Come cambia la geopolitica nel 2023, da Prigozhin ai Brics. L’intervista con Elia Morelli (Unipi e Rivista Domino)

Nel 2023 si stanno delineando scenari che potrebbero cambiare la geopolitica in maniera radicale. Solo negli ultimi giorni l’aereo del fondatore della Wagner, Evgenij Prigozhin, si è schiantato mettendo fine alla vita di una delle persone che ha provato a mettere i bastoni tra le ruote al presidente russo Vladimir Putin. Nel mese di agosto un golpe di Stato in Niger ha creato ulteriore instabilità nella fascia del Sahel ed infine i Brics hanno ricevuto sei nuove adesioni. Di questi argomenti abbiamo parlato con Elia Morelli, ricercatore in Storia all’Università di Pisa ed analista geopolitico per la rivista Domino.

 

 

 

Cosa succederà alla Wagner dopo Prigozhin?

Penso che dopo la marcia verso Mosca del 24 giugno Prigozhin era un morto che camminava. Indipendentemente dal suo obiettivo la marcia armata verso la Capitale per esautorare i vertici moscoviti significava mettere in dubbio il potere interno della Federazione Russa. I nemici erano il ministro della Difesa Shoigu e il Capo di Stato Maggiore Gerasimov. Di fatto il presidente Putin non poteva accettare una sfida così aperta in Russia, anche perché in questo momento si sta combattendo un conflitto percepito come guerra esistenziale dal Cremlino.

La morte di Utkin e Prigozhin, indipendentemente da chi ha organizzato il tutto, è stato un modo per rafforzare la verticale del potere all’interno della Federazione Russa da parte dei notabili moscoviti. Sono state eliminate due figure particolarmente importanti ed ingombranti.

 

 

 

Cosa ne sarà del gruppo Wagner?

Il gruppo Wagner dal 2015 in poi ha agito come longa manus degli interessi della Russia in molti scenari: dalla Siria all’Ucraina fino al continente africano. Abbiamo visto il ruolo giocato dai wagneriti nei colpi di Stato avvenuti in Guinea, Mali, Burkina Faso, il loro protagonismo nella Repubblica Centrafricana e il supporto esterno, almeno a livello retorico, mostrato in tutto quello che è successo in Niger. I soldati della Wagner hanno agito nel continente africano per controllare giacimenti minerari, risorse energetiche e rotte migratorie ed hanno rifornito di armi numerosi regimi proponendosi anche come guardie private di alcuni presidenti africani.

L’obiettivo dei vertici moscoviti è quello di inserire la Wagner sempre di più nelle forze armate russe o mantenerlo come un gruppo paramilitare mercenario ufficialmente distante dalla Russia ma ufficiosamente in posizione ancillare agli interessi di Mosca. Si parla anche di un nuovo capo che potrebbe essere Viktor Bout-il cosiddetto “Comandante della morte”. La Russia potrebbe quindi usare in maniera strumentale il gruppo per proiettare la propria influenza nel continente africano sotto molti punti di vista. Ciò permetterebbe di aggirare il contenimento che gli americani hanno ordito nei confronti della Russia.

La sfera di influenza russa in Africa si fa sentire sempre di più: non c’è un rischio di collisione tra Russia e Cina?

Non penso. I due Paesi agiscono in maniera complementare: da un lato la Russia rifornisce di armi i regimi africani e quindi utilizza lo strumento bellico per proiettare influenza all’interno del continente subsahariano, ma anche nel Nord Africa. Sappiamo di accordi di cooperazione strategica stipulati tra Mosca ed Algeri per il rifornimento di sottomarini. Inoltre più del 50% di materiale bellico acquistato dal paese maghrebino arriva proprio dalla Russia.

Dall’altra parte la Cina interviene con investimenti economici e commerciali in determinate aree dal punto di vista immobiliare o attraverso la costruzione di infrastrutture civili e militari. Pechino ha finanziato con un ingente somma di denaro un oleodotto che collega Niger e Benin, consentendo così di esportare petrolio in Cina. Mosca e Pechino non si pestano i piedi e hanno capito che devono incrementare la loro presenza in Africa forti del sentimento antioccidentale delle comunità africane. In quest’ottica si è tenuto il Forum Russia-Africa di San Pietroburgo, il Forum Cina-Africa e infine il 15° vertice Brics a Johannesburg, in Sudafrica.

 

 

 

Perché il Sahel è così instabile: Il Niger è solo un tassello ma in altri Paesi si sono verificati molti disordini e soprattutto a cosa è dovuta la diffidenza verso l’Occidente?

La Russia ha agito nel Sahel perché è l’area più instabile del continente e la regione in cui la sfera d’influenza creata dagli occidentali- soprattutto americani e francesi- è ormai in crisi da qualche anno. Ci sono state in passato da parte degli occidentali alcune operazioni militari per contrastare il jihadismo e sono presenti alcune basi militari. I russi hanno approfittato della riluttanza delle comunità locali verso la presenza occidentale, inserendosi in un contesto scosso da forti sentimenti anticolonialisti e antioccidentalisti, come manifestato plasticamente dall’intervento tenuto al vertice economico e umanitario Russia-Africa dal presidente del Burkina Faso, Ibrahim Traorè, che ha ricordato l’importanza della Russia nella Seconda Guerra Mondiale e la sua lotta contro il neoimperialismo. Ricordiamo che Traorè è salito al potere proprio grazie ad un golpe militare lo scorso anno grazie alla Wagner e ai russi.

Altra dichiarazione che ci permette di capire il sentimento antioccidentale è quello di Kulekhani Skosana, presidente della lega giovanile dell’ANC, che lo scorso anno ha partecipato ai referendum di annessione delle oblast ucraine alla Federazione russa. Skosana ha celebrato il tentativo di Mosca di ridefinire gli equilibri globali, quindi ha paragonato l’esecutivo di Kiev al regime dell’apartheid sudafricano a causa delle discriminazioni compiute dal governo ucraino contro i russi e i russofoni abitanti nel Donbas. Skosana ha inoltre affermato che gli occidentali non si sono mai scusati per il periodo imperialista, continuando a considerare gli africani come subumani.

Anche il presidente algerino, Abdelmadjid Tebboune, durante una visita a Pechino ha sottoscritto un accordo dove si proclama di combattere contro l’idea neocolonialista degli occidentali. Russi e cinesi lisciano il pelo a questi sentimenti, e i primi coltivano i buoni rapporti instauratisi durante la Guerra Fredda.

L’allargamento Brics può significare la crisi o l’espansione di questo modello?

Dobbiamo chiederci prima di tutto quale sia la natura dei Brics. Si tratta di un consesso economico dalle velleitarie pretese geopolitiche aventi un triplice obiettivo: il primo è la dedollarizzazione del sistema finanziario internazionale, il secondo è la fine della globalizzazione a stelle e strisce e il terzo è la riconfigurazione del pianeta secondo una visione rinnovata. I Brics puntano al multilateralismo e al tramonto del progetto americanocentrico. Allo stato attuale i cinque Brics sono un 1\4 dell’economia mondiale e il 36% della popolazione. Con l’eventuale ampliamento entro gennaio 2024 e l’ingresso di Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, il gruppo peserà per il 36% del pil globale e rappresenterà il 46% della popolazione mondiale. I Brics sono legati da una retorica antioccidentale, terzomondista e panafricanista.

Perseguono obiettivi comuni come la de-dollarizzazione. Da questo punto di vista Lula all’ultimo vertice tenutosi a Johannesburg ha proposto una moneta comune nelle transazioni commerciali dei membri dei Brics. Questo avrebbe permesso di far fronte a numerosi problemi, quali sviluppo economico e disuguaglianze sociali.

Esiste anche la questione riguardante la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a cui ambiscono Brasile e India che vogliono entrarvi a far parte per contare di più sulla scacchiera globale.

Esistono anche obiettivi perseguiti da attori come la Cina che ambisce ad una globalizzazione con “caratteristiche cinesi” fondata su tre iniziative: sicurezza, sviluppo e civiltà globale. Questo è un modo per Pechino di affermare come alcuni concetti, quali modernizzazione e democrazia, non appartengano solo all’Occidente.

Ad ogni modo, lungi dall’essere un’alleanza bensì una visione d’intenti, all’interno dell’eterogenea famiglia dei Brics esistono delle accese rivalità geopolitiche: Cina ed India ad esempio sono imperi divisi da inimicizie e contese ataviche ed ancestrali. Alcuni anni fa soldati cinesi e indiani si sono feriti e uccisi lungo la catena dell’Himalaya, tra il Tibet e il Ladakh. Delhi, inserita nel Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), ha firmato con americani e soci accordi di natura strategica sul piano tecnologico e militare con l’obiettivo di contrastare l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese.

L’allunaggio indiano e l’Evergrande: due notizie recenti che forniscono un quadro chiaro della situazione asiatica. La Cina è in crisi mentre l’India è in crescita?

L’India è in netta ascesa, forte della sua ambiguità strategica. Oltre ad essere nei Brics e a condividerne i progetti, fa anche parte del QUAD e contribuisce a contenere direttamente la Cina. L’allunaggio indiano permette di competere con le altre grandi potenze spaziali: Stati Uniti, Russia, Cina e Unione Europea. L’arrivo della sonda indiana nella parte meridionale della Luna, dove nessuno era mai giunto prima, consente a Delhi di magnificare la propria immagine e introdursi con forza nella competizione tecnologica: settore nel quale c’è una forte rivalità proprio con Pechino, alimentata dai recenti investimenti indiani nel mercato dei semiconduttori. Su questo punto è stata lanciata una frecciatina proprio dal presidente cinese Xi Jinping all’ultimo vertice di Johannesburg.

La Cina versa in una fragilità strutturale causata dalla crisi del sistema immobiliare – con il fallimento di Evergrande – dalla politica di azzeramento del covid con politiche impopolari oggetto di manifestazioni, da disuguaglianze economiche e sociali tra le benestanti aree rivierasche e l’entroterra tradizionalmente più povero. Le esportazioni sono fondamentali per sfogare il surplus produttivo interno e sedare eventuali turbolenze intestine, attenuando disparità e disuguaglianze. Pechino si sente minacciata, dal momento che non può mettere il “naso fuori di casa” a causa del pressante contenimento tessuto dagli americani e che ha come epicentro la contesa intorno a Taiwan.  Infine c’è la questione demografica. La politica del figlio unico, inaugurata nel 1979 e recentemente abolita, ha determinato una diminuzione della fertilità e un aumento del numero degli anziani. Il drammatico invecchiamento della popolazione cinese è sintomo di una comunità introversa, sclerotizzata, poco disposta a compiere sacrifici. Questo è il principale problema che sarà chiamato ad affrontare il regime mandarino. Pena lo scadimento internazionale.

 

Francesco Fatone – Giornalista

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