Le tasse come indice di civiltà di uno Stato. L’Italia è il Paese al top dell’evasione fiscale

L’Italia continua ad avere un brutto primato: è il Paese dove si evadono di più le tasse. Non abbiamo ancora assimilato il significato del termine Stato, il suo importante significato nelle vite di una società civile come la nostra. E la nostra politica, da oltre trent’anni, ha cavalcato questo comune sentire per arricchirsi e arricchire solo gruppi di potere. Questo è quanto emerge dal racconto di “filosofia economico finanziaria” che ha voluto darci il professor Stefano Gorini.

Il nostro è un Paese che fa fatica a digerire il pagamento delle tasse. Sarà per la sua storia che, prima dell’unificazione, avvenuta nel 1861 ovvero abbastanza recentemente rispetto ad altri Paesi, vedeva l’Italia come un insieme di territori, molti dei quali governati e amministrati da potenze straniere. Per questo le tasse erano alquanto odiose poiché andavano allo “stato dominatore” ed erano viste come delle indebite sottrazioni di denari. Evidentemente non ci siamo ancora liberati da questo sentimento poiché l’Italia, alla fine del 2023, era al primo posto in Europa per evasione fiscale.

Eppure, le tasse sono presenti in tutte le società civilizzate, anzi sono la prova di una organizzazione sociale, dove lo Stato preleva a cittadini e imprese per organizzare e fornire servizi utili per tutti. Per capire meglio la filosofia che accompagna, o dovrebbe accompagnare, la politica fiscale di un Paese abbiamo chiesto a Stefano Gorini, Professore di Economia Pubblica presso il Dipartimento di Economia e Finanza dell’università di Roma Tor Vergata.

Professor Gorini, riguardo alle tasse, noi abbiamo ancora il concetto dello Stato dominatore che sottrae parte dei nostri guadagni a proprio uso e consumo: con quale logica, invece, dobbiamo imparare a inquadrarle?

Come economista teorico, un po’ filosofo, mi sono sempre occupato di questi temi da un punto di vista generale, ispirandomi ad un saggio di uno storico inglese dell’Europa contemporanea, Tony Judt, da titolo “Che cosa è vivo e cosa è morto nella social democrazia?”, nel quale dice sostanzialmente che lo Stato è l’incarnazione degli interessi collettivi e non l’espressione del potere. Su questi due modi di intendere lo Stato, del resto, si sono espressi anche, i nostri Giovanni Gentile e Benedetto Croce, con due tesi rispettivamente diverse: per il primo, lo Stato è il potere, mentre per il secondo lo Stato è la coscienza civile e morale dei cittadini. Dunque, lo Stato si può intendere in due modi: il complesso delle istituzioni con i vari poteri e l’incarnazione dell’interesse collettivo.

Quindi possiamo dire che ha due anime: una è il potere politico ovvero produrre le leggi, farle rispettare, istituire l’organo militare per la difesa…l’altra è l’incarnazione degli interessi dei singoli individui in quanto cittadini. Per spiegare questa differenza ai miei studenti, nel corso degli anni, ho affrontato il tema degli “interessi rivali” dell’economia commerciale che sono gli interessi per i quali esiste lo scambio per cui io do una cosa a te e tu, in cambio, ne dai una a me. Se una cosa ce l’ho io non ce l’hai tu. Il mondo dell’economia commerciale è il mondo degli interessi rivali. I beni, in quanto privati, si devono distribuire tra gli individui. Su questo si fonda lo scambio, il mercato, i prezzi, eccetera.

Che immagine chiara del concetto economico di commercio! Ma… l’interesse collettivo? O meglio: l’interesse del singolo cittadino?

A fronte degli interessi rivali, invece, ci sono gli interessi condivisi. Che non sono scambiabili, perché non possono essere oggetto di compravendita. Quali sono gli interessi di cui parliamo parlando dello Stato e della tassazione? Sono gli interessi condivisi dai cittadini “in quanto cittadini”. Non in quanto negozianti, avvocati, medici, tassisti o altro: questi sono status professionali. Quello che conta è lo status del soggetto che fa parte di una comunità politica come cittadino. E in questo senso siamo tutti cittadini, uguali uno all’altro. E condividiamo una quantità di interessi che si chiamano interessi pubblici, i quali sono condivisi e, dunque, non essendo rivali, non possono essere oggetto di scambio, e devono essere soddisfatti sostanzialmente attraverso la cooperazione politica: questo è il cuore della funzione economica dello Stato. Il compito dello Stato non è quello di esercitare il potere, è quello di provvedere al soddisfacimento degli interessi condivisi, pubblici, dei cittadini che non possono essere soddisfatti dal mercato. Naturalmente, soddisfare gli interessi pubblici, costa una quantità enorme di risorse.

Ed ecco la necessità delle tasse…

Far rispettare l’ordine pubblico, o il codice della strada o le regole più elementari della convivenza: costano un occhio della testa, in termini di risorse. Serve una grande quantità di persone preparate a svolgere certi compiti. Chi paga tutto questo? Poiché i servizi legati agli interessi pubblici non possono diventare oggetto del mercato, bisogna trovare un modo per finanziarli. I servizi legati agli interessi rivali si finanziano da soli, con il prezzo: io faccio l’avvocato, c’è un cliente che ha bisogno della mia opera, lui mi paga per la consulenza legale che gli fornisco, attraverso la parcella. Nel caso degli interessi condivisi questo “gioco” non c’è: il vigile urbano non dà un servizio che segue un interesse privato, la sua funzione è di garantire la circolazione nelle città in maniera indifferenziata ovvero a tutti. Io non posso comprare il servizio del vigile urbano. Ma, poiché la vita di un vigile urbano costa, come facciamo a pagarla? Il tributo, la tassa è l’alternativa rispetto al prezzo degli interessi rivali, è il modo di finanziare i cosiddetti beni pubblici, più precisamente di finanziare il loro soddisfacimento.

Quindi, le tasse servono per soddisfare gli interessi pubblici di tutti noi, in quanto cittadini, corretto?

Sì, e questo soddisfacimento è costoso e questi costi devono essere coperti o con le tasse o con il debito pubblico.

Dunque, quando paghiamo le tasse, lo facciamo per avere, tutti, indistintamente, le stesse prestazioni all’interno del nostro territorio, del nostro Stato. Da questo punto di vista potremmo dire che le tasse sono un indice di democrazia?

Attenzione: un conto è come dovrebbero essere le cose e un altro è come lo sono di fatto. Nel corso della storia, per esempio nei secoli del feudalesimo o, più recentemente, quando governavano le aristocrazie, solo idealmente lo stato rappresenta gli interessi condivisi dei cittadini ma nella realtà il meccanismo funzionava assai diversamente: le tasse erano uno sfruttamento da parte del potere politico sui sudditi. Un economista americano ha fatto un’analisi su questo, intitolandola “L’economia dell’autocrazia”, nella quale le tasse non sono il contributo dei cittadini agli interessi comuni ma sono un mezzo, per l’autocrate, per mantenersi e sfruttare il suddito, rientrando in quella che Mancur Olson, e non solo lui, chiama la lotta distributiva all’interno dell’economia capitalistica.

Può spiegarci meglio quest’ultimo tema?

Il gioco fondamentale dell’economia capitalistica consiste nello scontro distributivo nel quale ognuno, individualmente o come gruppo, cerca di appropriarsi di quanta più ricchezza possibile sottraendola, praticamente, agli altri.

Ma in questo modo non stiamo passando all’ambito degli interessi rivali?

Certo, l’anima del capitalismo non sono gli interessi pubblici condivisi ma l’economia commerciale, già ben compresa da Adam Smith che aveva capito che quell’anima del sistema avrebbe portato delle patologie tremende. Lui, erroneamente inteso come il cantore del mercato e di quel capitalismo, aveva chiarissimo che la “commercial society”, come la chiamava lui stesso, conteneva in sé i germi di un’involuzione sociale terribile: disprezzo della povertà, assenza di equità…solo accaparramento dei beni a scapito degli altri. L’economia pubblica, invece, non è la soppressione del mercato ma sarebbe la negazione di tutto questo, dove non c’è una lotta distributiva perché gli interessi non sono rivali ma…condivisi. E, essendo questi gli interessi, ci vuole un’autorità che raccolga le risorse per soddisfarli.

 

Argomenti interessantissimi ma, torniamo alle nostre tasse e ai principi sui quali vengono concepite: nella nostra Costituzione, c’è l’articolo 23 che dice: “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” per cui ci dice come vengono stabilite le somme di ciascun cittadino? E come funziona la tassazione progressiva?

Sì, nella nostra Costituzione c’è tutto, anche il concetto di capacità contributiva ovvero la misura con cui i cittadini dovrebbero contribuire alle spese necessarie per il soddisfacimento degli interessi condivisi pubblici, quindi quelli dei cittadini e non delle categorie, deve essere commisurata alla cosiddetta capacità contributiva di ciascuno. In pratica questo significa reddito e patrimonio. Se uno ha un reddito, e, o, un patrimonio, ha i mezzi per contribuire. Se ha reddito zero e non possiede nulla non ha i mezzi per contribuire. Questo è il significato di capacità contributiva. L’ammontare con cui un cittadino contribuisce all’opera dello Stato deve essere commisurato alla sua capacità contributiva che, però, non necessariamente deve essere progressiva, ma significa che se Tizio ha una capacità contributiva maggiore di Caio, Tizio dovrà pagare più di Caio. Il principio della capacità contributiva non specifica di quanto di più Tizio dovrà dare, dice solo che dovrà dare di più.

E questo è, se vogliamo, un concetto di equità. Se pensiamo alla Flat tax, verrebbe da dire che non è né equa né “democratica”…

L’idea della Flat tax è che dovrebbe essere un’imposta proporzionale. Se io sono più ricco, il mio carico tributario deve essere proporzionale alla mia ricchezza: se sono più ricco pagherò di più di colui che è meno ricco ma, nella stessa proporzione: io che sono ricco contribuisco per il 10%, Caio che è meno ricco, sempre per il 10% e Tizio, che è il meno ricco, sempre per il 10%. Solo che, il mio 10%, che sono ricco, significa un milione, quello di Tizio significa 100 euro.

Però, scusi, ma quel 10% che per lei, che è ricco, non significa granché, nella vita quotidiana di Tizio, invece, ha un peso maggiore, non crede?

Eh, certo. Qui la questione, come direbbe Judt, e altri che, come me, sono d’accordo con lui, volendo fare una critica costruttiva a questo sistema commerciale capitalistico, è capire come stanno le cose dal punto di vista della distribuzione della ricchezza. In una società relativamente ugualitaria, se mai è esistita, e che non significa che tutti hanno la stessa ricchezza…Diciamo meglio: in una società in cui domina il ceto medio, c’è una ristrettissima minoranza di super ricchi e una ristrettissima minoranza di diseredati, la progressività della tassazione è, in un certo senso, meno importante poiché c’è un buon numero di cittadini che vivono dignitosamente. Se tutti i cittadini avessero la stessa capacità contributiva il problema non si porrebbe perché pagherebbero tutti lo stesso ammontare.

Ma oggi non stiamo in una situazione così: il ceto medio è stato progressivamente spazzato via e la forbice tra i “molto ricchi” e i “molto poveri” è troppo ampia!

No, infatti, la realtà del capitalismo contemporaneo è sotto gli occhi di tutti: il ceto medio sta sparendo, c’è una diseguaglianza e una concentrazione della ricchezza spaventose, che alterano completamente il “gioco” della democrazia. Il ricco ha un potere di influire sulle decisioni politiche enormemente maggiore. La nostra storia recente è così, Berlusconi è stato un caso esemplare. Gli Stati Uniti lo hanno avuto con Trump, forse lo riavranno. Tutti casi esemplari di questa corruzione del sistema democratico in cui quello che conta è il denaro. Il potere è denaro e il denaro è potere.

Con queste parole, chi scrive, sceglie di chiudere questo articolo.

 

Silvia SitariGiornalista

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