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La lingua di un senatore toscano della Lega

Carneade, chi era costui? Possiamo domandarci anche noi chi sia il senatore della Lega Manfredi Potenti. Tutt’altro che un Carneade, è uno stakanovista come pochi altri. Il guaio è che anche lui è vittima della battuta dei parlamentari di una volta. Indulgendo allo scetticismo, solevano affermare: “Se vuoi conservare un segreto, dillo a Montecitorio e a palazzo Madama”.

Deputato nella passata legislatura, è stato eletto a Palazzo Madama in questa. E basta scorrere la sua attività parlamentare per concludere senza tema di smentita che il Nostro ha un senso del dovere di stampo prussiano d’altri tempi. Mai che si tiri indietro. Mai che si dia alla latitanza, come capita a non pochi suoi colleghi. Elettivi o a vita che siano. Per nessuna ragione al mondo marcherebbe visita. E non se ne sta certo a riscaldare il seggio. Mai e poi mai. Un moto perpetuo, sempre in prima fila – a dispetto di un anonimato che grida vendetta – a dire la sua.

Ha presentato la bellezza di diciassette disegni di legge. E c’è chi sostiene a ragione o a torto, come si dirà tra poco, che il numero 17 porta iella. Su argomenti tra i più diversi. Infatti spaziano dall’ambiente alla sicurezza negli ospedali, dalle persone scomparse ai ratei di pensione, dall’istituzione del museo degli attori e dei registi di Castiglioncello al teatro Goldoni di Livorno, dalla decorrenza del termine della prescrizione al riconoscimento del cane di assistenza. Fino alla diciassettesima iniziativa legislativa che gli è stata fatale: che per l’appunto ha per titolo “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere”.

Intendiamoci, queste iniziative legislative non hanno la benché minima probabilità di diventare leggi. Non solo perché i parlamentari hanno sì e no un dieci per cento di possibilità di tagliare il traguardo. E poi perché dovranno essere iscritte all’ordine del giorno prima delle commissioni permanenti e quindi dell’assemblea. E i capigruppo ovviamente si spenderanno solo per le proposte di legge di maggiore impatto sull’opinione pubblica. Tutte le altre decadranno con la fine della legislatura e saranno eventualmente ripresentate da chi verrà riconfermato alla Camera o al Senato. Tuttavia, tutto questo lavorìo non è fatica sprecata. Perché sono la testimonianza dell’attività parlamentare dei titolari dei disegni di legge.

Del resto, Potenti ha fatto molto di più. È intervento un considerevole numero di volte su disegni di legge, su alcuni dei quali è stato relatore. Ha presentato un’infinità di interrogazioni e di interpellanze e, come cofirmatario, una decina di mozioni. E ha proposto l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul disastro della “Moby Prince”.  Come senatore, Potenti (nomen omen) è oberato d’incarichi: vicepresidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, componente – lui che è avvocato – delle commissioni Giustizia e Ambiente, del comitato per i giudizi di accusa e di molto altro ancora. Altro che un Carneade! Piuttosto un uomo con l’argento vivo addosso. Un ipertiroideo (suppongo) che sprizza vitalità da tutti i pori. Un personaggio appagato dalla propria attività. Insomma – beato lui! – felice di esistere.

Ma, ironia del destino, il quarto d’ora di celebrità non l’ha avuto per le sue indubbie benemerenze delle quali si è detto. L’ha avuto, invece, quando ha fatto la pipì fuori dal vasetto. Nella convinzione di aver agito per il meglio. Ma sì, a fin di bene. Potenti è un toscano di Cecina residente a Rosignano Marittimo. E i toscani, maledetti o benedetti che siano, sull’idioma nazionale non transigono. Non per niente si ritengono discendenti da Padre Dante. Ed è per l’appunto l’amore per la lingua italiana che lo ha tradito. Così, senza pensarci su due volte, l’11 luglio scorso presenta un disegno di legge annunciato in assemblea cinque giorni dopo e ritirato (o, per meglio dire, fatto ritirare dal suo partito al quale è iscritto dal lontano 1992) il 22 luglio. Dopo che la stampa ne aveva dato notizia con un certo rilievo.

Il titolo, come già detto, era: “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere”. Se le intenzioni erano lodevoli, il risultato è stato catastrofico. Il testo proibiva l’uso del femminile per i nomi di professioni come “ministra”, “sindaca”, “assessora”, “avvocata”, “rettrice” e via dicendo. In tutti gli atti e documenti pubblici. E prevedeva per i trasgressori una contravvenzione da mille a cinquemila euro. Francamente un’enormità, come lo stesso Potenti ha riconosciuto dopo il ritiro del testo. Un’iniziativa, nelle intenzioni del proponente, volta a “preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi ‘simbolici’ di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo”.

Una sfida, la sua, allo stucchevole politicamente corretto. Però mal gliene incolse. Perché si è messo contro tutti. Contro le femministe, che hanno strepitato come oche del Campidoglio. Contro le cultrici della lingua, che con autorità e competenza hanno demolito l’iniziativa legislativa. Contro le opposizioni, che non perdono occasione per saltare addosso alla maggioranza. E soprattutto contro la stessa Lega. Secondo la quale “Il disegno di legge è un’iniziativa personale, non condivisa e che non rispecchia la linea del partito”. Del resto, il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, aveva già in passato bloccato un’iniziativa simile di Possenti.

Il torto del Nostro è di aver sorvolato sul fatto che i nomi dei titolari di cariche pubbliche e di chi esercitava professioni erano declinati al maschile per il semplice fatto che un tempo era una prerogativa dei soli uomini. Adesso ognuno si definisca come più fa piacere. Una facoltà della quale si è avvalsa Giorgia Meloni, che si definisce al maschile presidente del Consiglio. Per sottolineare che è arrivata alla guida del partito e a Palazzo Chigi non in virtù di quote rosa che fanno il paio con la protezione dei panda. Ma non si può dimenticare che per chi esercitava un mestiere più o meno umile, il femminile c’era e c’è tuttora. Ecco cameriera, lavandaia, stiratrice, sartina e così via. Un classismo fuori tempo massimo da ripudiare senza se e senza ma.

 

 

Paolo ArmaroliProfessore di Diritto pubblico comparato, Docente di Diritto parlamentare. Giaà deputato. Saggista

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