A Bari, dopo le accuse reciproche, tra Pd e M5S è gelo. Il problema è l’ostentata mancanza di fiducia di Conte nei compagni di viaggio. E Schlein farebbe meglio a concentrarsi su un obiettivo alla sua portata: cambiare il partito.
Dalla pochette alla pochade. Dopo un ventennio di governo del centrosinistra, iniziato nel 2004 con la vittoria dell’attuale governatore pugliese Michele Emiliano, il centrodestra vede il Comune di Bari contendibile. E non ha le traveggole. Dopo due inchieste in due mesi per presunte corruzione elettorale e infiltrazioni mafiose, l’apertura della procedura per scioglimento del Comune da parte del Viminale (su sollecitazione dello stesso centrodestra locale), le parole a dir poco incaute di Emiliano che in passato avrebbe “raccomandato” l’attuale sindaco Antonio Decaro alla sorella di un boss per proteggerlo da attentati, il coinvolgimento nell’indagine dell’assessora regionale ai Trasporti in quota Pd (subito dimessasi), e infine il ritiro unilaterale del M5S dalle primarie per candidato sindaco con la conseguente gelata del campo largo: dopo tutto questo, l’assenza di un avversario per Decaro a due mesi dalle elezioni è una quisquilia. Anche perché non è detto – appunto – che non arrivi un commissario da Roma, e arrivederci.
In questo quadro di macerie, al cosiddetto centrosinistra tocca farsi una domanda di sistema: è ancora possibile – dopo il refolo in Sardegna, la tramontana in Basilicata e la tempesta a Bari – mettere in piedi un’alleanza Pd-M5S? La richiede l’aritmetica che comanda nelle urne – vero – ma si può fare a dispetto dei santi?
Il punto però non è che l’ex premier voglia dominare l’eventuale coalizione – si fa politica per vincere – né che giochi ogni partita con disinvolto accanimento – si sa che la politica non è un pranzo di gala. Il problema sta nella forma che diventa sostanza, e pesa come il piombo. Annullare le primarie a ridosso, senza prima essersi consultato con l'”alleato” (le virgolette non sono casuali) è deflagrante. Non è una dichiarazione di guerra ma di sprezzo. I retroscena sui giornali dibattono se Conte abbia chiamato Schlein cinque o venti minuti prima di ritirarsi dal patto: puntualizzazioni surreali. Neppure Giorgia Meloni, che sulla Sardegna ha mostrato i muscoli a Matteo Salvini, è arrivata al punto di schiaffeggiare pubblicamente l’impopolare Christian Solinas (e comunque, ha vinto Alessandra Todde). Il completo disimpegno del leader pentastellato nella ricerca di una soluzione comune, di un tentativo di ricucitura da imbastire insieme al Pd, di un protocollo condiviso di fronte alla crisi, segnala una sola cosa: l’assenza di qualsiasi fiducia nei potenziali compagni di viaggio. Un atteggiamento che si riflette nella base e inevitabilmente orienta l’umore degli elettori, propri e altrui.
Ecco perché, a prescindere da come finirà a Bari, il cammino del campo largo assomiglia sempre di più alla tela di Penelope: tanto si fa e altrettanto si disfa, con devastante imprevedibilità. Forse è meglio a quelle latitudini rassegnarsi all’opposizione mentre si costruisce un’alternativa che non abbia i piedi d’argilla. E non è privo di saggezza il consiglio che Marco Damilano ha dato sulle pagine del “Domani” a Schlein: si dedichi a cambiare il partito che ne ha bisogno. Il dividendo è minore ma il tempo non è sprecato.
Federica Fantozzi – Giornalista