario di intieri rami del sapere”.

L’ateneo bolognese, che per dovere di coerenza o logica commerciale dovrebbe a sua volta sostituire la propria denominazione di Alma Mater Studiorum con quella di  Ancient Mather of Studies, ha completamente disatteso tale indirizzo, ritenendo più utile per un corso destinato a preparare professionisti del turismo una piena immersione (pardon, una full immersion) nella lingua di Bill Gates, e magari anche di Shakespeare.

Che nella scuola italiana in genere non si insegnino bene le lingue è un dato di fatto, ammesso dagli stessi docenti che, quando compilano un curriculum, per qualificare come mediocre la loro conoscenza di un idioma straniero la definiscono “scolastica”. È un discorso complesso, legato in parte alla carenza di docenti di supporto di madrelingua, i “lettori”, presenti solo in alcuni istituti, in parte alla prevalenza dell’insegnamento grammaticale sulle esperienze pratiche.

A tutto questo occorre aggiungere la refrattarietà di noi italiani, a differenza di altri popoli, soprattutto slavi, a padroneggiare una lingua straniera. Qualche colpa, se vogliamo, la ebbe pure il regime fascista, che non volendo che nelle sale circolassero pellicole in lingua straniera impose il doppiaggio al posto dei sottotitoli, anche per la presenza di non trascurabili tassi di analfabetismo nell’Italia del tempo. Fu un tipico esempio di eterogenesi dei fini, perché doppiando i film stranieri il regime li rese più appetibili, favorendo la concorrenza estera, grazie anche alla bravura dei nostri professionisti del settore, a tutt’oggi i migliori del mondo. Altrove la pratica del doppiaggio è molto meno diffusa che da noi, a tutto vantaggio della produzione nazionale, ma anche dell’apprendimento delle lingue.

Fatte queste premesse – e fatto salvo che un serio studio grammaticale è comunque indispensabile anche per l’apprendimento di una lingua asintattica come l’inglese, – rimane aperto un interrogativo: siamo davvero convinti che insegnare solo nella più diffusa lingua straniera servirebbe a preparare meglio gli studenti a un lavoro nel turismo? In realtà, sarebbe bene non confondere l’esigenza imprescindibile di insegnare l’inglese con la velleità di insegnare solo in inglese. Nulla naturalmente vieta di introdurre esami di sbarramento in lingue, come avviene da tempo nelle facoltà di Scienze Politiche, in questo caso anche in vista della preparazione alla carriera diplomatica; ma di qui ad abdicare, in un corso di laurea triennale, all’uso della lingua nazionale appare, ancor prima che anticostituzionale, irrazionale. Tanto più che il corso di Economics of Tourism and Cities non è rivolto a futuri ingegneri e informatici, ma a professionisti del turismo che dovrebbero essere in grado prima di tutto di padroneggiare la nostra lingua, se non altro per valorizzare il nostro patrimonio storico e artistico.

C’è, è vero, una giustificazione spesso addotta a difesa dell’imposizione dell’inglese in molti corsi universitari. Adottare quella che ormai sta diventando una lingua franca universale attirerebbe studenti stranieri, con evidenti benefici per le iscrizioni. In realtà, si potrebbe verificare l’effetto opposto: non più obbligati a imparare l’italiano per frequentare i corsi, gli studenti stranieri rischierebbero di arrivare alla laurea senza avere imparato a fondo la nostra lingua, per poi fare ritorno nei paesi d’origine o comunque in nazioni anglofone. Col risultato che – visto che in Italia le tasse universitarie coprono solo in misura modesta i costi – l’università felsinea preparerebbe con denaro pubblico professionisti stranieri pronti poi a spiccare il volo senza nemmeno contribuire alla diffusione dell’italiano all’estero.

Insistere ulteriormente sulla scelta infelice dell’ateneo bolognese sarebbe, più che inutile, maramaldesco, tante sono già state molte le istituzioni – dalla prestigiosa Accademia della Crusca al volonteroso portale Italofonia.info – che hanno denunciato l’iniziativa, per tacere della riprovazione bipartisan della scelta, con gli articoli di Giordano Bruno Guerri su “Libero” e di Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera”. L’aspetto più paradossale è che proprio la categoria che dovrebbe essere la maggior beneficiaria del nuovo corso di studi ha espresso le sue riserve: la presidente di Federalberghi Rimini, Patrizia Rinaldi, è stata la prima a sollevare il caso, forse consapevole del rischio che il nuovo corso ospitato all’ombra del felliniano Grand Hotel prepari operatori del turismo che non conoscono bene né l’inglese né l’italiano.

Con una certa dose d’indulgenza, si potrebbe ipotizzare che i vertici del più antico ateneo del mondo abbiano voluto rinverdire la stagione dei clerici vagantes, usi girare l’Europa utilizzando quella lingua franca dell’epoca che era il latino: non certo il latino ciceroniano, ma il latino ecclesiastico, il latino giuridico e magari anche quello un po’ maccheronico dei carmina burana. Ma requisito di una lingua franca dovrebbe essere quello della extraterritorialità, altrimenti rischia di trasformarsi nello strumento dell’egemonia di una nazione sulle altre. Un’egemonia che quando da economica e militare si fa anche culturale, linguistica e – sit venia verbo – massmediatica rischia di divenire pericolosa; e sia detto tutto questo senza nessun astio nei confronti degli Stati Uniti, cui l’Europa deve moltissimo.

Persino negli anni aurei dell’Impero romano, il latino era la lingua del diritto e del potere, ma accanto ad esso esisteva un’altra grande lingua franca della cultura, il greco: quella koiné diàlektos del pensiero e dell’arte che costituiva il patrimonio comune di tutte le persone colte.

La persistenza del latino come lingua comune, del resto, è stata più tenace di quanto non si possa credere. Se nel Seicento il francese ne prese gradualmente il posto come lingua della diplomazia, sino alla fine dell’Ottocento rimase la lingua ufficiale della scienza e dei congressi scientifici: alla fine dell’Ottocento persino uno dei più diffusi trattati di psichiatria, la Psychopatia sexualis di Krafft Ebing, aveva i passaggi più scabrosi tradotti in questa lingua. Ancora oggi, del resto, le classificazioni botaniche o zoologiche sono declinate nella lingua di Roma. Per non parlare del ruolo universale svolto, sino agli anni Sessanta del Novecento, nella Chiesa cattolica, di cui rimane la lingua ufficiale, anche dopo che il suo uso è stato gradualmente eliminato dalla liturgia.

Al declino del latino – e anche dell’italiano, lingua la cui conoscenza era molto diffusa fra le persone colte, soprattutto nell’ambito musicale – corrispose per altro a partire dall’età dei Lumi l’affermazione del francese, che però rimaneva comunque una lingua neolatina; non a caso Leopardi definiva tale idioma, nello Zibaldone, “la lingua della mediocrità universale”. Nel Regno d’Italia, retto da una dinastia di origini savoiarde, costituiva ancora a fine Ottocento persino una sorta di seconda lingua ufficiosa, soprattutto nell’Esercito, dove persino le note caratteristiche erano redatte a volte nella lingua di Molière.

Domenico Quirico, nel suo piacevole volume Adua (Mondadori) racconta l’aneddoto di quel capitano che per anni si vide negare l’avanzamento a maggiore perché i frettolosi superiori incaricati della selezione smettevano di leggere la sua cartella quando nelle note sulla sua vita privata leggevano il joue: “gioca”. Se avessero voltato pagina si sarebbero accorti che la frase intera era il joue du piano, espressione francese che significa “suona il pianoforte”. La passione per la musica era costata al povero ufficiale qualche anno di carriera! E che dire della Russia di Tolstoj, che in Guerra e pace fa parlare in francese i nobili, perché era quella la lingua delle persone colte?

Senza arrivare a questo, l’opinione che la conoscenza del francese costituisse un bagaglio insostituibile per una persona di buona cultura è prevalsa sino alla seconda metà del secolo scorso. Certo, il suo ruolo di lingua ufficiale della diplomazia era stato ridimensionato col trattato di Versailles. Dopo la grande guerra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, forti del contributo decisivo recato alla vittoria dell’Intesa, ottennero che il monoglottismo del francese fosse sostituito da un bilinguismo anglo-gallico. Ma ancora negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta il francese rimaneva la lingua dell’esistenzialismo, di Edith Piaf, del savoir vivre, dell’hotellerie e magari delle polissonneries.

Nei ginnasi-licei italiani la sezione A era di solito quella in cui si studiava la lingua di Molière e chi ha superato gli “anta” probabilmente ha letto i classici della letteratura russa in traduzioni di seconda mano dall’idioma gallico. Il femminismo parlava francese con i libri di Simone de Beauvoir, “la grande sartreuse”, come l’avevano soprannominata i maligni, e a incarnare l’immaginario erotico erano attori come Brigitte Bardot e Jean-Paul Belmondo, alle cui fattezze si ispirarono i disegnatori di uno dei più diffusi fumetti per adulti italiani, Goldrake.

Passando dal profano al sacro, il 4 novembre 1965 un pontefice di raffinata cultura come Paolo VI pronunziò il suo storico discorso all’assemblea delle Nazioni Unite in francese, che per lui era anche e forse soprattutto la lingua di Maritain e di Jean Guitton. Certo, attraverso il cinema, i fumetti, le produzioni televisive vendute a tutte le tv europee a prezzi concorrenziali, la straordinaria diffusione di una rivista come il Reader’s Digest, gli Stati Uniti esercitavano una notevole influenza sull’immaginario collettivo, ma il primato del francese come lingua di cultura e di spettacolo resistette a lungo.

Il vero sorpasso avvenne a metà degli anni Sessanta, quando l’Inghilterra, dopo aver perso con il fallimento dell’impresa di Suez le sue residue velleità coloniali, riuscì a colonizzare l’immaginario nel campo della moda, del costume, della musica e Londra – insieme a New York, San Francisco e Los Angeles, sostituì Parigi come capitale della trasgressione, giovanile e non.

Oggi il francese rimane una lingua a larga diffusione, grazie alla rendita di posizione del suo ex impero coloniale, almeno in Africa. Ma, anche in nazioni come il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, il suo ruolo di seconda lingua comincia a essere insidiato dall’inglese, man mano che le vecchie élites formatesi con lo studio della lingua e della cultura francese (e in certi casi latina: basti pensare al senegalese Léopold Sédar Senghor) sono sostituite da nuove classi dirigenti interessate pragmaticamente a diffondere la diffusione della lingua degli affari, della tecnologia e dell’informatica, cogliendo al balzo l’opportunità per ridimensionare con la francofonia il retaggio colonialista.

In Italia, poi, il posto del francese come idioma più studiato a scuola dopo l’inglese è insidiato ormai dallo spagnolo. Un fenomeno che denota l’ormai scarsa conoscenza della lingua d’oltralpe è costituito anche dalla progressiva anglicizzazione della pronuncia di vocaboli francesi o di origine francese. Ormai è diffusa l’abitudine di pronunciare còllant invece di collàn, steig con la g dolce e non stage con la e semimuta: e persino le denominazioni di marchi commerciali come Carrefour (letteralmente incrocio) o Citroën vengono pronunciate all’inglese, con buona pace dello sciovinismo gallico.

E noi italiani? Sul terreno delle istituzioni europee non ci possiamo considerare ben piazzati. Nonostante la nostra posizione di soci fondatori della Cee, la nostra non è una delle tre lingue di lavoro dell’Unione Europea, nonostante sia, dopo il francese e il tedesco, la più parlata nel continente; il posto che spetterebbe all’italiano è occupato ancora dall’inglese, nonostante la brexit, a conferma del ruolo di nuovo esperanto che questo idioma ha finito per occupare. Del resto, com’è noto, in Europa non siamo mai stati molto bravi a farci valere. E nemmeno in Italia, a quanto pare, viste le scelte della Ancient Mather of Studies.

 

Enrico NistriSaggista  

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