Tutti a scuola abbiamo studiato un episodio della storia romana: quando Giulio Cesare ripudiò la moglie. Clodio, un giovane oggi diremmo della Roma bene, si intrufolò travestito da flautista, pare con la complicità di una servetta, nella casa di Cesare dove si svolgeva una festa. Fu smascherato e portato in giudizio. Cesare non lo accusò, ma divorziò dalla moglie pur credendola innocente (si vociferava che quel giovane fosse l’amante della moglie Pompea Silla, nipote del terribile dittatore famoso per le proscrizioni).
Allora perché vuoi divorziare, domandò il giudice a Cesare se tu stesso consideri innocente tua moglie?. E Cesare diede una risposta che ha attraversato i millenni: giungendo fino a noi : ‘’Perché la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto ”.
Questa formula – la moglie di Cesare, come anche quella della ‘’casa di vetro’’- è diventata la metafora della trasparenza del potere, diremo meglio, del dover essere trasparente di chi è chiamato a incarichi pubblici (allora Cesare era console, la massima magistratura della Repubblica).
Il politico, ma anche il magistrato, il burocrate, ma soprattutto chi ha incarichi pubblici, di governo, dovrebbe appunto essere come la moglie di Cesare: non solo essere onest0,, ma anche apparire tale, ed essere comunque al di sopra di ogni sospetto.
Pertini spesso martellava con la sua nota veemenza su questo tasto: in politica l’apparire non è meno importante dell’essere, la sostanza deve poter coincidere con l’apparenza.
Non è materia solo giudiziaria, ma anzitutto di etica pubblica, di stile politico, di concezione alta dell’impegno pubblico
Questo livello più o meno alto dipende dallo spirito del tempo, e dal comune sentire dei cittadini. E oggi, diciamolo, questo livello è piuttosto basso.
Quando un sindaco, un ministro, un uomo pubblico incappa in un avviso di garanzia, viene sospettato di aver compiuto un reato, e quindi viene indagato per questo, cosa dovrebbe fare?
Poiché non è nella condizione di essere al di sopra di ogni sospetto, dovrebbe lasciare l’incarico? Non c’è nulla che lo obblighi a dimettersi, certamente. Ma un ministro che ha giurato nelle mani del Capo dello Stato di essere fedele alla Repubblica, di rispettare le leggi ecc .ecc. se è oggetto di una indagine giudiziaria si trova oggettivamente e soggettivamente in una situazione quantomeno imbarazzante.
Come se ne esce?
E’ una materia controversa. Chi invoca le dimissioni certo non è perché invoca il teorema della moglie di Cesare ma lo fa per calcolo politico, per colpire l’avversario. Mentre il partito di riferimento del ministro, lo difende ”a prescindere” mettendo tra parentesi considerazioni di opportunità politica, di sensibilità istituzionale, di decoro dell’immagine.
Un Paese paradossale l’l’Italia
L’avviso di garanzia, istituito appunto per ”garantire” il cittadino e avvisarlo che si stanno facendo indagini sul suo conto, è diventato, da tangentopoli in poi, l’equivalente di una condanna preventiva (questo anche per colpa di una stampa che avrebbe qualcosa da rimproverarsi per aver contribuito a questa automatica associazione che è arrivata in certi casi all’infamia di una gogna mediatica).

Anche per questo non ci può essere automatismo tra avviso di garanzia e dimissioni. Equivarrebbe a dare in mano alla magistratura un potere assoluto, quello di fare e disfare i governi. Berlusconi ne sapeva qualcosa, fin da quando, mentre presiedeva a Napoli un vertice internazionale sulla criminalità, il Corriere della Sera spiattellò un avviso di garanzia a suo carico. E successe il finimondo.
E ne sapeva qualcosa anche Giuliano Amato, a capo del governo nel ’93, che vedeva cadere i suoi ministri come birilli all’arrivo di avvisi di garanzia, amplificati dai media come puntuali monatti con il campanellino ai piedi. I ministri si dimettevano, Amato ne assumeva l’interim, e non c’era nessuna reazione o protesta da una parte di una classe politica intimidita dall’ondata giudiziaria e giustizialista, e per giunta arrivata al gesto autolesionistico di abolire l’immunità parlamentare, lo scudo che i Padri Costituenti avevano pensato per tutelare il parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni e non abbandonarlo all’estro momentaneo del magistrato di turno.

Resta il profilo etico l’unico criterio che dovrebbe ispirare le decisioni del politico se dimettersi o no. Se non si dimette, farà i conti con la sua coscienza, e poi se risulterà colpevole, si spera con i suoi elettori.
Ma che cosa succede se si va oltre l’avviso di garanzia e si arriva al rinvio a giudizio?
Che significa, nel linguaggio giudiziario, che da indagato si diventa imputati, e quindi si viene processati?
Anche qui, non c’è alcun automatismo che obblighi alle dimissioni, perché in punto di diritto e di Costituzione dovrebbe valere il principio della presunzione di innocenza: per cui un cittadino è innocente fino a sentenza definitiva di condanna.
Un principio che in Italia sembra quasi utopistico, dal momento che, come si è detto, un cittadino viene considerato colpevole già con l’avviso di garanzia.
Anche qui, come se ne esce: In punto di diritto, un cittadino ministro rinviato a giudizio non è ipso facto obbligato a dimettersi. Ma qui entrano in gioco ragioni di opportunità politica; un ministro dovrebbe valutare da sé se lasciare l’incarico o restare al suo posto, senza aspettare che sia il presidente del Consiglio a chiedergli di dimettersi, o che l’opposizione lo sottoponga ad attacchi mediatici e parlamentari, con eventuali mozioni di sfiducia.
Una riflessione sia a destra sia a sinistra su un patto sullo stile
In ogni caso su tali delicate questioni – avvisi di garanzia, rinvii a giudizio, dimissioni sì o no? – per contemperare il principio della presunzione d’innocenza con valutazioni di opportunità politica, una riflessione la dovrebbero fare sia a destra sia a sinistra, per trovare un codice di comportamento, un patto sullo stile, che valga sia se si tratta di compagni dello stesso partito sia di avversari.
Una sorta di galateo istituzionale, di etica pubblica, che impedisca di curvare le regole di comportamento a seconda di chi sia il soggetto di turno.
Alcune noterelle sulle dimissioni
Premettiamo a queste noterelle la considerazione che in un Paese come l’Italia dare le dimissioni non viene considerato un gesto lodevole, apprezzabile ma una ammissione di colpevolezza. Forse anche per questo si è restii a dimettersi.
Giovanni Giolitti, uno dei pochi statisti che ha avuto l’Italia – con Cavour, De Gasperi e, per i nostalgici, anche Mussolini – conosceva bene i suoi connazionali. Sulla materia appena trattata, ricordiamo almeno due delle sue frasi:
”La legge con i nemici si applica, e con gli amici s’interpreta”.
‘’Le dimissioni? Darle è pericoloso, si rischia che vengano accettate”.
Le dimissioni facili di De Nicola e quelle ‘’salviviche’’ di Cossiga
Non è stato sempre così. C’è stato chi ha esagerato nel senso opposto. Enrico de Nicola, capo provvisorio dello Stato e primo presidente della Repubblica, aveva le dimissioni facili. Ci sono gustosi episodi raccontati da Andreotti nel suo libro Visti da vicino.
Grande avvocato napoletano, uomo di specchiato disinteresse, De Nicola era un personaggio a volte capriccioso e imprevedibile; quando si spazientiva dava le dimissioni e si rifugiava a Torre del Greco. Per cui subito c’era l’andirivieni tra Roma e Napoli per indurlo a ritirarle. Poi le ritirava. Ma una volta che non si risolveva, gli fu rivolta una rispettosa ma anche vibrata e un po’ comica richiesta: Presidente si decida a decidere di decidere”.

Sulle dimissioni, e siamo in tempi più recenti, c’è stato chi ha costruito di fatto la sua futura carriera istituzionale. Quando il 9 maggio del ‘78 fu trovato, in una via a metà strada tra piazza del Gesù, sede della Dc, e via delle Botteghe Oscure, sede del Pci, il corpo di Moro, Francesco Cossiga si dimise da ministro dell’Interno. Nessuno gliel’aveva chiesto. Ma per lui era insopportabile l’idea di restare al Viminale, non essendo riuscito a salvare quello che riteneva un suo maestro politico.
Cossiga visse una tragedia personale, sparì per alcuni mesi, nessuno sapeva dove si fosse rifugiato (era nella sua amata Irlanda). Quando riapparve in pubblico era un Cossiga incanutito e precocemente invecchiato, con dei problemi alla pelle causati da un riflesso psicosomatico. E aveva appena 50 anni!

Ma non passò neanche un anno e già Cossiga rientrò nella politica dalla porta principale: Pertini lo nominò presidente del Consiglio nel 1979. Poi, quattro anni dopo, fu eletto presidente del Senato e concluse la sua carriera politica come presidente della Repubblica, facendo anche il Picconatore negli ultimi due anni di mandato ( ’90—’92).
Il caso di Cossiga – un caso rarissimo nella storia politica italiana – dimostra che le dimissioni non provocano una damnatio memoriae, elevano la statura morale e politica del dimissionario, e possono essere anche un modo per fare un passo indietro e due avanti. Un trampolino non di lancio ma di rilancio verso futuri traguardi.