Figlia: “Che faremo il tempo che ci vuole a Parigi?”.
Padre: “Beh, andiamo al cinema”.
Se Il tempo che ci vuole fosse un libro, questo dittico di battute sarebbe il suo esergo. Nel film di Francesca Comencini segna la cesura tra primo tempo e secondo tempo di un racconto di formazione autobiografico.
Al centro della trama del film c’è un rapporto tra padre (Fabrizio Gifuni) e figlia (Anna Mangiocavallo e Romana Maggiora Vergano), simbiotico durante l’infanzia e guastato dall’adolescenza, riassunto per sottrazione narrativa fino ad assumere i connotati di una fiaba: il padre e la figlia sono sempre da soli in casa, dove gli altri membri della famiglia non vengono mai nominati né si vedono (solo un nuovo nato viene mostrato nella casa della vita, ma a resurrezione compiuta, nell’ultimo capitolo). Del padre sappiamo il nome di battesimo, “Luigi”, perché il suo aiuto regista lo chiama così sul set; della figlia non sappiamo neanche quello: il direttore della fotografia, spazientito, le urla dietro “la regazzina”; quando il padre si presenta a scuola come “il padre di…”, non completa la frase col nome della figlia. Questa scelta rafforza l’evidente ambizione di presentare le due figure, il padre e la figlia, come archetipi.
La trama è semplice ma non coincide solo con l’autobiografia esplicita dell’infanzia e della gioventù di Francesca Comencini, come vedremo. C’è Luigi, padre regista di film popolari (Comencini/Gifuni ripete diverse volte di avere realizzato cinema “popolare” “troppo buono e gentile”). Senza impartire lezioni, il padre addestra con la pratica la figlia bambina al mestiere del cinema, rendendola partecipe di ogni aspetto dell’ideazione e confezione di un film, a partire dagli spunti per il pesce-cane, con la carcassa di balena esposta da un circo in piazza Navona e le illustrazioni storiche del Pinocchio di Collodi: in particolare, la tavola con le fauci rosse e bianche del pesce-cane nel libro, sfogliato insieme da padre e figlia, è un leit motiv visibile in un effetto speciale semplice e ricorrente, che culmina nell’incontro della protagonista, cresciuta, con un giovane eroinomane che evoca il giornalista Carlo Rivolta (l’amore di Francesca raccontato nel suo primo film, Pianoforte); in questa occasione, l’aggiunta di un dolly vertiginoso in verticale trasforma l’ellisse di piazza Navona in quell’antro del pesce-cane che aveva spaventato la bambina, ora divorandola ragazza nelle fauci della tossicodipendenza.
Poi vengono il burattino semovente montato in casa su un carrello e la coabitazione sul fantastico, polveroso, rumoroso set di massa del Pinocchio televisivo. Su questo set la bambina impara che viene “prima la vita, poi il cinema” (questo monito sarebbe dovuto coincidere col titolo del film, che così venne annunciato l’anno scorso in questo periodo, quando iniziarono le riprese). Comencini/Gifuni conclude così una tirata contro Cesare (Daniele Monterosi), l’aiuto regista che si è rivolto in malo modo agli abitanti della strada di paese che, con la loro curiosità, ritardano il primo ciak: “Siamo noi che dobbiamo chiedere il permesso a loro, perché li stiamo invadendo. Sono le loro case. Siamo noi che stiamo invadendo le loro vite. Prima la vita e poi il cinema!”.
Il regista di Incompreso educa la figlia a sentirsi uguale agli uomini anche giocando su stereotipi di genere, ma senza anticiparle che, quando andrà nel mondo, saranno proprio gli uomini a disprezzarla in quanto donna. Comencini esaminò quasi da entomologo le sfaccettature dell’ideologia protofemminista quando fu regista di un documentario a puntate RAI girato mentre la legge sul divorzio e quella sull’aborto arrivavano per dare dignità alle donne.
La prima puntata di L’amore in Italia, intitolata La donna è mia e ne faccio quel che mi pare, potrebbe essere girata di nuovo oggi, con varianti adiafore minime: c’è il pittore che paga sottomesse donne occidentali e orientali sul mercato di Amsterdam perché le donne italiane libere, colte e indipendenti minacciano la virilità degli uomini; ci sono i mariti siciliani che vorrebbero le mogli sempre incinte per tenerle a casa mentre loro escono a tradirle, ma le mogli siciliane sono al passo con la realtà e giustificano la pillola e l’aborto (che invece lascia perplesso Comencini fuori campo).
In Il tempo che ci vuole serpeggia il maschilismo che Comencini, uomo dei suoi tempi pur se illuminato, applicò forse anche al rapporto con la figlia fragilissima; lei gli rinfaccia di peccare di farisaismo; lui, sulla soglia del suo studio foderato di libri antichi e moderni e di dischi di musica sinfonica romantica, le chiarisce quanto lei sia “una creatura altamente influenzabile” recitandole a mo’ di apologo alcuni dialoghi dal racconto Due o tre Grazie di Aldous Huxley, in cui una ragazza ogni volta che incontra un nuovo uomo si mette a imparare ciò che fa lui, squittendo a favore dell’ultimo, un poeta: “ se non scrivo poesie tutte le mattine non capisco più niente”.
Proprio la parodia dei dialoghi del racconto di Huxley coincide con una delle punte di bravura di Gifuni nel film. Un’altra sta nella risposta al Gatto che si lamenta del caldo che si patisce sul set di Pinocchio: “Hai perfettamente ragione; però, d’altra parte, è il mestiere dell’attore, eh? Io non faccio l’attore per questo” (chi conosce la professionalità di Gifuni sa che questa battuta gli si adatta anche per sublime autoironia, perché è detta da un attore che ha un’estrema capacità di calarsi nei personaggi e, di conseguenza, nel clima dei set teatrali e cinematografici in qualunque condizione e con tutto il corpo). Un’altra autocitazione (se non lo è, mi si passi la licenza ermeneutica) sembra la chiosa di Comencini/Gifuni all’autoanamnesi del proprio senso di fallimento e inadeguatezza, conclusa intonando a memoria Samuel Beckett con uno degli aforismi preferiti di Fabrizio Gifuni e di altri grandi artisti del teatro internazionale:
“Sempre tentato. Sempre fallito. Non importa. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio”.
È il turno dell’episodio da fiaba nella fiaba di Comencini bambino a Parigi. Comencini/Gifuni racconta la sua agnizione per il cinema che fu salvezza e gli cambiò la vita: il ragazzino triste emigrato in Francia al seguito del padre ingegnere un giorno entra in un cinema per caso e viene sconvolto dalla sensuale regina Atlantis/Brigitte Helm del film L’Atlantide (Die Herrin von Atlantis, 1932) di Georg Wilhelm Pabst. La “ragazza magra dai lunghi occhi verdi, dal piccolo profilo di sparviero” (così la effigia Pierre Benoît nel romanzo L’Atlantide da cui è tratto il film di Pabst, che la fa impersonare dalla stessa attrice che in Metropolis di Fritz Lang strega gli uomini) come una “dea scesa dall’Olimpo” irretì a tal punto il giovanissimo Comencini da indicargli una via di fuga da una vita insoddisfacente.
Avendo provato sulla propria pelle l’effetto del cinema sulla genesi di una vocazione che strappa da fasi difficili, il padre indica alla figlia l’immaginazione che è la miccia del cinema come unica terapia a lui nota e priva di effetti collaterali per trovare una propria identità, qualunque essa sia, e per cementare per sempre un rapporto, oltre la morte. Appare questo il messaggio più riuscito del film, nel quale due generazioni diverse sono unite da una lingua universale, come davvero accade nella vita reale e come ogni appassionato di cinema, teatro, arti visive e letteratura può sperimentare di continuo, individuando propri simili attraverso la coltivazione di passioni comuni.
Suggerisco a chi non è ancora un cinefilo di guardare anche in questa chiave il film che, fuori concorso, al Festival di Venezia ha commosso e complessivamente convinto.
Se per i cinefili, infatti, il ruolo del cinema come elemento formativo nella vita e il gioco di attribuire gli spezzoni dei film muti e sonori montati di continuo tra una scena e l’altra di Il tempo che ci vuole potrà essere logico e quasi scontato, per chi cinefilo non è Il tempo che ci vuole potrà avvicinare al cinema classico gli spettatori curiosi, che avranno voglia di ricomporre per intero l’antologia proposta dalla regista sulla scorta delle predilezioni paterne.
Vale la pena ricordare che Il tempo che ci vuole è un altro dei bei film attualmente nelle sale coprodotti da Marco Bellocchio e montati da Francesca Calvelli (in questa rubrica ho recensito La vita accanto: https://beemagazine.it/marias-baby-via-dal-miserabile-bosco-di-spine/); questo film si giova anche della fotografia spesso soffusa, calda e morbida di Luca Bigazzi e delle interpretazioni: quella di Fabrizio Gifuni (da pochi giorni impegnato nei panni di Enzo Tortora diretto da Bellocchio sul set di Portobello), anche stavolta superbo nel lavorare per sottrazione, senza virtuosismi soverchi alla resa di un personaggio storicamente riconoscibile di cui sa riprodurre le espressioni e la fisicità senza imitarlo leziosamente, con rigore assoluto esercitato sul proprio corpo e sulla propria voce, piegati progressivamente dall’età, dal Parkinson e dalla sofferenza interiore; e quella di Romana Maggiora Vergano, una conferma in crescita, per intensità e coinvolgimento, nel panorama attoriale giovane italiano, nel ruolo impegnativo della figlia di un artista che non vuole e non sa dire a sé stessa che inevitabilmente non potrà che essere tale pure lei, pur se con stile e mezzi diversi. Rispetto ad altri film degli anni Duemila che alla scoperta del cinema da parte di giovani protagonisti legano loro attitudini decisive da adulti, Il tempo che ci vuole è più “comencinianamente” popolare, didascalico e non eccessivamente allusivo: anche opere come The Dreamers di Bernardo Bertolucci e The Fabelmans di Steven Spielberg costruivano il romanzo di formazione di giovani all’interno delle loro famiglie attorno alla rivelazione del cinema visto in sala anche con l’inserzione, nel montaggio di The Dreamers, di citazioni di spezzoni di film classici che sollecitavano lo spettatore cinefilo all’attribuzione dei titoli e all’identificazione, fin dove possibile, con i protagonisti degli stessi antichi film.
Il Luigi Comencini di questa biografia per due voci è esclusivamente un padre e un cinefilo, le cui ultime parole prima di lasciare, letteralmente, questa terra sono riservate al cinema: “è troppo bello, troppo bello”, sussurra piangendo, dopo avere rivisto in albergo a Napoli Paisà di Rossellini e lasciando alla figlia una sentenza colma di meraviglia infantile: “Perché il cinema è così: ti mostra quello che trova”, come una biglia nella spazzatura, come dei gioielli in un cofanetto.
In un film che comincia grosso modo all’altezza della strage di Piazza Fontana, passa per il rapimento di Moro e finisce nel 1991 sul set napoletano di Marcellino pane e vino, il Comencini impegnato si intravede soltanto: il Comencini della prima parte di Il tempo che ci vuole è l’autore di documentari su un’Italia che cambia e che pure conserva le disparità tra Nord e Sud, tra uomini e donne, che oggi ricominciano a farsi sentire in tutta la loro ferocia sociale; ma ne intuiamo le coordinate quando il padre esprime il suo parere sulla violenza degli anni di piombo, quando insegna alla figlia bambina che le ingiustizie contro i più deboli vanno denunciate e che donne e uomini possono fare le stesse cose.
Il Comencini del film è quello che nel 1970, praticamente all’altezza di Le avventure di Pinocchio (trasmesso nel 1972), termina un intenso documentario a puntate girato in mezza Italia per la RAI: I bambini e noi (disponibile su RAI play: https://www.raiplay.it/programmi/ibambinienoi) è a tratti durissimo come nell’episodio 5. Papà lavora, che comincia a Monte Sant’Angelo, terra di bambini, donne e pochi anziani a causa dell’emigrazione degli uomini al Nord e in Germania. In ognuna di queste inchieste, Comencini è rispettoso, curioso ma mai inquisitore, e ogni suo dialogo col mondo degli adulti che decidono la vita dei bambini sta dietro alle poche battute in cui in Il tempo che ci vuole colui che fu ribattezzato da molti il “regista dei bambini” (fin da Bambini in città) risponde alla maestra della scuola francese frequentata dalla figlia perché apprenda la lingua che egli stesso imparò da piccolo: “Io credo ai bambini, e ci deve credere anche lei!”. Comencini/Gifuni rivolgerà direttamente alla stessa bambina, una volta adulta e tossicodipendente, un’affermazione simile e drammatica di fronte al dubbio che menta sulla dipendenza: “Io ti credo, ti ho sempre creduto, mi fido di te”. “Voglio continuare a credere alle parole che mi hai detto come ho sempre fatto”.
Il tempo che ci vuole è, ai miei occhi, soprattutto un film sul cinema che può insegnare facilmente qualcosa al pubblico meno esperto ma curioso anche perché esibisce di continuo con affabilità le conoscenze tecniche apprese sul campo da Francesca Comencini.
In una sorta di Effetto notte a passo infantile, si vede, per esempio, ogni aspetto del marasma che si vive su set affollati come quello di Le avventure di Pinocchio, tra cavalli, comparse, attrezzisti, luci, e la neve e il freddo finti: “il protagonista è freddo e povertà”, spiega Comencini/Gifuni al Gatto/Luca Massaro (che a sua volta interpreta Franco Franchi) e alla Volpe/Giuseppe Lo Piccolo (che a sua volta interpreta Ciccio Ingrassia) indocili, che si contendono una sigaretta anziché stare al trucco e poi recitare.
Si apprende cos’è la “luce a cavallo” che il direttore della fotografia di Pinocchio, Armando Nannuzzi, si affanna a rincorrere, tra i ritardi delle maestranze e delle comparse umane e animali: la coglie, con uno scatto davvero metacinematografico, la sensibilissima fotografa Francesca Lucidi, autrice degli scatti sul set romano e di un luminoso portfolio sul set ricostruito di Pinocchio pubblicato su “Rolling Stone” (https://www.rollingstone.it/cinema-tv/film/il-tempo-che-ci-vuole-sul-set-del-nuovo-film-di-francesca-comencini/942133/).
La scena diventa l’occasione per illustrare per immagini cosa significa questa espressione tecnica: la “luce a cavallo” è quella diffusa e calda perché, appunto, “cavalca” tra giorno e notte, e che il direttore della fotografia, o un fotografo, possono trattenere poco dopo l’alba e poco prima del tramonto. In Il tempo che ci vuole la “luce a cavallo” incarna anche uno dei tanti espedienti fiabeschi con cui, per metonimia, la regista spiega al pubblico, con la lingua che conosce meglio, la chiave profonda della sua relazione col padre, che cavalca verso di lei per donarle una sfera di luce che “è finta, è un’illusione”, quasi anticipando quel ruolo di guida, nel buio passeggero, che Luigi Comencini ha davvero rappresentato per Francesca diversi anni dopo.
Che Il tempo che ci vuole vada anche letto come un atto d’amore per il cinema salvato e curato da Luigi Comencini, che con il cinema a sua volta ha salvato e curato la figlia Francesca, lo conferma la didascalia nei titoli di coda: “Tutti i film muti presenti nel film sono stati salvati dal macero da Luigi Comencini e fanno parte del fondo che ha dato vita alla Cineteca di Milano”. Insieme ad Alberto Lattuada, Comencini raccolse i film muti che i cinema di quartiere e le sale parrocchiali avrebbero distrutto. L’elenco dei “Repertori video” montati nel film è dichiarato poco dopo: oltre ai già citati Die Herrin von Atlantis (1932) di Pabst e Paisà (1946) di Rossellini, ci sono La ruche merveilleuse di Gaston Velle (1905, che scorre sui titoli di coda), Ladri di gioielli mistificati (1906, citato dopo la commozione per Paisà), L’Ecrin du Radjah di Gaston Velle (1906, che scorre sui titoli di coda), Satan fait la noce di Louis Feuillade (1907, che fa da sfondo porpora sulfureo alla seconda parte dei titoli di coda), Pinocchio di Giulio Antamoro (1911, frequente contrappunto, con Pinocchio e Lucignolo trasformati in ciuchini), Dagli Appennini alle Ande di Umberto Paradisi (1916, che apre e chiude il film), e anche Entr’acte di René Clair(1924) e L’enfance nue di Maurice Pialat (1969).
Con una delle pellicole mute salvate da Comencini si avvia a conclusione il film, del resto. Padre e figlia volano in cielo, stringendosi e conciliandosi senza parlare, come in Volo sopra la città di Marc Chagall o in Miracolo a Milano (sullo sfondo intanto passa il can-can in bianco e nero del film che ha cambiato la vita a Luigi Comencini, L’Atlantide); la morte di Comencini arriva qua, come in una fiaba: il regista sfugge all’abbraccio della figlia, ormai adulta, madre e regista a sua volta, per essere inghiottito dal pesce-cane/balena di cui la bambina aveva avuto paura durante la progettazione di Pinocchio. Immediatamente dopo, il film termina con la stessa immagine con cui è cominciato: un bambino si sveglia da solo sul limitare di uno stagno. Si tratta di due fotogrammi con Ermanno Roveri dall’ottavo episodio di Dagli Appennini alle Ande di Paradisi, tratto da Cuore di Edmondo De Amicis, da cui nel 1984 Luigi Comencini avrebbe tratto uno sceneggiato televisivo.
Il tempo che ci vuole, insomma, sancisce compiutamente la staffetta tra padre e figlia nel mestiere del cinema e nell’impresa della vita in una famiglia di artisti. E, a proposito di staffette nelle famiglie di artisti in cui le figlie lavorano per la propria autonoma lingua espressiva, in Il tempo che ci vuole ha esordito lo sguardo fotografico della figlia maggiore del protagonista Fabrizio Gifuni, Valeria: le immagini vibranti dal set parigino del film sono proprio quelle, notturne, scattate da Valeria Gifuni (che, oltre alle immagini ufficiali a colori, permette di pubblicare anche gli scatti inediti in bianco e nero che illustrano questo articolo).
All’obiettivo analogico e digitale Valeria Gifuni sta da tempo affidando una lettura dei suoi studi di volti ai quali chiede storie silenziose, tessendo con luce naturale in interni ed esterni e semplici oggetti di scena ritratti di attrici come sua madre, Sonia Bergamasco, studiata e ricomposta come una diva velata del teatro del secolo scorso, sua sorella, Maria Gifuni, guardata come una Vergine annunciata quattrocentesca in bianco e nero con tocchi astrattisti, e Romana Maggiora Vergano, in posa come una delle allegorie da stanza del Realismo magico, o colta come in un fotogramma da un corto notturno di Chantal Akerman (si vedano in questo articolo gli ultimi due ritratti scattati a Vergano).
Nei paesaggi di cinema e teatro, ideati spesso per serie di sperimentali rielaborazioni di iconografie che risentono anche della storia della fotografia e dell’arte, questa nuova autrice rivela un già sensibilissimo senso dello spazio nel quale convenzionali strutture architettoniche in esterni possono richiamare improvvisamente l’ardimento di una prospettiva à la Caillebotte (siamo a Parigi, del resto: si veda la prima immagine di apertura di questo articolo).
Fotografa di poesia nata da una semenza fertile affine a quella messa a frutto da Comencini nel suo film, anche Valeria Gifuni è in sicuro cammino verso una sua estensione artistica riconoscibile, col tempo che ci vuole.
Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Accademica dell’Arcadia