Per capire l’arte ci vuole una sedia

Declinazioni al femminile delle cariche pubbliche, quando la politica viola anche la grammatica

Una proposta di legge (poi ritirata) che vietava di declinare negli atti pubblici le cariche al femminile, dà lo spunto a una storica dell’arte per individuare alcune "figurazioni artistiche" rivelatrici che hanno come titolo il "panico genitale"

Per capire l’arte ci vuole una sedia

Nel 1968 a Monaco una ventottenne giovane e bella, con i capelli cotonati selvaggiamente, una giacca di pelle e pantaloni attillati entrò nella sala di un cinema d’avanguardia (alcune versioni della leggenda dell’artista ritengono che si trattasse di un cinema porno). La ragazza si mise a camminare lentamente, fermandosi davanti a ogni uomo seduto in poltrona per obbligarlo a guardare il triangolo di pelle coperto dai peli pubici scoperto dal taglio che aveva volontariamente praticato nei pantaloni prima di entrare.

Lo scopo di Waltraud Hollinger, nota da allora in tutto il mondo come VALIE EXPORT (nome d’arte scelto per il debutto d’artista, scritto così, in capitali maiuscole, con il cognome mutuato da una marca di sigarette), era di obbligare gli uomini a confrontarsi con una donna vera e attiva, con il suo corpo, con la sua sessualità, con la sua volontà, con il suo carattere, e non con le donne finte e passive dello schermo.

EXPORT attuò la performance Aktionhose: Genitalpanik (cioè Pantaloni da azione: panico genitale) sulla base dell’idea di “cinema espanso”, in cui il corpo vivo dell’artista innesca il contesto della visione. Aktionhose: Genitalpanik entrò a fare parte della tradizione delle rivendicazioni femministe internazionali, superando il confine della Performance Art. EXPORT tramandò l’iconografia della performance facendosi ritrarre un anno dopo dal fotografo Peter Hassmann a Vienna, seduta in un esterno, imbracciando simbolicamente una mitragliatrice; affisse gli ingrandimenti di una delle immagini in piazze e strade. Oggi la serie di fotografie è nelle collezioni dei maggiori musei di arte contemporanea del mondo, come il Museum of Modern Art di New York.

Peter Hassmann, VALIE EXPORT. Aktionhose: Genitalpanik, serie di 6 fotografie, 67 × 49.8 cm, 1969, New York, MoMA, Object number 27.2010.a-f

 

Aktionhose: Genitalpanik ha assunto un tale valore di manifesto artistico e femminista che la Performance Artist più celebre ancora oggi in attività, Marina Abramović, scelse la performance di EXPORT per uno dei re-enactment da inserire nella sua mostra Seven Easy Pieces (7 pezzi facili), dedicata a Susan Sontag. Abramović selezionò 7 performance di colleghi (oltre a EXPORT, Vito Acconci, Joseph Beuys ecc.) storicizzate particolarmente note e rappresentative della storia della Performance Art e le recitò al Guggenheim Museum nel novembre 2005 per 7 giorni. Aktionhose: Genitalpanik assunse la traduzione inglese Action Pants: Genital Panic e per Marina fu particolarmente significativa anche per via della sua vita personale: vestire quasi da soldatessa e imbracciare una mitragliatrice la riportava anche alla storia dei suoi genitori, accesi e controversi partigiani di Tito; manifestare in pubblico e in testardo silenzio la propria bellezza (evidenziata dai lunghi capelli in piega e dal rossetto rosso), la propria femminilità (esibita quasi volgarmente e per ore dal taglio sul cavallo dei pantaloni) e la propria professionalità d’artista riconosciuta nei musei templi dell’arte contemporanea la ricondusse ritualmente ai momenti ciclici dolorosi delle sue storie d’amore, avute con colleghi che sistematicamente avevano mal tollerato il suo successo e la sua ambizione continua, nonché il suo rifiuto della maternità per evitare ostacoli nel mantenimento della propria autonomia.

Marina Abramović, re-enactment di VALIE EXPORT, Action Pants: Genital Panic (1969), in Seven Easy Pieces. Dedicated to Susan Sontag, New York, The Solomon R. Guggenheim Museum, 9-15 novembre 2005 (11 Novembre, dalle 17:00 alle 24:00)

 

Ho pensato subito al “panico genitale” degli uomini nei confronti delle donne che vivono come gli uomini (cioè che sono istruite e fanno lavori impegnativi anche socialmente grazie ai quali sono autonome, con le conseguenze del caso) quando domenica 21 luglio ho letto sullo smartphone la notizia di un DDL presentato dal senatore leghista Manfredi Potenti con “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere”. Il senatore Potenti proponeva di tutelare la nostra lingua con un ossimoro: abolendo le regole grammaticali. Se approvato, infatti, il disegno di legge avrebbe consentito di multare l’uso del femminile negli atti pubblici per designare professioni ricoperte da donne.

La proposta aveva l’obiettivo di “preservare l’integrità della lingua italiana” evitando “l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi simbolici di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.  L’articolo 2 del disegno di legge prevedeva che “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali, alle onorificenze, ed agli incarichi individuati da atti aventi forza di legge”. “La violazione degli obblighi di cui alla presente legge comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria amministrativa consistente nel pagamento di una somma da 1000 a 5000 euro”.

Il testo, incerto anche nell’uso della stessa lingua che intendeva tutelare, parla di “tentativi simbolici” e “sensibilità del tempo”, di “violazione” della legge ove si fosse usato il “genere femminile” quando il genere biologico della professionista menzionata in un atto pubblico avesse obbligato a rivelare che la lavoratrice è una donna. Deduco dunque, stando al testo, che per un senatore della Repubblica nascere donna è una vergogna e un errore, come in Cina e come è stato da noi per secoli, e che anche solo osare nominare una donna in quanto tale in un atto ufficiale pubblico dovrebbe equivalere a violare una legge dello Stato? Ma se una donna è una donna è una donna (per parafrasare la celebre tautologia di una grande donna alla quale dei generi non importava nulla e che dagli uomini era ammirata e temuta per il suo grande cervello, Gertrude Stein, e come dimostrano le esibizioni provocatorie di EXPORT e Abramović), perché tutto questo grottesco panico di fronte a un’evidenza in primo luogo genitale che, quindi, è reale e biologica e non simbolica né legata a inesistenti sensibilità contemporanee?

Fa infatti sorridere che la stessa destra che trova inammissibili le transizioni di genere e le identità gender fluid contesti l’ineluttabilità della biologia. Se gli elettori comprendessero quanta incoerenza opportunista motiva, spesso nella stessa giornata, interventi e affermazioni di molti politici, forse quando ne avremo di nuovo l’occasione le cose potrebbero cambiare grazie a un voto intelligente e compatto.

Mentre scrivo (lunedì 22 luglio), la Lega ha comunicato che la proposta è stata ritirata perché si trattava di un’iniziativa personale del senatore e che la proposta non rispettava la linea del partito. Lo scampato pericolo di un’ennesima deriva da regime nero non esime, tuttavia, da riflessioni.

La proposta di legge del senatore Potenti era contraddittoria nei termini in cui era posta, ma assorbiva temi e argomentazioni ormai circolanti da tempo grazie alla destra al potere. Non è la prima volta, da quando è in carica l’attuale governo, che attraverso proposte e scelte legate al genere nella lingua dell’uso e in documenti ufficiali si cerca il consenso delle aree più estremiste e razziste della popolazione. Queste aree hanno eletto il generale Vannacci al Parlamento europeo proprio nelle file della Lega per volontà del leader Salvini.

Qual è, dunque, la “linea del partito” sul genere femminile che la Lega ha ritenuto violata dalla proposta di Potenti ma rappresentabile in Europa dal generale? Eccone qualche esempio, contenuto rispettivamente nel pamphlet Il mondo al contrario e in un’intervista rilasciata da Vannacci dopo il successo del libro che il generale si è autopubblicato:

“Le moderne fattucchiere [le femministe] sostengono che solo il lavoro ed il guadagno possono liberare le fanciulle dal padre padrone e dal marito che le schiavizza condannandole ad una sottomessa, antiquata, involuta ed esecrabile vita domestica”.

A proposito del bestiale femminicidio di Giulia Cecchettin: “Prima di tutto non mi piace chiamarlo femminicidio. Perché chiamare l’omicidio di una donna in modo diverso? Quindi l’assassinio di un tabacchino lo chiameremo commercianticidio?” (“La Stampa”, 4 dicembre 2023).

Per quanto sia indubbiamente encomiabile che oggi la Lega si sia ufficialmente dissociata dalla proposta di legge del senatore Potenti dopo le prime polemiche, noi cittadini dovremo tenere alta la guardia: la Lega è lo stesso partito responsabile della convalida di idee esecrabili a danno delle donne, candidando in Europa chi se ne fa portavoce. Non dimentichiamo, difatti, che idee limitanti e limitative del ruolo sociale e pubblico delle donne sono condivise con il vertice più alto del Governo: la stessa presidente del Consiglio che ha raggiunto, per sue incontestabili capacità professionali, a un successo personale fuori dal comune da donna giovane in un partito di uomini conservatori e di destra come lei, ha inaugurato ufficialmente la linea dell’abolizione del femminile nei documenti ufficiali a partire da sé stessa, pretendendo di farsi chiamare “Il Presidente”, con l’articolo determinativo al maschile. Meloni è inoltre fautrice della resurrezione dell’ideologia da Ventennio secondo cui la donna deve avere una funzione sociale e questa funzione è la riproduzione.

Lo ha dimostrato pubblicamente lo scorso anno quando in conferenza stampa annunciò le misure di sostegno per le lavoratrici che sono anche madri, specificando implicitamente che la funzione della donna è di riprodursi: “Una donna che mette al mondo almeno due figli ha già offerto al Paese un grande contributo

Non basta, dunque, liquidare la proposta di legge da cui sono partita ironizzando, come io stessa ho fatto e farò in alcuni passi di questo articolo. Non credo che la proposta sia il frutto isolato di una mente ignorante, come qualche sedicente presunta esperta ha già dichiarato nelle scorse ore. Non credo che sia saggio passare la proposta sotto silenzio, come ho sentito dire a qualche autorevolissimo collega (uso il maschile inclusivo, autorizzato dalla grammatica, almeno finora) che ricopre ruoli in istituzioni pubbliche di primissimo piano e che dunque avrebbe voce per motivare un dissenso e chiedere una pacifica interlocuzione: ormai il complesso di superiorità secondo cui entrare in competizione con chi si considera inferiore intellettualmente serve a fare pubblicità a quest’ultimo ha dimostrato di avere i piedi di argilla, altrimenti non saremmo di nuovo circondati da fascisti razzisti che il nostro snobismo non ha voluto arginare fino a quando sarebbe stato ancora possibile.

L’idea tutta di destra di ignorare la grammatica e la biologia (salvo poi appellarsi a quest’ultima quando si ritiene produttivo umiliare e arginare chi con l’identità biologica è in dolorosa lotta fin dalla nascita), la storia sociale e il buon senso, ha buone possibilità di tornare alla ribalta in un immediato futuro, come altri disegni scellerati che il governo in carica è riuscito ad attuare, a cominciare dall’autonomia differenziata che sembrava incredibile a molti, e invece.

Non si tratta di battaglie ideologiche né femministe. Non possiedo gli strumenti per combatterle. La posta in gioco è tuttavia molto alta, e riguarda la sopravvivenza stessa della legittimità fisica di noi donne nei ruoli pubblici; gli stessi ruoli pubblici ai quali ha avuto accesso, fin da giovanissima, l’attuale rampantissima Presidente del Consiglio.

Quale donna vorrebbe, oggi, essere considerata soltanto un corpo che ha la funzione di riprodursi, di accudire i familiari, di amministrare la casa e di rendersi invisibile, come Sophia Loren in Una giornata particolare? Eppure è questo che chi è al potere vuole, per ripristinare presunti equilibri che decenni di evoluzione sociale avevano parzialmente messo in bilico anche se non scardinato del tutto. Come si fa a non capire che, tentando di eliminare il genere dalla grammatica nei documenti pubblici, si tenta di far scomparire progressivamente di nuovo anche noi nei ruoli professionali, pubblici, perfino dallo spazio guadagnato nella famiglia, se non possiamo neppure essere nominate assecondando la realtà biologica (tanto cara proprio alla destra, non a chi scrive)?

Certo, non è solo questione di “genital panic” nei confronti delle donne che si prendono il posto che spetta loro in tempi di nuovo ultra conservatori. Se le donne studiano, lavorano, viaggiano, sono autonome, si sposano meno, fanno meno figli e viene progressivamente meno un modello sociale al quale molti sono inesorabilmente legati. Ma dato che il “genital panic” ha una robusta tradizione artistica e letteraria, vale la pena ricordare di nuovo che spesso ha offerto suggerimenti per capovolgere lo statu quo.

Questa tradizione non è solo iconografica come quella a cui ho accennato all’inizio. In tempi moderni affonda le radici nella elaborazione della leggenda della “vagina dentata” da parte di Sigmund Freud, che illustrò con questa iconografia chiarissima il complesso maschile di “ansia da castrazione” che si manifesta in decine di maniere nelle destre maschiliste mondiali: pensate al complesso da castrazione del più grande amico delle estreme destre italiane, Donald Trump, brutto, anziano e ricchissimo, che ebbe bisogno di umiliare sua moglie, giovane, bellissima, incinta ma da lui completamente dipendente, tradendola con una pornostar bruttina.

La copertina della più recente edizione in commercio di Tommaso Landolfi, A caso, Adelphi 2018

Alla versione freudiana del “complesso di castrazione” diede un’iconografia indimenticabile per carica grottesca uno dei maggiori, e meno letti, scrittori italiani del Novecento, Tommaso Landolfi, in un racconto già pronto per una lettura teatrale, Osteria del numero venti, pubblicato in A caso, un libro Rizzoli che prese il Premio Strega nel 1975 (dove trovare un Landolfi candidato allo Strega, ormai da molti anni?). Osteria del numero venti è un dialogo tra due giovani innamorati che pianificano e concludono il loro primo rapporto sessuale, coincidente anche con la prima visione diretta del corpo nudo dell’altro sesso. La ragazza è insofferente al corteggiamento verbale maschile convenzionale per metafore alate e generiche (“le spalle: di neve, d’ambra e oro”, le gambe, “due fusi d’argento”, “Latte, perle, miele, coralli”) ed è decisa e priva di particolari inibizioni come ci si aspetterebbe, invece, da un uomo (“Attento, le tue immagini non legano”, “scoprimi piuttosto”); alla fine delle acrobazie linguistiche, la penetrazione sorprende dolorosamente il ragazzo e non la giovane: la ragazza è dotata di una vagina dentata vera e propria che, anziché renderla respingente agli occhi del suo amante, risulta per lui “il più prezioso dei tuoi vezzi”. Ribaltando gli effetti del complesso di castrazione con esiti irriverenti e irresistibili, Landolfi, da artista, indica anche una strada praticabile nel ribaltamento, serio e reale e sempre possibile, delle relazioni tra i generi se si annullano le convenzioni e si usa la lingua opportunamente.

Insomma, una donna è una donna perché nasce tale o perché sa e decide di diventarlo. Non saranno mai eventuali leggi e multe dello Stato a violare le ragioni del corpo, dello spirito e della grammatica. Il resto è “Genital panic”.

 

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877)

 

 

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