Dsa (disturbi specifici apprendimento), un fenomeno importante ma poco studiato Negi ultimi dieci anni un incremento del 40 per cento delle certificazioni di disabilità

Uno studioso dei problemi della scuola ci spiega come stanno le cose

La statistica, sostenevano i fratelli Goncourt, narratori non eccelsi, ma fondatori dell’omonimo premio che incorona le eccellenze letterarie francesi, è la più imprecisa delle scienze esatte.
Dall’Ottocento a oggi anche questa branca della scienza ha compiuto enormi progressi, ma rimane una componente aleatoria se non nell’elaborazione, nell’interpretazione dei suoi risultati.

Lo conferma, se ve ne fosse bisogno, il dibattito in corso circa l’elevata percentuale di alunni affetti da Disturbi specifici dell’apprendimento che frequentano, provvisti di regolare certificazione, la scuola italiana. Nel corso dell’ultimo decennio, fra i frequentatori di tutti gli ordini di studi si è registrato un incremento delle certificazioni di disabilità che sfiora il 40 per cento. In particolare, per quanto riguarda la dislessia, il più diffuso dei cosiddetti Dsa, il numero è triplicato. Meno diffuse sono la discalculia, la disgrafia e la disortografia: vocaboli di facile comprensione che però sottendono realtà spesso molto complesse.

In generale, i valori risultano tripli rispetto alla media delle nazioni straniere e a quelli che sono considerati gli standard normali. Il numero più alto di certificazioni si registra nel centro-nord e fra gli alunni che frequentano le medie e le superiori (per essere più comprensibili si usano questi termini impropri, visto che oggi si dovrebbe parlare di scuole secondarie di primo e di secondo grado, ma il concetto rimane lo stesso). Sul secondo fenomeno può influire il fatto che, chiamato a misurarsi con i programmi più difficili del liceo o dell’istituto tecnico, lo studente tradisce limiti rimasti nella penombra durante la scuola dell’obbligo.

Il fenomeno, e qui dalla sfera delle nude cifre si passa a quella delle interpretazioni, si presta a una estrema varietà di letture. La più pessimistica potrebbe essere quella di una sorta di “epidemia di handicap”, che avrebbe colpito gli studenti italiani. Su di essa potrebbero influire, a parte fattori organici, strascichi del lockdown (ma il fenomeno è cominciato prima del 2020) e riflessi psicologici delle crescenti conflittualità all’interno del nucleo familiare. Senza dubbio, nulla autorizza a ipotizzare una sorta di concorso di colpa nella genesi del fenomeno, ma un certo ordine di problemi non è un’esclusiva della società italiana e nelle altre nazioni i casi di Dsa non sono così numerosi né sono aumentati così in fretta.

L’interpretazione più ottimistica, invece, attribuisce l’aumento vertiginoso delle certificazioni, in certe regioni quintuplicate, alla diffusione di una maggiore sensibilità verso il fenomeno. Invece del sintomo di una criticità, esso rappresenterebbe una conferma dell’eccellenza della nostra scuola, più attenta a monitorare gli handicap. Il fatto che le percentuali più alte si registrino nel Centro-Nord potrebbe essere spiegato col fatto che nelle regioni “più evolute” le istituzioni scolastiche abbiano maturato una maggiore sensibilità al fenomeno.

Un’interpretazione che abbina ottimismo e pessimismo è invece quella proposta dal dottor Daniele Novara, pedagogista di lunga data e direttore del Centro Psicopedagogico per l’Educazione e la Gestione dei Conflitti, con sedi a Piacenza e Milano. Novara in una serie di interventi ha parlato di un “eccesso diagnostico”, derivante “dalla crescente inclinazione di scuole e famiglie ad analizzare la salute neuropsichiatrica del bambino, anziché esaminare la sua educazione familiare e fornire il supporto necessario.”

L’ipotesi di Novara è che tre diagnosi su quattro potrebbero risultare sbagliate o, si potrebbe aggiungere, compiacenti. Dietro tali affermazioni potrebbe manifestarsi un’eco dell’antica querelle fra psicopedagogisti e psichiatri, ma l’evidenza dei dati resta indiscutibile. E Novara non è certo l’ultimo arrivato: già collaboratore di Danilo Dolci e di Mario Lodi, autore di numerosi saggi di successo in ambito educativo, non ha bisogno di pubblicità.

L’aspetto ottimistico di questa interpretazione è evidente: gli studenti italiani non sarebbero problematici più di quelli di altri Paesi europei. Ma altrettanto lo è l’aspetto pessimistico: le famiglie si servirebbero della certificazione da un lato per alleggerire la propria responsabilità nei disturbi dei figli, da un altro per ottenere loro, insieme a facilitazioni nell’apprendimento, un trattamento di favore negli scrutini finali. Bocciare o rimandare (anche in questo caso, per semplicità, si usano termini impropri) un Dsa è estremamente difficile e in certi casi pericoloso. Basta che dalla documentazione emergano errori od omissioni formali perché un buon avvocato possa redigere un ricorso al Tar, o, nel migliore dei casi, un esposto con richiesta di visita ispettiva, con le conseguenze morali e disciplinari che si possono immaginare a carico di docenti e dirigenti scolastici.

Senza voler enfatizzare questo pericolo, sono doverose però alcune considerazioni. Senza dubbio il riconoscimento e l’individuazione dei principali problemi dell’apprendimento costituisce una delle grandi conquiste della pedagogia degli ultimi decenni. In passato, un passato per altro non proprio remoto, il bambino che aveva difficoltà a leggere, si imbrogliava nel calcolo (quando usavano ancora le “tabelline”, con tanto di tavola pitagorica riprodotta nell’ultima pagina dei quaderni), aveva un fatto personale con la calligrafia, magari quando alle Elementari bisognava scrivere col pennino intinto nell’inchiostro, era spesso liquidato come “ritardato” e vedeva la sua carriera, scolastica e non solo, seriamente compromessa. Oggi esiste nei confronti di questi problemi una sensibilità diffusa, non solo nell’ambito pedagogico: basti pensare che sull’argomento e in particolare sul calvario di un bambino dislessico sono uscite non poche pellicole, alcune di buon livello.

Al tempo stesso, occorre aggiungere che l’atteggiamento delle famiglie nei confronti dell’handicap è profondamente mutato. È successo un po’ quello che negli anni Settanta era avvenuto di fronte alla visita di leva. Un tempo, soprattutto in provincia, essere riformati o fatti “rivedibili” era considerato un’onta sociale: il “menatto” (meno atto al servizio militare) era guardato con diffidenza dalle ragazze e vittima di sfottò, in base al vecchio detto secondo cui “chi non è buono per il re non è buono nemmeno per la regina”. Avere un figlio “handicappato” era un qualcosa di cui vergognarsi o, dove possibile, da nascondere.

A questo proposito, chi scrive ricorda il caso, nel 2006, di una famiglia che presentò un esposto all’Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana perché il figlio, che aveva frequentato il primo anno di un liceo, non era stato promosso, in quanto la sua condizione di dislessico non era stata oggetto di adeguati interventi. Dall’analisi dei fatti risultò che all’atto dell’iscrizione la famiglia non aveva comunicato alla scuola la sua condizione, nonostante che questa fosse stata già certificata nel corso della sua frequenza alle medie. Ad accorgersi dei problemi del ragazzo e a segnalarli, attribuendoli a una forma di dislessia, erano stati proprio gli insegnanti della scuola, tenuti all’oscuro dalla famiglia. Quelli contro cui i genitori avevano fatto ricorso!

Senza esprimere giudizi morali, in quella circostanza si manifestò un atteggiamento psicologico emblematico da parte della famiglia, che da un lato non aveva comunicato la condizione del figlio ritenendo la certificazione un segno di inferiorità, magari nell’umanissima speranza che con la crescita certi problemi sarebbero stati superati, dall’altro, quando le difficoltà del ragazzo si erano riproposte, avevano rivendicato i benefici previsti dalla sua condizione di Dsa.

Non sempre nelle famiglie prevale questo atteggiamento “rivendicazionista”, ma sul boom di certificazioni potrebbe influire anche un interesse pratico. Al tempo stesso, la “medicalizzazione” di un disagio che potrebbe derivare in prevalenza da problemi di relazione all’interno delle famiglie può in certi casi costituire una sorta di assoluzione dalle proprie responsabilità, ma non è detto che una diagnosi errata vada a vantaggio dei figli. Senz’altro non va a vantaggio delle casse dello Stato, visti gli oneri che un maggior numero di alunni certificati comporta.

Un discorso a parte riguarda gli strumenti che vengono utilizzati per favorire gli alunni affetti da Dsa. È indubbio che l’adozione delle moderne tecnologie informatiche abbia reso lo studio, ma anche la vita, molto più facile agli alunni certificati, e non solo. La calcolatrice elettronica risolve i problemi di un disnumerico, la videoscrittura è una manna per il disgrafico, l’autocorrettore automatico di word favorisce il disortografico. Per non parlare dei libri 2″che si leggono da soli”. È lecito chiedersi però se lo stimolo a superare certe difficoltà non costituisca un elemento fondamentale nell’evoluzione della personalità, e se la sua rimozione, almeno per chi è stato impropriamente certificato, costituisca davvero una conquista. Con quello che dà, la tecnologia ci toglie sempre qualcosa e già oggi, Dsa o no, stiamo allevando una generazione spesso incapace di scrivere in corsivo, di effettuare un calcolo mnemonico, di mandare a mente una poesia, atrofizzando quelle piccole e grandi capacità coltivando le quali una persona sviluppa un processo di maturazione.

È onesto aggiungere che varie facilitazioni introdotte dall’informatica (insieme a molte complicazioni, ma questo è un altro discorso), dalla memorizzazione dei numeri sul cellulare all’estrema semplificazione delle ricerche su internet, stanno atrofizzando anche in noi adulti certe capacità e attitudini un tempo indispensabili. Stiamo diventando un po’ tutti dislessici o disgrafici. Anche se, almeno per noi “grandi”, non è ancora prevista la certificazione di Dsa.

 

Enrico NistriSaggista

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