Per capire l’arte ci vuole una sedia

Nuovo cinema di poesia: Vermiglio. Dalla Mostra di Venezia

Recensione al film: Regia: Maura Delpero. Produzione: Cinedora, RAI Cinema, Charades Production, Versus Production. Italia-Francia-Belgio, 2024)

Per capire l’arte ci vuole una sedia

 

Una scena da Vermiglio. Fabrizio De Blasio©

Giovanni Segantini, Ritorno dal bosco, 1890, olio su tela, St. Moritz, Museo Segantini (la foto è stampata in controparte)

 

“Pasolini divideva il cinema in cinema di prosa e di poesia. Il cinema di prosa è un cinema dove la macchina da presa non si vede mai, non si nota. Viene soltanto raccontata la vicenda, i personaggi… Nel cinema di poesia, invece, la macchina da presa interviene molto, lo stile è molto appariscente e visibile. Pasolini diceva di sé stesso che faceva un cinema di prosa. Rimasi molto colpito da questo discorso, e quando cominciai a fare cinema capii che io, invece, stavo facendo un cinema di poesia. Nei miei film la macchina da presa si sente molto, ha un’importanza enorme, molta di più di quanto ne abbia la vicenda, che a volte si riduce a dei movimenti di macchina da presa”.

La “soggettiva libera indiretta (pretestuale)” teorizzata e praticata da Pasolini distingue il “cinema di poesia” da quello di prosa, e ha permesso a un maestro dal taglio registico personalissimo e riconoscibile come Dario Argento di dare una definizione del proprio cinema, al momento di fare bilanci (è il maestro del brivido l’autore della dichiarazione rilasciata a Francesco Locane, Dario Argento: lo sguardo imperfetto. Intervista inedita, settembre 2022, con cui apro questo articolo: https://francescolocane.com/2022/11/22/dario-argento-lo-sguardo-imperfetto-intervista-inedita/).

Nelle sale c’è ora un film, Vermiglio (Leone d’Argento a Venezia, che corre per entrare nella rosa dei candidati all’Oscar per il miglior film straniero) al quale si attaglia questa definizione di “cinema di poesia”: la regista Maura Delpero ha girato il suo secondo lungometraggio parlando già un proprio stile, facendo sentire moltissimo la macchina da presa e dandole un’importanza enorme, superiore alla trama, al suo svolgimento e ai dialoghi; raggiunge così un grado di lirismo pari a quello di una poetessa dalle parole misurate, senza strafare con enfasi. Delpero mimetizza molte inquadrature in soggettiva, indicando allo spettatore che sta percependo un momento del film dal punto di vista di un personaggio preciso.

Se l’immagine di apertura (una mungitura ravvicinata) e di chiusura (il letto padronale vuoto, appena rifatto) sono oggettive, fin da subito Delpero ci chiede di entrare in casa della famiglia Graziadei partecipando al rito silenzioso della colazione, al quale partecipiamo in soggettiva attraverso gli occhi dei figli che ricevono dalla madre (Adele/Roberta Rovelli) la stessa modestissima mestolata di latte caldo.

Cesare/Tommaso Ragno in Vermiglio. Fabrizio De Blasio©

 

Nelle soggettive proiettate dagli occhi di Flavia (Anna Thaler), la figlia minore prediletta dal padre perché più vocata agli studi, scopriamo gradualmente la personalità del pater familias che è autorevole maestro della scuola elementare e serale del villaggio: Cesare Graziadei è un Tommaso Ragno sempre più alto nel dimenticare sé stesso per spiegare un uomo durissimo, egoista, arido nel proprio modo di amare; uno che si chiude nel suo studiolo austero, prende una chiave nascosta sotto il tappeto ed entra in un mondo alternativo solo suo, fatto di tante sigarette, libri, album di foto pornografiche (che la figlia più disprezzata perché meno bella e acuta, Ada/Rachele Potrich, scoprirà in un cassetto) e rari dischi che si fa arrivare da Milano per avere come compagni Vivaldi e Chopin (che appassiona Cesare forse soprattutto per quella relazione tempestosa, che racconta alla figlia bambina, del musicista con una George Sand dallo “sguardo ardente come brace”: una passione che il pianoforte travolgente fa intendere a questo ligneo veglio della montagna che per tutta la vita di passione erotica leggerà solo nei libri). Due o tre dischi gli servono per sopravvivere nel microcosmo di Vermiglio, dove la guerra arriva solo indirettamente con un aggettivo ricorrente (“epistolare”) e con i disertori, e da dove Cesare non pensa di scappare neppure per un momento.

Per comprare i dischi questo maestro intransigente toglie, letteralmente, il pane di bocca alla sua famiglia, nonostante le proteste di una moglie precocemente incartapecorita dalla fame, dalle gravidanze ininterrotte e dai figli perduti.

Tommaso Ragno/Cesare Graziadei nel backstage di Vermiglio. Tommaso Ragno©

 

Soggettiva è anche, almeno un paio di volte, la veduta della classe scolastica dei bambini di varie età, vista dalla cattedra di Cesare mentre fa lezione. Come in Maternal (2019: il primo, convincente e commovente lungometraggio di Delpero, arrivato dopo una prima attività da documentarista), anche in Vermiglio la selezione dei bambini, paffuti, rubicondi e spesso in età prescolare, è attenta e indovinata. Senza il desiderio di fare apologhi, Maternal raccontava laicamente le sfaccettature di accettazione, aspirazione, rifiuto e rinuncia che può, che deve avere la maternità in mezzo alle sofferenze di certe vite.

Già allora Delpero mostrava una certa sapienza nella selezione degli attori grandi e piccini: resta indimenticabile la trotterellante Nina/Isabella Cilia, così come intelligente fu la scelta della protagonista Lidyia Liberman, dolente, intensa e generosa giovane monacanda tormentata dai dubbi, che era già stata monaca posseduta dal dubbio, o dal demonio, per Marco Bellocchio nel secentesco Sangue del mio sangue (2015).

Nina/Isabella Cilia e suor Paola/Lidyia Liberman in Maternal. Regia: Maura Delpero. Produzione: dispàrte, Vivo Film con Rai Cinema, Campo Cine (Italia-Argentina, 2019)

 

Ma come Maternal non è un film sull’infanzia, anche Vermiglio non lo è. Vermiglio è una storia che racconta dei fallimenti e degli sforzi di varie generazioni di donne che, se escono dalla tradizionale sottomissione agli uomini che le governano tra letto e cucina, sono costrette a essere le pazze del paese (come Virginia, un’ottima Carlotta Gamba, di cui si invaghisce Ada Graziadei/Rachele Potrich) o ad emigrare a Milano per fare le serve in casa di estranei (è il caso di Lucia/Martina Scirinzi), esattamente come erano serve in casa dei genitori, senza speranza perché senza istruzione e, dunque, futura autonomia economica.

Anche se è ambientato durante l’ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale, Vermiglio vibra infatti della storia delle donne fino a oggi. Il tema della libertà femminile che passa attraverso l’istruzione e il lavoro, non attraverso la maternità e il matrimonio che ancora oggi sono spesso ostacoli per le donne, sembra al centro della riflessione di una regista che, con grazia e decisione, ha sollecitato l’attenzione collettiva nel suo discorso di accettazione del Leone d’argento a Venezia. Nel film è la bambina più istruita, Flavia, che tocca questa corda: “Gli uomini possono sposarsi e anche lavorare”.

Giovanni Segantini, La Morte, 1898-1899, olio su tela, 190×320 cm, St. Moritz, Museo Segantini

 

Backstage di Vermiglio. Tommaso Ragno©

 

A casa Graziadei c’è Adele, la moglie del maestro, che serve solo a mandare avanti l’economia familiare e a rimpiazzare ogni figlio morto (l’ultimo curato in extremis da una “strangulina” , cioè difterite, con un cavolo schiacciato sulla testolina con l’ausilio bende di lino). C’è Lucia dagli occhi azzurri, la figlia maggiore che avrebbe dovuto sposare un ragazzo poi morto in guerra e che la madre avrebbe preferito fare studiare, ma che il padre vuole radicata sulla montagna come se fosse un’altra delle bestie che tiene nella stalla: Lucia sarebbe simile a lui, che da giovane era “come un camoscio”.

C’è Dino (Patrick Gardener), la pecora nera, poco sveglio, aggressivo-passivo, che il padre boccia a fine anno, destinandolo a lavorare nei campi, dove non serve un diploma. C’è Ada, la figlia poco bella e poco brava a scuola ma che vorrebbe migliorare, di continuo torturata da fanatismi religiosi e sensi di colpa mentre scopre la sessualità senza sapere cos’è e alla quale il padre-maestro consegna una pagella mediocre, umiliandola e condannando pure lei davanti a tutta la classe: “La scuola è un grande insegnamento, perché ci insegna i nostri limiti. La tua carriera scolastica finisce qui”. Ada vivrà ancora per qualche tempo nelle tribolazioni dell’inadeguatezza e della mediocrità che le è stata cucita addosso, arrivando a stigmatizzarsi come una nullità: “Io sono così, non ho nulla di speciale”, ma saprà svincolarsi dal padre padrone che la vorrebbe in cucina come sua madre e saprà perseguire il sincero desiderio di istruirsi e di guadagnare autostima scegliendo l’unica strada possibile all’epoca per una ragazza povera: prenderà i voti (cercate bene: stanno in molte famiglie storie simili, di figlie monacatesi di propria volontà per sfuggire a sorti peggiori e alla povertà, e di figlie sottratte alla scuola e tenute nei campi per crescere gli altri fratelli considerati più dotati).

Così Ada in convento finisce comunque per accudire la nipotina Antonia (come in Maternal suor Paola accudiva una bambina non sua) che la sorella Lucia, uscita da una depressione da sindrome da stress post traumatico (dopo la morte del marito Pietro, un convincente, sommesso Giuseppe De Domenico), dovrà abbandonare per andare a guadagnarsi da vivere a servizio nelle case dei ricchi a Milano.

C’è Flavia, l’unica Graziadei autorizzata dal padre a continuare gli studi in collegio dalle suore: alla bambina tocca compitare ad alta voce dal giornale la notizia del delitto d’onore, commesso dalla prima moglie di Pietro (interpretata in un cameo da Sara Serraiocco), che getta vergogna sulla famiglia e sottrae autorevolezza e dignità a Cesare presso la comunità di Vermiglio.

Ogni inquadratura di Vermiglio nutre lo spettatore di una poeticità intrinseca alle immagini ordite col direttore della fotografia Michail Kričman (che ha lavorato per The Return di Andrey Zvyagintsev, Leone d’oro a Venezia nel 2003, e per La signorina Giulia di Liv Ullmann nel 2014). Delpero arriva a creare questo tipo di cinema dopo averne studiato la storia negli anni dell’università e aver appreso a fare regia e drammaturgia, cercandosi una lingua espressiva. Vermiglio è un film ben confezionato, che ha punte adatte a un contesto internazionale da Oscar (Lucia in piedi sull’orlo dell’abisso montano incerta sulla morte mi ha ricordato un altro film premiato a un festival importante, The Mission, Palma d’oro a Cannes 1986, la cui sequenza di apertura culminava in una figura umana che andava a morire sulle rapide).

Immagine dal set di Vermiglio. Nasiba Gashimova©

 

Giacomo Ceruti detto Il Pitocchetto, Portarolo seduto con cesta a tracolla, uova e pollame, 1735 ca., olio su tela, 130 x 95 cm, Milano, Pinacoteca di Brera, inv. 5650

 

Vermiglio è un’opera visivamente colta senza diventare pedante, così studiata in ogni dettaglio che anche le immagini di backstage scattate dai fotografi di scena e dal protagonista Ragno sembrano intrise di echi della pittura di realismo sociale del Settecento e dell’Ottocento.

Un bambino attore non professionista fermato da uno scatto di Nasiba Gashimova sul set in Val di Sole sembra atteggiato in un’iconografia simile a quella del bambino bresciano del pittore dei poveri, Giacomo Ceruti (in un ritratto appartenuto a Giovanni Testori e da lui donato a Brera), in un controcanto appropriato.

Gustave Caillebotte, I piallatori di parquet, 1875, 102×146,5 cm, olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, inv. RF 2718

 

Backstage di Vermiglio. Tommaso Ragno©

 

Anche gli interni destinati ad accogliere i ‘paesani’ possono essere catturati come in un quadro di storia sociale di Caillebotte.

Ogni momento di Vermiglio ambisce all’inquadratura perfetta: la fotografia del direttore Kričman dialoga paritariamente con la regia di Delpero. Le immagini degli interni domestici, nella stalla, in esterni, ricordano spesso quasi filologicamente (anche per soffusa calda luminosità che nemmeno la neve riesce a raffreddare) i grandi quadri di Giovanni Segantini da Arco, il più celebre pittore italiano in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, la cui morte D’Annunzio pianse invocando “l’implorazione dei monti, voci del regno alto e santo, dolor selvaggio dei vènti combattuti, profondo pianto delle sorgenti pure”, la “laude impetuosa dei torrenti” e di ogni altro elemento in cielo e in terra delle montagne del Maloja di cui Segantini fu cantore al punto da morire in cima a esse mentre dipingeva un trittico sulla vita e sulla morte.

Giovanni Segantini, L’amore alle fonti della vita, 1896, olio su tela, 70 x 98 cm, Milano, GAM, inv. 7597

 

La stessa regista ha dichiarato di essersi ispirata a Segantini (si legge qua: https://www.iltquotidiano.it/articoli/vermiglio-il-paese-dellanima-la-recensione-del-lungometraggio-di-maura-delpero/) e che operano in lei riferimenti pittorici, letterari, fotografici piuttosto che cinematografici (in un’intervista al TG3 del 2 settembre da Venezia).

Maura Delpero con Flavia/ Anna Thaler sul set di Vermiglio. Tommaso Ragno©

 

Provo a fare qualche esempio dopo avere visto il film una volta sola. Il maestro e i suoi scolari si recano a scuola nella neve come in Ritorno dal bosco e in La morte; Lucia e Pietro si innamorano stretti in una luce divisionista dagli effetti simbolisti come in L’amore alle fonti della vita; le donne sono madri, buone e cattive, nei letti, nelle stalle, nei paesaggi nemici, come in Le due madri, Le cattive madri, L’angelo della vita. Come in certi quadri del realismo sociale dell’Ottocento, gli uomini si incontrano nei loro ritrovi grigi, marroni e bianchi, stando insieme con poco, leggendo un giornale (Cesare) e giocando a carte (lo fanno i suoi coetanei e i più anziani che, fino a che il maestro sarà rispettato da tutto il paese, saranno anche suoi studenti per non restare analfabeti e dialettofoni).

Giovanni Segantini, Le due madri, 1889, Milano, GAM

 

Giovanni Segantini, Le cattive madri, 1894, olio su tela 120×225 cm, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere

 

Giovanni Segantini, L’angelo della vita, 1894, olio su tela e tracce di oro in polvere, cm 276 × 217, firmato e datato sul tronco dell’albero, Milano, GAM, inv. 1592

 

Molte recensioni di Vermiglio insistono nel richiamare la regia di Delpero a fonti che, di volta in volta, si individuano in Ermanno Olmi, nei fratelli Taviani, in Michael Haneke e nel suo rigore cristallino. Ai miei occhi la storia è più complessa di così. Solo Delpero potrebbe dire se, inconsciamente o no, in lei è sedimentata una lingua che comincia a essere riconoscibile in questo moderno incrocio tra un La terra trema di montagna e un giovane Novecento a passo ridotto, con l’epica domestica durante la guerra, un patriarca, i figli dotati e quelli inetti, i ‘paisani’, il dialetto come stigma o come segno identitario inevitabile, gli attori non professionisti e i grandi attori, perfino un’inquadratura con tre figure a letto (Ada, Lucia e Flavia) di cui una, al centro, malata (in Novecento al centro di un letto tra il ‘paisano’ Depardieu e il signorino De Niro, c’era Stefania Casini epilettica).

Pietro/Giuseppe De Domenico, Lucia/Martina Scirinzi, Cesare/Tommaso Ragno e Dino/ Patrick Gardener in Vermiglio. Tommaso Ragno©

 

In questo personalissimo Novecento a passo ridotto, se c’è un’ideologia femminista corrisponde forse (con giusta semplicità) nel riconoscimento alle donne della possibilità di fare ciò che vogliono. Della loro sorte decide il pater familias di montagna, impartendo ordini in italiano regionale e lezioni scolastiche in italiano da un volto da statua lignea intagliata per una Passione da Sacro Monte. Questo padre padrone che non pratica violenze verbali e fisiche occasionali ma solo a lungo termine, è una seconda prova, in questo genere di ruolo, per un imponente Tommaso Ragno. Con la sua faccia di padre padrone pastore e capoclan, scavata dal sole violento di Capitanata, si apriva Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa (del film ho scritto il 12 ottobre 2022: https://beemagazine.it/laristocrazia-della-recitazione-e-una-squisita-mistione-di-scorsese-pasolini-scianna-e-caravaggio-ti-mangio-il-cuore-una-recensione-non-professionale/).

In Vermiglio Ragno un pater familias che decide della sorte dei suoi figli impartendo ordini in italiano regionale, ingabbia in un’esposizione disciplinata la sua fisionomia fulminante da Albert Dieudonné, scalfita e invecchiata artificialmente da un occhio opaco da cataratta (solo a me viene in mente, di nuovo, che Ragno ha un corpo di scena simile a quello del protagonista che reggeva i 333 minuti del mitologico muto Napoléon di Abel Gance?).

Questa sua faccia non è al servizio inerte della regista e del direttore della fotografia: Ragno scarnifica, quarto d’ora dopo quarto d’ora, i solchi coriacei del suo volto, che recita sempre anche quando è immobile, fino al dissolvimento finale di una personalità prima mai scossa nel profondo neppure dalla morte di un figlio. Il fosco maestro di Vermiglio sa di avere un’anima solo insegnando ai suoi scolari figli di ‘paesani’ come leggere le note delle Quattro stagioni di Vivaldi, suonandole dal suo grammofono in classe e sostenuto dalla recita a memoria della prima quartina del sonetto “Sotto dura staggion dal sole accesa / langue l’uom, langue ‘l gregge, ed arde il pino, / scioglie il cucco la voce, e tosto intesa / canta la tortorella e ‘l gardelino”.

Grazie al lampo di vita poetica trasmesso da questo torvo maestro che, di fatto, vive solo di note e di parole, riascolto dopo anni come una musica nuova l’arco scatenato di Gidon Kremer nell’Estate diretta da Claudio Abbado mentre scrivo queste righe.

Cesare/Tommaso Ragno in Vermiglio. Fabrizio De Blasio©

 

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Accademica dell’Arcadia

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