Se il prestigio di una figura professionale e di un’istituzione si misurano anche dalla sua rappresentazione nei mezzi di comunicazione di massa, in particolare nel cinema e nelle nuove piattaforme televisive, non si può dire che scuola e insegnanti abbiano goduto e continuino a godere nella penisola di una rappresentazione adeguata, né da un punto di vista quantitativo, né sotto il profilo qualitativo.
Non si tratta di un fenomeno limitato all’Italia, perché un po’ ovunque la professione del docente è sottostimata nei media, rispetto ad altre funzioni d’interesse pubblico. Se in Italia, dopo il successo della Piovra e prima ancora dei film “poliziotteschi” andati per la maggiore intorno alla metà degli anni Settanta, è stato ed è tuttora un fiorire di pellicole o serie televisive dedicate a commissari, carabinieri, ispettori, pubblici ministeri, persino medici legali, un po’ ovunque l’appeal dell’investigatore alle prese con un delitto di cui scoprire il colpevole è superiore a quello dell’insegnante impegnato a formare le coscienze; e poco conta se educare il giovane potrebbe servire anche a ridurre il numero dei crimini.
Il motivo della maggior fortuna di gialli o noir è abbastanza comprensibile: scoprire chi ha ucciso una ricca ereditiera è più interessante che comprendere le motivazioni di un atto di bullismo e il poliziesco nelle sue varie declinazioni è ormai da tempo uscito dal limbo della narrativa di serie B. L’aspetto più ameno del fenomeno è che, almeno in Italia, per divenire appetibile al grande pubblico la figura dell’insegnante debba rivestire i panni dell’investigatore o meglio dell’investigatrice della domenica, come dimostra la fortuna di Veronica Pivetti in Provaci ancora Prof! Del resto anche il prete diventa popolarequando risolve casi di omicidio, ma questo
è un filone inaugurato oltre un secolo fa in Inghilterra da Gilbert Keith Chesterton, col suo padre Brown magistralmente interpretato a suo tempo da Renato Rascel.
C’è tuttavia un altro aspetto del fenomeno, non quantitativo ma qualitativo, che colpisce in questa realtà. È il fatto che la figura dell’insegnante, elementare, di scuola media o media superiore (l’università è un altro mondo), risulta prigioniera sul piccolo e sul grande schermo di alcuni stereotipi che a pensarci bene non mutano molto col tempo. I docenti – specie se maschi – sono rappresentati a seconda dei casi o come delle figure imbalsamate nel loro ruolo, in genere frustrati dalle basse remunerazioni, o come degli eroi impegnati a combattere contro un sistema scolastico ritenuto iniquo, facendosi avvocati difensori degli studenti.
Si potrebbe obiettare che lo scontro con i superiori è un classico anche di molti gialli (Montalbano, com’è noto, non va molto d’accordo col Signor Questore e agisce il più delle volte “d’iniziativa”), ma nei film dedicati alla scuola lo scontro del professor giovane col preside o con i colleghi più anziani costituisce un topos ricorrente.
Il confronto con la Francia, il cui sistema scolastico sarebbe per molti aspetti simile al nostro, è purtroppo evidente sin dal debutto della “ottava musa”. Uno dei primi film muti italiani s’intitola Il calvario di un maestro, ed è un po’ il pendant al maschile e su celluloide della “Maestrina” di Dario Niccodemi, dramma strappalacrime ma non privo di un fondo di verità sulle vicende di un’insegnante elementare alle prese con le pesanti avances del sindaco da cui dipende. Quattro anni dopo usciva in Francia La guerra dei bottoni, romanzo in cui la figura del maestro ha un ruolo centrale e positivo, e che avrebbe dato vita a molte trasposizioni cinematografiche, a partire dal 1936.
Certo, sarebbe assurdo dare la colpa di questa realtà al vittimismo degli insegnanti. Le lamentele sui magri stipendi, avallate dagli interventi di Gaetano Salvemini, pioniere del sindacalismo scolastico, erano e sono tutt’altro che infondate: le ritroviamo nei ricordi di Renato Fucini, approdato, dopo un’eclettica carriera iniziata come vice ingegnere all’epoca di Firenze capitale, al rango di ispettore scolastico, come nella narrativa di Alfredo Panzini, classica figura di scrittore professore, i cui bozzetti e racconti un tempo spopolavano nelle antologie.
Resta il fatto che nella cinematografia italiana almeno sino alla seconda guerra mondiale l’insegnante alle prese con scolaresche inquiete e con abiti lisi appare spesso come una macchietta, cui corrisponde quella del bidello bonaccione che ebbe come magistrale e quasi istituzionale interprete Aldo Fabrizi. È vero che, fra il 1934, in cui esce Seconda B, diretta da Goffredo Alessandrini, e il 1941, anno di, con la regia di Mario Mattoli, fiorisce il filone dei film detti “collegiali”, che raggiunge il vertice della fortuna con Maddalena zero in condotta, diretta e interpretata da Vittorio De Sica. Qui però la figura del docente – o della docente – rimane in secondo piano rispetto all’esuberanza delle studentesse. Siamo in pieno clima di telefoni bianchi e un fotogramma sorprende in quest’ultima pellicola la professoressa Malgari, interpretata da una giovanissima Vera Bergman, intenta a lavare i piatti in casa, perché col suo magro stipendio non poteva permettersi la domestica.
Qualcosa, anzi molto, cambia con Mio figlio professore, piccolo capolavoro di Renato Castellani. Il film, uscito nel 1946, tocca corde molto diverse, alternando comico e patetico, sino a fare emergere la malinconia del padre bidello cui l’impettito figlio, divenuto docente nel suo liceo, chiede di non prendersi troppe confidenze con lui per non metterlo in imbarazzo con alunni e colleghi. In mezzo c’è un po’ di satira politica, sulla sopravvalutazione di regime degli insegnanti di educazione fisica o sulle interferenze dei gerarchi (eppure un’analoga denuncia di abusi del potere c’era stata, in pieno ventennio, anche in Seconda B; solo che la vicenda era stata prudentemente retrodatata al 1912).
La pellicola che segna una vera e propria anticipazione di problematiche destinate a esplodere negli anni Sessanta è però Terza liceo, girato nel 1954 da Luciano Emmer, con l’ausilio di sceneggiatori d’eccezione come Carlo Bernari e Vasco Pratolini. Anche qui la figura dell’insegnante non è centrale, rispetto ad altre tematiche, come le disparità di classe e gli albori della contestazione giovanile: c’è persino un giornalino studentesco che precede di oltre dieci anni la “Zanzara” del liceo Parini e provoca scandalo, pur non affrontando il tema scabroso dell’educazione sessuale Ma fra molti colleghi ridotti a macchiette, preoccupati soprattutto di tenere la disciplina, emerge la figura del professor Valenti, supplente di storia e filosofia, che cerca di prendere le parti dei ragazzi, insegna con un metodo per l’epoca innovativo, organizza gite sulla neve, rivelatesi galeotte, anche se i suoi entusiasmi di neofita vengono raffreddati dall’intervento del preside, che l’invita a non pregiudicarsi una brillante carriera.
Decisamente lontana dal mondo più paludato di un liceo classico romano è la realtà di una scuola elementare della provincia lombarda, rappresentata nel 1963 nel Maestro di Vigevano, trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi, insegnante elementare egli stesso e in molti casi alter ego del protagonista. Sarebbe riduttivo vedere nel film di Petri solo una sorta di “variante didattica” della commedia all’italiana. Nella narrativa di Mastronardi, morto suicida nel 1979 nelle acque del Ticino, dopo una vita tormentata anche dal contrasto con la burocrazia scolastica, c’è il dramma di una piccola borghesia intellettuale che vede il suo prestigio eroso dall’emergere della “gente nova” miracolata dai facili guadagni del boom. Magistralmente interpretato da Alberto Sordi, il maestro Morbelli si vede stretto fra le frustrazioni della moglie, delusa dal suo basso stipendio, e la bolsa presunzione del direttore didattico, che controlla se i suoi alunni sanno fare bene “le inanellate”.
Ben diverso il clima che si respira nello sceneggiato televisivo del 1973 Diario di un maestro, diretto da Vittorio De Seta e tratto da Un anno a Pietralata, di Albino Bernardini, edito nel 1968 dalla Nuova Italia. Qui l’insegnante, che ha ottenuto la cattedra in una scuola della periferia romana, diviene un eroe positivo, interessato fra l’altro a recuperare allo studio ragazzi che evadono l’obbligo scolastico perché costretti a lavorare dall’indigenza delle famiglie. Una realtà che, in veste però più sorridente che drammatica, sarebbe stata rappresentata nel 1992 in Io speriamo che me la cavo, dall’omonimo libro di Marcello D’Orta.
Se si considera che gli anni compresi fra il 1966 e l’alba degli anni Ottanta sono quelli di una contestazione giovanile spesso destabilizzante nelle scuole medie superiori, colpisce la carenza di pellicole che affrontino l’argomento con gli occhi di un insegnante (del resto, nemmeno i libri sono particolarmente efficaci, se si eccettua il bel romanzo di Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari). Paradossalmente, il solo film di questo genere destinato a durare è quello che ha per protagonista un docente del tutto estraneo a tematiche politiche. Si tratta di La prima notte di quiete di Valerio Zurlini, grande e sfortunato regista precocemente scomparso. Un indimenticabile Alain Delon vi interpreta il professor Daniele Dominici, stagionato supplente di letteratura italiana in un liceo classico di Rimini. Raffinato e sregolato esteta, Dominici premette subito ai suoi studenti di considerare alla stessa stregua gli attivisti di destra e di sinistra che si fronteggiano. Lascia la classe incustodita per andare a comprarsi la mazzetta dei giornali nazionali ed esteri, che sfoglia mentre gli studenti fanno un compito in classe, corteggia una sua alunna e la conquista portandola con la sua Renault 4 a Monterchi, dove le illustra la Madonna del Parto con uno stile un po’ alla Vittorio Sgarbi (e chi scrive non esclude che Sgarbi si sia un po’ ispirato a lui…). Molti ventenni dell’epoca decisero di laurearsi in lettere indossando idealmente il suo cappotto di cammello col bavero rovesciato; salvo magari accorgersi che la carriera didattica non è un mélo, e sedurre un’alunna può rivelarsi molto pericoloso, come avvenne al professor Popi Saracino, assolto solo dopo un lungo processo dall’accusa di violenza carnale.
Per il resto, fatto forse non casuale, negli anni Settanta, proprio mentre il “contropotere studentesco” furoreggiava nelle classi, a occuparsi di scuola fu solo un lungo, fortunato e decisamente pecoreccio filone di pellicole satiriche in cui i vari Alvaro Vitali e Giorgio Ariani, le varie Gloria Guida ed Edwige Fenech, interpretano la loro parodia del mondo scolastico, in cui manca per altro qualsiasi riferimento alla contestazione.
Riferimento che invece c’è in una pellicola antesignana di questa sottospecie della commedia sexy all’italiana, L’uccello migratore, del 1972, interpretata da un grande attore confinato a lungo nel cliché del macho latino come Lando Buzzanca, nei panni del professor Pomeraro, contestato in un liceo della capitale da suoi studenti sessantottini. Se proprio vogliamo dare un’interpretazione psicosociologica di questa apparente contraddizione, la spiegazione potrebbe esserci: quel tipo di filmetti di serie B andava incontro alle aspettative di un pubblico desideroso non solo di apprezzare le forme procaci di attricette che poi avrebbero spesso intrapreso una dignitosa carriera, ma di evadere dalla grigia realtà degli anni di piombo.
Per trovare pellicole italiane in cui la figura dell’insegnante è raffigurata adeguatamente occorre scollinare oltre gli anni Settanta, e anche gli Ottanta, al termine dei quali il professor John Keating spopolava al botteghino con lo straordinario successo di L’attimo fuggente. Con lui tornava in auge la figura del docente “antagonista”, che sfida le convenzioni e rompe l’atmosfera stagnante degli anni Cinquanta in un collegio maschile del Vermont. Un approccio che ha il suo pendant femminile in Mona Lisa Smile, dove la storica dell’arte Watson, interpretata da Julia Roberts, mette in discussione nello stesso decennio l’educazione conformistica impartita in un collegio per future madri di famiglia.
Il primo caso di pellicola incentrata sul corpo docente italiano è però un film a sfondo satirico, che non manca per altro di accenti di sincerità; almeno se vogliamo trascurare Compagni di scuola, diretto nel 1988 da Carlo Verdone, in cui lo stesso regista interpreta il professor Ruffolo, innamorato di un’allieva e fatalmente imprigionato nel ruolo di “sfigato”. Si tratta di La scuola, del 1995, tratta da due libri di Domenico Starnone e diretta da Daniele Luchetti. Anche qui la maggior parte dei docenti scade al livello di macchiette, a volte simpatiche; eppure dietro l’humour del regista e dello scrittore c’è, come in ogni parodia, un fondo di verità.
Come vuole la sintassi cinematografica, nella scena finale ai tic e alle meschinità dei colleghi si contrappone l’amore del professor “buono” e un po’ trasgressivo per i suoi studenti meno dotati. Amore che però non lo conduce al licenziamento come avviene al Keaton dell’Attimo fuggente, anche perché quello che interessa al preside e agli altri insegnanti è fuggire, dopo lo scrutinio finale, verso il mare e le vacanze estive.
Dovere di cronaca impone di ricordare come, appena due anni dopo La scuola, sia uscito un altro film tratto da un libro di Starnone, Auguri professore, diretto da Riccardo Milani. Nonostante un ottimo cast, questa storia di un docente che recupera la passione per l’insegnamento ritrovando come collega nella sua scuola un’ex alunna, non sfondò al botteghino. Segno, un po’ inquietante, che al grande pubblico interessa sentir parlare della scuola soprattutto in chiave satirica. Ma anche questo è vero sino a un certo punto.
In Ovosodo, del 1997, il protagonista ritrova l’amore per lo studio e la fiducia nella vita grazie alla sua professoressa delle medie; e il film, diretto da Paolo Virzì, fu un successo sia di critica che di pubblico. Ma forse il miglior “monumento” alla figura di un professore (e anche il più esplicito riconoscimento del declino della figura del docente nell’immaginario collettivo) è una pellicola di indubbio successo come Notte prima degli esami, uscita nel 2006, ma ambientata non casualmente nel 1988, “il giorno prima della caduta del Muro”.
Il professor Antonio Martinelli – magistralmente interpretato dall’eclettico Giorgio Faletti – è il prototipo dell’umanista che all’“avere” preferisce “l’essere” e per questo è un emarginato nell’edonistica società degli anni Ottanta. Detestato dai ragazzi per la sua severità, abbandonato dalla moglie, un po’ compatito dalla figlia, è in realtà un ex contestatore (anche lui ha fumato uno spinello, come confida a un alunno). Il suo vero successo nella vita consisterà nel fatto che l’alunno ribelle e scapestrato (nonché innamorato della figlia), un Luca Molinari interpretato da un superlativo Nicolas Vaporidis, sceglierà nella vita di fare proprio l’insegnante di Lettere.
Con gli anni Duemila in Italia – ma in altre nazioni già nel decennio precedente – i problemi delle conflittualità derivanti dall’avvento di una società multiculturale e più in generale dalla crescente disaffezione degli studenti – hanno finito per porsi e proporsi anche nell’ambito cinematografico. E qui inizialmente si è avvertita una certa differenza fra pellicole statunitensi in cui prevale una visione ottimistica dell’insegnamento, in cui l’entusiasmo e l’ottimismo di un insegnante infiammato dal sacro fuoco finiscono per avere la meglio, e il maggior realismo del filone cinematografico francese. Un esempio in tal senso è una pellicola come La classe, di Laurent Cantet, Palma d’Oro al festival di Cannes nel 2008, tratta dal racconto autobiografico di un docente in una scuola media nella banlieue parigina.
Quello di Cantet non è un film a tesi, ma con un rigore documentaristico che è un po’ anche il suo limite descrive una realtà problematica, senza alcun hollywoodiano happy end. Logica del lieto fine a cui invece si attiene un’altra pellicola d’Oltralpe, dal taglio meno documentaristico: Il professore cambia scuola, del 2017, diretto da Olivier Ayache-Vidal. È la storia del docente di uno dei più prestigiosi licei francesi, il parigino Henry IV, che per una fortuita serie di circostanze è trasferito per un anno in una disagiata scuola di periferia. Dopo il trauma iniziale, il professore riuscirà a conquistare la stima degli allievi, trasformandosi quasi in una reincarnazione del “capitano” dell’Attimo fuggente. Ma qui siamo nel campo della fiction, non del docufilm nato dal diario di un docente.
Al Keating del celeberrimo film statunitense vuole ispirarsi anche Classe Z, pellicola italiana uscita lo stesso anno di Il professore cambia scuola, con la regia di Guido Chiesa e un cast di cui fanno parte nomi noti come Alessandro Preziosi e Andrea Pisani. Qui il problema della multiculturalità non si pone; il problema è la presenza, in un liceo scientifico, di un alto numero di studenti svogliati o caratteriali, che il preside decide di concentrare, l’anno della maturità, in una sorta di classe ghetto, in modo che smettano di “inquinare” il resto della scuola. A salvare la situazione è un supplente di buona volontà, deciso a riscattare gli studenti, che in un primo tempo si scontra contro l’ostilità degli studenti, ma poi, in seguito a una serie di circostanze, riesce a conquistarne la fiducia e a venirne acclamato come il loro “capitano”.
Il cliché, come sempre, si ripropone sia pure sotto altre forme: il preside cinico, gli studenti irrecuperabili recuperati all’amore per lo studio grazie all’entusiasmo di un giovane docente che sfida il rassegnato conformismo dei colleghi. Ma nella scuola, non solo italiana, la realtà è più complessa. Peccato che il cinema, “fabbrica dei sogni”, non ami le sfumature. E che in certe realtà scolastiche reali i sogni si possano tradurre in incubi, tali da farci a volte rimpiangere il tempo delle procaci liceali o dei Pierini alla riscossa.
Enrico Nistri – Saggista