Oggi, che si parli di film, di Sanremo, di Rai, di cultura, si è soliti gridare “fuori la politica da…”, ma, che ci piaccia o meno, la politica da sempre entra in questi mondi, soprattutto se questi fanno parte della cultura popolare, ossia quell’insieme di elementi culturali di diversa natura (tradizioni, saperi, idee, usanze, aspetti magico-religiosi) che rientrano nelle tendenze dominanti di una vasta comunità (oggi ormai definita Mainstream) e che sono dotati di una propria specificità socioculturale.
Al fine, quindi, di analizzare quella relazione che sussiste tra la cultura popolare e la comunicazione politica, è necessario prendere in esame ed al contempo sviscerare i principali mezzi di comunicazione che dal dopoguerra ad oggi hanno accentuato sempre di più tale rapporto, indirizzando gli esponenti politici verso una politica pop, in cui loro stessi, parafrasando Gervasoni, “cominciano a dialogare e a comportarsi come divi dello spettacolo”.
Tale processo, nel corso degli anni ha determinato un adeguamento degli stessi esponenti politici alla media-logic sino ad arrivare alle ultime estreme versioni pop della politica online, dove il “meme”, rappresentandone l’apogeo, è da considerare l’espressione più significativa di quest’ultima.
Se oggi, come sostiene il Professor Mazzoleni, internet rappresenta l’ambiente ideale per la “memizzazione” della politica, l’avvento della televisione ha rappresentato, sin dagli anni ‘50, quello strumento idoneo ad avviare quel processo di mediatizzazione, in primis imponendo all’intera politica ed ai suoi rappresentanti un confronto visivo con il loro pubblico, con la logica conseguenza di esporre i vari partiti ad una continua visibilità e, contemporaneamente, come già accennato nel ‘68 dai sociologi Blumer e McQuail, aumentando in modo esponenziale la partecipazione di pubblici sempre più vasti.
Nel nostro Paese, i primi semi della fusione tra cultura popolare e politica, seppur, ovviamente in maniera non equiparabile a quanto accade oggi, vengono gettati con la campagna elettorale del 1960, più precisamente attraverso l’ingresso della politica in televisione tramite il programma “Tribuna Elettorale”. La trasmissione, curata dal giornalista Jader Jacobelli, coerentemente con l’obiettivo pedagogico ed educativo che si poneva l’ente pubblico, nacque, come afferma il Professor Novelli (autore di fondamentali studi sui formati e dei linguaggi della propaganda, sulla dimensione audiovisiva e iconografica della comunicazione politico-elettorale e sulla trasformazione della scena politica e mediale) con la finalità di estendere i confini della partecipazione alla democrazia rappresentativa.
Tuttavia, essendo in quel periodo l’apparato dei media ancora poco sviluppato ed il sistema politico caratterizzato dalla presenza di partiti forti ed autorevoli (i cd. “partiti di massa”), quel legame politica-cittadinanza si sviluppava principalmente attraverso comizi, convegni e manifestazioni, e la tv occupava dunque solamente una minima parte di una campagna elettorale che si svolgeva principalmente nei momenti e nei luoghi sopradetti. La televisione, inoltre, doveva sottostare ad un rapporto di subordinazione non solo al sistema politico in generale ma, in particolar modo al governo, in quanto solo con la riforma del 1975 il controllo, sino a quel momento sotto lo stretto monitoraggio dell’esecutivo, passerà al Parlamento al fine di garantire un maggior pluralismo all’informazione ed avviando quel processo di lottizzazione.
Inizialmente vi è, dunque, un rapporto di attrazione tra televisione e politica totalmente sbilanciato a favore di quest’ultima, in quanto è lei a decidere tempi, modi, forme e linguaggi con cui proiettarsi nello schermo. Tuttavia, se l’ingresso della politica nella televisione avviene, come già detto, all’inizio degli anni ‘60, il talk show, considerato lo strumento primario attraverso il quale la politica inizia ad entrare in una fase di media-logic e stabilisce una stretta relazione con i cittadini, comparirà per la prima volta in Italia nel 1976, attraversò Bontà loro, seppur nella sua concezione di talk show impuro, così come da classificazione fornita da Novelli, in quanto talk che ospita anche esponenti del sistema politico, ma non interamente incentrato su di esso.
Come spesso accade, precursori dell’introduzione nella televisione di tali programmi sono sempre gli USA, dove a partire degli anni Cinquanta iniziano a svilupparsi diversi talk show (es. The Tonight Show) nei quali si mette in primo piano l’intervista ai politici, sino ad arrivare al primo dibattito tra due candidati alle presidenziali, Kennedy e Nixon. Di fatto, la campagna presidenziale del 1960 segnerà un mutamento radicale nell’intera storia politica statunitense, durante la quale si rivoluzionò totalmente la modalità di fare comunicazione elettorale, avviando quell’epoca in cui la televisione e, di conseguenza, una vincente apparizione sul teleschermo, sarebbero diventati strumenti decisivi ai fini del risultato finale, dimostrando come quel processo di personalizzazione e spettacolarizzazione, che da noi arriverà qualche decennio più tardi, negli Stati Uniti sia già in forte evoluzione, con una comunicazione politica, intesa come lo scambio ed il confronto dei contenuti di interesse politico, che si conforma ai dettami imposti dalla televisione.
In Italia, l’idea che la comunicazione politica sia intimamente legata alla cultura popolare, con una società sempre più improntata sull’immagine, diretta conseguenza di una crescente personalizzazione della politica introdotta da Craxi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta sulla scia dell’esempio reaganiano, raggiunge un punto di svolta con la discesa in politica di Berlusconi nel 1994. Il successo immediato di Berlusconi, il quale può essere definito l’antesignano della politica pop, fu dovuto, in un particolare momento di difficoltà che attraversava il sistema politico italiano al momento della sua discesa in campo, alla sua capacità di proporsi come un leader estremamente vicino al popolo. Come, di fatto, afferma Federico Boni, che sulla fenomenologia mediatica di Berlusconi ha scritto un interessantissimo libro, il Cavaliere è stato un super leader di massa perché le sue rappresentazioni sono tutte interne alla logica della popular culture, avendo a che fare con le varie poetiche televisive.
La televisione, che ormai ha ribaltato quel rapporto di subordinazione alla politica che aveva dominato gran parte della Prima Repubblica, non è più, quindi, esclusivamente uno strumento attraverso il quale si cerca di avere maggiore visibilità e più consenso, ma inizia ad essere concepita come “amplificatore di un ethos che si incarna nella figura del leader”. Attraverso la berlusconizzazione del sistema radiotelevisivo nazionale, la tv inizia, dunque, a svolgere una funzione culturale di natura sub-politica, quest’ultima intesa come una dimensione in grado di coinvolgere sempre più attori esterni alla politica istituzionale.
Tuttavia, sarà l’avvento del World Wide Web, indicato dal Professor Mazzoleni quale seconda linea di demarcazione tra comunicazione di massa ed “auto-comunicazione di massa”(la prima è, appunto, la discesa in campo di Berlusconi), a mutare ulteriormente la considerazione e l’utilizzo dei media, ormai non più meramente mezzo di supporto alle istituzioni politiche, bensì intesi come veri e propri forum di discussione, a cui seguirà quella terza fase capace di dare un’ulteriore svolta alla comunicazione politica, dominata dal “Fenomeno Grillo”, dalla nascita dei 5 Stelle e della conseguente utopia della democrazia diretta.
L’insieme di queste tre linee di demarcazione sopracitate e brevemente analizzate, ed i loro conseguenti effetti, hanno dato luogo alla diffusione di una nuova politica pop, in grado di scavalcare i vecchi media, dal momento in cui le recenti piattaforme online, ogni giorno in continua evoluzione, generano quotidianamente contenuti provenienti dalla cultura popolare, rendendoli disponibili all’ormai immensa comunità virtuale, di cui anche tutti i leader politici, facendone parte, usufruiscono al fine di farne un uso politico nella piena logica del politainment, al cui interno i vari contenuti pop rappresentano una parte decisamente rilevante di questa neo-comunicazione politica.
Dal momento in cui il politainment ed i suoi contenuti, fanno spesso riferimento ad una logica umoristica-satirica, il prodotto che per eccellenza oggi gioca un ruolo fortemente significativo nell’ambito della cultura pop digitale è appunto il meme, ossia quegli elementi della cultura popolare che vengono diffusi, imitati e trasformati dagli utenti della rete e che creano un’esperienza culturale condivisa, accentuando ancor di più quel processo di popolarizzazione della politica.
Di conseguenza, in un’epoca in cui le discussioni e i dibattiti politici che in precedenza avevano luogo durante convegni ed assemblee si svolgono maggiormente attraverso la rete con interazioni pressoché infinite, risulta difficile ipotizzare che tali eventi politici non generino dichiarazioni, riflessioni ed opinioni in grado di dare vita a nuove dinamiche pop.
Ecco perché, come sostiene la Professoressa Roberta Bracciale (autrice con Gianpietro Mazzoleni di un libro interamente dedicato alla politica pop online e ai meme), in questo periodo storico, i meme, che inizialmente venivano guardati come una mera e simpatica nuova modalità di fare humor politico, devono ormai essere considerati come dei veri e propri mezzi di attivismo politico, sino ad essere valutati come “l’espressione più significativa della politica pop online”.
Già nel 2012, Barack Obama, ricandidatosi alle presidenziali dopo la vittoria nel 2008, in quella che molti comunicatori politici considerano la prima vera campagna social della storia, venne definito “the first meme President”, per l’elevato uso che ne fece in quella campagna elettorale, d’altronde denominata “meme election”. In particolar modo, Obama sfruttò fortemente i meme generati dall’infelice frase (“binders full of woman”) usata dal candidato repubblicano Mitt Romney durante il secondo dibattito, per rispondere alla domanda effettuata dal pubblico in merito alla disparità tra uomini e donne nel mondo del lavoro.
A seguito di quella frase si diffusero rapidamente sia su Facebook sia su Twitter vari meme satirici, inondando la rete di fotomontaggi riguardanti i raccoglitori di Romney ed al contempo dilagarono vari trend quali #BindersofWomen e #RomneyBinders.
Anche in questo caso gli USA sono da considerare gli antesignani di questa importante novità, dal momento in cui, a partire da questa campagna elettorale, i meme diventeranno addirittura degli autentici driver culturali volti a propagare ideologie (anche a volte razziste ed antisemite nel caso di Pepe the Frog), oltre a divenire una parte fondamentale della comunicazione politica anche nel resto del mondo, in quanto tutti i leader politici hanno ormai compreso la rilevanza di questo elemento in grado di influenzare la loro narrativa mediale sino a diventare componente chiave per sviluppare le proprie strategie di comunicazione.
Prova di come i politici, anche nel nostro Paese, abbiano percepito i potenziali vantaggi derivanti dalla “memizzazione” della politica, è il continuo uso di cui ne fanno i rappresentati di tutti i partiti, anche quelli minori: interessante, infatti, l’analisi dei meme comparsi immediatamente dopo la conclusione della serie “Game of Thrones”, in cui Emma Bonino (ma anche Giorgia Meloni e l’ex sindaco di Torino Sergio Chiamparino), ha fatto suo, in vista delle imminenti elezioni europee del 2019, lo slogan “Not Today”, rivolgendosi ai fan della serie ed al contempo immettendosi in quell’ondata comunicativa che in quei giorni dominava la rete.
Abbiamo visto, dunque, come tutti i componenti della cultura popolare, presenti nei classici mezzi di comunicazione sin dall’epoca pre-social, siano diventati, con l’avvento di quest’ultima, ancor più parte integrante di quella popolarizzazione della politica. Ecco perché oggi in particolare, ma abbiamo visto anche in passato con i media tradizionali come la televisione, intesa appunto come mezzo idoneo a svolgere una funzione culturale di natura sub-politica, tutti gli esponenti politici dimostrano vicinanza e appartenenza ad un universo comunicativo pop in grado di permettere loro di raggiungere anche quei soggetti tendenzialmente lontani dalla politica tradizionale. E se questo può aiutare e contrastare quel clima di disaffezione alla politica che colpisce il nostro Paese, ben venga che questa entri anche nella cultura popolare, ovviamente non con il mero scopo di occupare poltrone, ma al fine di agire per la polis, dal momento in cui la politica è l’arte e la scienza del governare, e riguarda tutti, e ciascuno di noi è tenuto ad occuparsene, nelle proprie possibilità, attraverso la partecipazione la manifestazione di comportamenti finalizzati al benessere della comunità, all’interesse della società in cui si vive.
Francesco Spartà – Giornalista e Teaching Assistant