Nel 1931 a Parigi Picasso si dedica a un’impresa commissionatagli dal mitico mercante, editore e collezionista Ambroise Vollard: l’edizione illustrata (con 12 acqueforti, 67 incisioni e 20 disegni) di Il capolavoro sconosciuto, il racconto di Balzac del quale quell’anno ricorre il centenario della prima pubblicazione. Il risultato è un vero e proprio “libro d’artista” nel quale Picasso si confronta con il racconto di Balzac sul tema del rapporto tra creatore e creazione, tra l’artista e la realtà, nella ricerca – traumatica – dell’opera perfetta. Sei anni dopo, nel 1937, Picasso si installa al numero 7 di rue des Grands-Augustins, nel palazzo di Savoie-Carignan, dove dipinge Guernica e dove si fermerà fino al 1955.
L’indirizzo della casa-atelier di Picasso è quello davanti al quale comincia Il capolavoro sconosciuto: nel racconto, nel dicembre 1612 al 7 di rue des Grands-Augustins abita il pittore François Porbus il giovane (rivale di Rubens nel racconto) che viene visitato dal diciottenne Nicolas Poussin che incontra là il vero protagonista della storia, l’anziano pittore Frenhofer (figura d’invenzione come la compagna di Poussin, Gillette). Già unico allievo dello sregolato Mabuse, Frenhofer entra in scena come “una tela di Rembrandt che camminasse silenziosa e senza cornice”, nel cui volto c’è “qualcosa di diabolico, e soprattutto quel non so che fatto per attirare gli artisti”: l’enigmaticità oscura di Frenhofer prelude all’enigmaticità della sua opera, nella quale l’incomprensibilità impenetrabile equivale all’eccellenza artistica (un tema che poi sarà presentissimo a tantissima arte, alta ma anche e soprattutto di scarso livello, del Novecento e degli anni che viviamo).
Balzac mette il lettore di fronte a uno scambio di ruoli tra l’artista e l’opera a cui Frenhofer si ostina a volere infondere la vita vera. Lo scambio di ruoli tra artista e oggetto sarà presente sessant’anni dopo a Oscar Wilde quando scriverà del rapporto tra il modello, il suo ritratto (che prende vita e che pertanto va tenuto nascosto), il pittore e la morte in Il ritratto di Dorian Gray.
Da dieci anni Frenhofer vive letteralmente dentro un ritratto femminile che non riesce a finire di dipingere. Il ritratto di Catherine Lescault (la modella e cortigiana che esiste solo nella mente del vecchio pittore, che crede perfino di esserne innamorato) sarà finito quando sembrerà prendere vita: Frenhofer compete con la natura, convinto che in pittura potrà ottenere lo stesso risultato conseguito nella statuaria da Pigmalione, artefice dell’”unica statua che abbia mai camminato!” (tralasciando che si tratta di un risultato conseguito da un personaggio di fantasia). Finalmente ammessi a vedere il quadro, Poussin e Porbus vi trovano solo “colori confusamente ammassati e contenuti da una moltitudine di linee bizzarre che formano come un muro di pittura” che non corrisponde alla donna che il pittore dice di avere dipinto ossessivamente fino a dotarla del respiro. Di Catherine si intravede solo, in un angolo della tela, “un piede nudo che usciva da quel caos di colori”, “un piede delizioso, un piede vivo! L’ammirazione li lasciò impietriti davanti a quel frammento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione. Quel piede si trovava lì come il busto di una Venere in marmo di Paro che sorgesse fra le rovine di una città incendiata”. Porbus, quasi rassicurato, ammonisce Poussin: “C’è una donna lì sotto”. Ma il giovane pittore, continuando ad assistere alla sregolata follia di Frenhofer che crede di avere dipinto un’opera figurativa, esclama (come il bambino di I vestiti nuovi dell’imperatore): “Ma prima o poi si accorgerà che sulla sua tela non c’è niente”!”.
Poussin e Porbus non sono pronti alla pittura trasfigurata, alla pittura-pittura fine a sé stessa e che solo di sé stessa parla. Frenhofer non è riuscito a convincerli che l’arte di avanguardia esiste quando funziona il patto di fiducia tra artista e pubblico: “Occorre fede, fede nell’arte”, dice loro prima di sprofondare definitivamente nella pazzia per la mancanza di comunicazione con i colleghi. In un delirio psicopatologico, accusa Poussin e Porbus di nutrire invidia, il più classico peccato che, dalla Commedia di Dante in avanti, mette in crisi i rapporti tra gli artisti (la rubrica se ne è occupata il 12 ottobre: https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia/): “siete invidiosi, volete farmi credere che l’ho rovinata per rubarmela! La vedo, io, ed è bella da togliere il fiato”. L’anziano artista assiste al fallimento della propria esistenza, che si sarebbe compiuta solo creando qualcosa: “Allora sono un imbecille, un pazzo! Allora non ho talento né capacità, non sono altro che un uomo ricco che non si sa perché stia al mondo!”. Frenhofer caccia via i due amici in malo modo e si barrica nell’atelier, dove muore durante la notte dopo aver bruciato le sue tele.
Il geniale Balzac ha usato tutti gli ingredienti per fare di Il capolavoro sconosciuto il racconto feticcio degli artisti (dal Cèzanne della materia pittorica sempre più sfaldata al De Kooning delle feroci Women sepolte sotto strati violenti di colore). Dal gruppo che ruota attorno all’Impressionismo a Parigi fino all’Espressionismo astratto americano, i pittori nel Novecento considereranno il racconto alla stregua di un dogma da tenere come traccia per raggiungere vette stilistiche inusitate: il racconto unisce insieme la brevità del testo, le dispute filosofico-teoriche sulla natura e la finalità dell’arte, la rivalità tra artisti vecchi e giovani, l’invidia che mette in crisi la mutua solidarietà tra colleghi, il rapporto ambiguo con le modelle, la relazione tra verità e finzione, l’incomprensione del pubblico per l’originalità di ogni avanguardia, il protagonista maudit, ai limiti della psicopatia, che vive ormai fuori dai canoni della società e risponde solo a sé stesso, il tema della fama.
Sta, dunque, nel quadro dipinto ossessivamente da Frenhofer il nuovo corso della pittura che comincerà a Parigi trent’anni dopo l’uscita di Il capolavoro sconosciuto grazie agli artisti indipendenti che verranno chiamati impressionisti e che porterà all’espressionismo astratto e all’informale a metà Novecento.
Un grande artista vicino al gruppo impressionista e poi ammirato da Picasso, Paul Cézanne, legge infatti in Il capolavoro sconosciuto una sorta di premonizione, fino a identificarsi con il solitario Frenhofer che combatte contro qualcosa di gigantesco sulla tela senza riuscire mai veramente a venirne a capo: Cézanne instaura un rapporto simile con la teoria della pittura e, nella pratica, con le sue Grandi bagnanti.
Della reale identificazione di Cézanne con Frenhofer sarebbe, tra l’altro, stato testimone un altro pittore, Émile Bernard. Quando Cézanne era ormai lontano, ad Aix-en-Provence, Bernard tradusse il ricordo con un filtro alla Flaubert:
“una sera, mentre gli parlavo del Capolavoro sconosciuto, si alzò da tavola, rimase in piedi di fronte a me, battendosi il petto col pollice senza una parola, solo ripetendo quel gesto, indicò se stesso quale personificazione di quel personaggio di romanzo!”. “Frenhofer c’est moi!”.
La lunga gestazione solitaria delle maggiori opere di Cèzanne e la sua personalità balzachiana porta il suo amico scrittore e critico Émile Zola a fare del pittore il protagonista del quattordicesimo romanzo del ciclo I Rougon-Macquart, pubblicato nel 1886 con il titolo L’Œuvre (Vita d’artista o Il capolavoro). Nel libro, l’alter ego di Cézanne è un pittore, Claude Lantier (comparso anche nei romanzi Il ventre di Parigi e L’ammazzatoio), che si isola da amici e critici e abbandona la donna amata, Christine, pur di far prevalere la radicalità della sua visione dell’arte figurativa. Si barrica in un capannone squallido, agitato da una creatività frenetica che gli impedisce di portare a termine ogni opera che comincia, restando vittima della propria insoddisfazione e fallendo di continuo senza imparare nulla di nuovo. Claude subisce l’insensibile derisione della sua grande tela L’enfant mort (in memoria del figlio morto da piccolo): “i giovani sfottevano la grossa testa, una scimmia crepata per aver inghiottito una zucca”. Infine, si impicca davanti alla sua grande opera incompiuta, Plein Air. Pare che questa nuova versione di Il capolavoro sconosciuto abbia segnato la rottura dell’amicizia tra Cézanne e Zola.
L’ossessione degli artisti per il racconto di Balzac coinvolge molti personaggi, compresi scrittori e registi, arrivando fino alla “pittura in movimento” del cinema contemporaneo.
Ottiene il Grand Prix al Festival del Cinema di Cannes del 1991 La bella scontrosa di Jacques Rivette, che mutua il titolo (“La Belle Noiseuse“) dalla definizione data da Balzac alla fittizia Catherine Lescault in una versione intermedia del racconto (le pagine migliori sul film di Rivette sono di Hans Belting in un libro dedicato al tema dell’ideale dell’arte assoluta dalla nascita del Louvre al revival di Balzac nel cinema, passando per la fortuna della Gioconda rubata come “monumento invisibile” agli occhi di Kafka visitatore a Parigi: Il capolavoro invisibile. Il mito moderno dell’arte, Carocci editore 2018, tradotto da Luca Vargiu e Domenico Spinosa sulla base dell’edizione inglese del 2001, pp. 151-159, 481-486).
Ma la versione più in linea con lo spirito di Il capolavoro sconosciuto si deve a uno dei registi viventi più felicemente suggestionati dalla pittura, Wes Anderson, che di Il capolavoro sconosciuto ha finalmente colto anche i risvolti comici e grotteschi. Il suo Il capolavoro di cemento è il secondo episodio del film The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun. Fin dalla lunghezza, (circa 33 minuti) Il capolavoro di cemento omaggia la brevità dell’apologo di Balzac sulla creazione artistica.
Come in tutti i film di Anderson, c’è il racconto nel racconto che funge da cornice. In Il capolavoro di cemento la storia del capolavoro è affidata a una cornice inesistente nel racconto di Balzac. Anderson finge che l’episodio coincida con il contenuto di un articolo, Il capolavoro di cemento. Ritratto di un pittore e di un dipinto, uscito sull’immaginario giornale americano pubblicato in Francia nel secolo scorso da cui prende il titolo il film, “The French Dispatch”. L’articolo prende vita grazie alla seconda cornice del film, la conferenza che l’autrice dell’articolo, J. K. L. Berensen (una svaporata Tilda Swinton in caftano arancione), tiene nell’auditorium della Collezione Clampette in Kansas della quale è curatrice per conto della proprietaria. Berensen è dotata di un cognome che è una benevola caricatura di quello del più celebre conoscitore d’arte antica della prima metà del Novecento, Bernard Berenson, che grazie al rapporto spregiudicato con i mercanti (in particolare Duveen) e i collezionisti fece la propria fortuna internazionale.
Berensen declama la conferenza pubblica a braccio, più o meno brillantemente, anche grazie al contenuto di un thermos da mescolare con farmaci custoditi sotto il leggio (ve la ricordate la professoressa di Storia dell’arte di Amarcord che annuncia: “Oggi vi parlerò del grande…Giotto!” mentre si versa in un bicchierino il contenuto di un thermos? Ecco, l’inquadratura di Anderson è una vera e propria citazione).
Berensen ricostruisce la biografia di Rosenthaler dall’infanzia fino alla fama come capofila del Gruppo d’Azione della Scuola Splatter francese. La conferenza si svolge nell’auditorium della collezione-museo in Kansas perché il pezzo di punta della raccolta Clampette è il “tableau-polittico conosciuto come Dieci murales portanti in aggregato di cemento rinforzato”, cioè il “capolavoro di cemento”.
Anderson valorizza il dialogo fondamentale pensato da Balzac per Porbus e Poussin al cospetto del capolavoro: nel film, il mercante d’arte levantino Julien Cadazio (Adrien Brody) scopre il pittore Moses Rosenthaler durante la visita a una mostra d’arte collettiva intitolata Posaceneri, vasi e macramè con le opere dei detenuti del carcere nel quale anche egli il mercante è costretto per evasione fiscale di secondo grado. Scontata la pena, Cadazio mostra la tela comprata direttamente da Rosenthaler dopo la mostra, Simone, nuda. Braccio J., sala hobby (olio su tela di sacco), ai suoi due zii Joe e Nick (Henry Winkler e Bob Balaban), mercanti più anziani di arte antica.
Gli zii non vedono niente sulla tela, ma il furbo nipote non vuole perdere i futuri affari che verranno grazie alla creazione e alla promozione di un artista d’avanguardia maledetto. Gli zii davanti alla tela si diffondono in affermazioni come “Non la capisco”, “Sono troppo vecchio”, “Che cos’ha di bello?”; il nipote risponde annullando le categorie di valutazione dell’arte antica applicate a quella contemporanea: “Non è bello, concetto errato”, e aggiunge: “Vedete la ragazza?”. Quando gli zii replicano all’unisono, sempre più straniti: “No”, Cadazio li richiama al patto topico tra artista e pubblico: “Fidatevi, lei c’è” (condensando le battute di Frenhofer e di Porbus: “Occorre fede, fede nell’arte” e “C’è una donna lì sotto”).
Il capolavoro di cemento illustra anche due aspetti del mercato dell’arte che nel racconto di Balzac sono assenti.
In primo luogo, mostra il meccanismo della creazione artificiale della domanda di opere di un artista sconosciuto attraverso la pubblicizzazione della sua immagine di personaggio irregolare, autore di opere comprensibili solo a pochi eletti e, pertanto, meritevoli di accrescere il loro valore culturale ed economico (“Bisogna creare il desiderio”, dice il mercante anziano, quando viene convertito in pochi minuti all’arte contemporanea, e ai guadagni che ne conseguono, dal nipote).
In secondo luogo, spiega attraverso quali figure e azioni si concretizza il sostegno che alla fama e, quindi, alla vendita a caro prezzo di opere dell’artista viene fornito dai critici militanti (diversi dagli storici dell’arte e spesso più disinvoltamente “complici” degli artisti e dei mercanti), dai mercanti e dai collezionisti che suscitano e controllano il mercato. Cadazio/Brody chiede infatti a Rosenthaler dopo aver concluso in carcere l’acquisto del nudo non figurativo di Simone:
“A proposito, dove ha imparato a farlo? A dipingere, intendo. Inoltre, chi ha ammazzato e quanto pazzo è veramente? Mi servono informazioni per realizzare un libro su di lei. La rende più importante.”
Anderson trasporta nel film i temi dell’isolamento e della follia, traducendoli visivamente nell’alternanza tra colore e bianco e nero e nell’ambientazione prevalente nel carcere francese di Ennui (che in francese vuol dire “noia”). La modella Simone che ha ispirato il “capolavoro sconosciuto” è in carne e ossa: è la secondina (Léa Seydoux) del reparto di massima sicurezza per dementi e squilibrati in cui sconta la sua pena il pittore Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro), rampollo di una ricca famiglia, condannato a cinquant’anni per duplice omicidio, che dopo dieci anni in carcere in astinenza dall’arte riscopre il potere salvifico della pittura grazie alla modella che lo ispira, bella e scontrosa (nel pieno rispetto filologico della tradizione del racconto balzachiano).
Simone permette al detenuto di invertire i rapporti di potere durante le sedute di posa, al termine delle quali Moses accetta docilmente di farsi di nuovo ingabbiare da lei nella camicia di forza. In carcere, Rosenthaler sperimenta la pittura su grandi superfici con pigmenti e supporti tradizionali e con materiali di scarto e supporti nuovi, riassumendo in forme ironiche e grottesche la storia delle avanguardie e delle sperimentazioni del Novecento fino a Rauschenberg e Burri: usa fluidi organici come il sangue di piccione, uova in polvere, grasso per ceppi, carbone, sughero, sterco, fuoco per le combustioni, sapone scadente e crema fresca di miglio come legante.
Il capolavoro che dà il titolo all’episodio è metonimicamente e metaforicamente il “muro di pittura” di Balzac: Rosenthaler dipinge alla sola presenza di Simone una serie di pannelli direttamente sul cemento delle pareti del carcere, ottenendo un grande ciclo informale che all’inaugurazione lascia attoniti i galleristi, i collezionisti e i giornalisti: è inaspettato, è inamovibile e, dunque, in prima battuta invendibile (anche se poi l’intrepida ricchissima collezionista, che sembra la vecchia Peggy Guggenheim, intervenuta alla vernice trova una soluzione, d’intesa con il mercante e con lo Stato).
Dopo Cézanne e prima di questa azzeccatissima trasposizione al cinema, una delle più profonde relazioni privilegiate di un artista con il racconto di Balzac si è dipanata in Italia grazie alla passione per lo scrittore coltivata da uno dei maggiori pittori figurativi del secondo Novecento, Mario Schifano.
La predilezione di Schifano per il racconto di Balzac non è casuale e rivela un’altra delle radici che saldano l’artista alla tradizione del modernismo: Il capolavoro sconosciuto rappresenta simbolicamente gli effetti della creatività visiva secondo due dei maestri riconosciuti di Schifano, Cézanne e Picasso.
L’interesse dell’artista autodidatta romano per Il capolavoro sconosciuto comincia anche grazie alle sue frequentazioni con l’ambiente degli intellettuali e dei gruppi politici extraparlamentari vicini al marxismo tra Roma e Milano. Difatti il racconto di Balzac era stata una delle letture predilette di Marx su consiglio di Engels, che ne coglieva la deliziosa ironia (per il quale il racconto era “full of the most delightful irony”). Engels suggerì la lettura a Marx nel febbraio 1867, poco prima di dare alle stampe il primo volume del Capitale. Gli interessi figurativi di Marx ed Engels entrano nella cultura italiana sessantottina in cui si muove Schifano con il lavoro di alcuni editori.
Nel 1967 esce in traduzione italiana presso Laterza la raccolta di Scritti sull’arte di Marx ed Engels (a cura e con un’introduzione di C. Salinari, nella collana “Universale Laterza”, 64), che alle pp. 159-163 contiene il saggio di Engels, Il realismo di Balzac. È ragionevole attribuire anche a questo libro la fortuna in chiave politicizzata di Il capolavoro sconosciuto presso i lettori di orientamento marxista che Schifano frequentava.
Ma si può andare a ritroso in questo contesto editoriale. A partire dal 1956, presso la casa editrice fondata da Giangiacomo Feltrinelli due anni prima, si traducono e si pubblicano opere di Balzac oculatamente selezionate: Gli impiegati, a cura di Augusto Pancaldi, racconto sulla degenerazione del clientelismo politico; la prima edizione italiana degli Scritti critici di Balzac (Feltrinelli 1958), curata da M. Bonfantini; Mercadet l’affarista, a cura di I. Ripamonti (Feltrinelli, 1959), opera teatrale sull’immoralità delle speculazioni economiche. Tra Feltrinelli e Schifano ci sono rapporti professionali costanti e reciproci, nel giro di Schifano entra anche la sorella di Feltrinelli, la modella Benedetta Barzini, e l’artista e l’editore condividono anche il supporto economico fornito a gruppi di estrema sinistra extraparlamentare attivi tra Roma e Milano come “Gli uccelli”, il cui leader fu Sandro Favale, autore anche dell’unico happening noto di cui Schifano fu protagonista. A Milano il 17 ottobre 1967 allo Studio Marconi (la galleria che rappresentava Schifano a Milano) alle 18:50 si inaugura la personale Mario Schifano; Favale dipinge riscrivendo in sequenza su fogli di carta tutti i titoli dei quadri di Schifano (Bisogna farsi un’ottica, Volere Brancusi in giardino, ecc.). Nel pubblico ci sono Allen Ginsberg, Enrico Castellani, Ninetto Davoli e Pier Paolo Pasolini.
Pasolini è uno degli artisti-scrittori più vicini a Schifano tra Roma e Milano. Riserva a Balzac un’attenzione politicizzata simile a quella dell’editore Feltrinelli. Recensisce Eugénie Grandet tradotto da Alfredo Fabietti ed Emma Defacqz per Garzanti nel 1973, in Uomini, forme e invenzioni di Gogol’, Puškin, Balzac e Flaubert su “Il Tempo” il 9 dicembre 1973. Pasolini trova il romanzo “moderno: non solo nel senso che dà a questa parola la critica marxista (Lukács), cioè nel senso che lo sguardo gettato sulla società da Balzac ne coglie gli aspetti politici e sociali più veri e rivoluzionari (all’interno della borghesia capitalistica), ma anche nel senso che esso si presenta come una “liberazione” dalle regole istituite da un ipotetico Madame Bovary precedente” (la recensione si può recuperare facilmente: esce per la prima volta in volume in Pier Paolo Pasolini, Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Einaudi 1979, pp. 223-228: 225, col titolo [Alcuni classici]; è inclusa in Id., Tutte le opere, edizione diretta da Walter Siti. Saggi sulla letteratura e sull’arte, 2 tomi, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude con un saggio di Cesare Segre. Cronologia a cura di Nico Naldini, Arnoldo MondadoriEditore, 1999, Tomo secondo, pp. 1945-1950: 1946, da cui cito).
Dopo il ’68 Schifano entrò in crisi, rifiutando di riconoscersi nel solo ruolo di pittore e cominciando a intensificare anche il lavoro di fotografo e di regista sperimentale. Pensò di distruggere tutto il suo lavoro passato, chiedendo al suo assistente di allora, Roberto Ortensi, se avrebbe voluto assistere all’opera di cancellazione: evidentemente Schifano aveva imparato come ci si atteggia a pittore di genio leggendo del rogo finale dello studio di Frenhofer.
Anche in una fase storica in cui non era più necessario mostrarsi allineati ai fermenti sessantottini, a chi lo intervistava Schifano ricordava che Il capolavoro sconosciuto era un libro importante nella storia della cultura perché aveva avuto un posto privilegiato nella biblioteca di Marx (sulla quale era uscito il libro di Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, traduzione di Marco Papi, Garzanti 1978).
Schifano si compenetra tanto con la ricerca artistica del pittore sociopatico e geniale di Il capolavoro sconosciuto da assorbire dal racconto anche il titolo per una mostra alla Galleria La Tartaruga a Roma nel 1978.
Schifano coglie bene il significato profondo del racconto, sa che Balzac alla fine lo inserì nella raccolta dei “racconti filosofici” ed è perfino informato della sua fortuna editoriale (a dispetto dell’immagine di sé come illetterato che cercò di dare per tutta la carriera, con la sprezzatura che gli era propria): lo dimostrano due interviste del novembre 1978 e del marzo 1982.
All’inizio di novembre 1978, Achille Bonito Oliva durante un’intervista telefonica destinata al “Corriere della sera” chiede a Schifano: «Ma in casa, cosa stai covando?»:
S. Sto lavorando ad un ciclo di cinque quadri su di un racconto di Balzac, sai quel racconto che ha un titolo significativo “Il capolavoro sconosciuto”, un racconto significativo e filosofico, la storia di un pittore che dipinge per tutta la vita sempre lo stesso quadro…
A. B. O. Com’è che ti ispiri ad un racconto, ad un’altra opera?
S. Ho spesso lavorato partendo da fatti appartenenti alla storia dell’arte, ricordi il ciclo dedicato al “futurismo rivisitato”, in cui partivo da brandelli del linguaggio futurista?
A. B. O. Ma questa volta parti dalla letteratura, come mai?
S. Ed è un bello incastro. L’idea è quella di un quadro che diventa informale, con i colori di tutta la tavolozza. Questi quadri non finiscono mai, è un incastro, un quadro infinito. L’idea di un pittore che dipinge sempre lo stesso quadro. Cinque incastri.
A. B. O. Come definiresti la tua opera?
S. «Ampio insoluto…»
Questa è infatti la frase che accompagna, domanda e risposta, il cartone d’invito della mostra romana [«alla galleria AAM, a via del Vantaggio», cioè alla galleria Architettura Arte Moderna] (l’intervista di Achille Bonito Oliva, Schifano artista solare, è in “Corriere della sera”, giovedì 9 novembre 1978, p. 16).
Il 3 marzo 1982, mentre per un po’ abita al Residence Aldrovandi a Roma a causa di vicende da cronaca nera per la sua tossicodipendenza, Schifano rilascia un’intervista per la trasmissione radiofonica della RAI L’arte in questione (a cura di Gemma Vincenzini con la collaborazione di Guido Giongo e Carla Vasio. L’intervista è accessibile nel podcast ‘Rai Radio Techete’. I grandi personaggi. Mario Schifano a Stendhal del 5 gennaio 2018, disponibile in Rai Play Radio qui: https://www.raiplayradio.it/audio/2018/01/Stendhal-Mario-Schifano-bcc05acc-cc08-4593-ad5c-848c90703a). In uno dei momenti più terribili della sua vita, Schifano non può fare altro che rintracciare in Il capolavoro sconosciuto una metafora eloquente del proprio lavoro. Nello stesso intervento radiofonico, Schifano dichiara fulmineo quanto ha capito la modernità del rapporto tra l’artista protagonista e la sua opera, intendendo il capolavoro di Frenhofer come il primo quadro informale ante litteram:
“Poi ho fatto dei quadri su un racconto di Balzac, Il capolavoro sconosciuto, che credo in Italia non sia stato neanche tradotto. Parla di questo: è il racconto di un pittore che dipinge sempre lo stesso quadro e infine questo quadro diventa proprio un quadro informale”.
L’artista, tra l’altro, è informato della mancanza di traduzioni del libro in volume autonomo (dimostrando, quindi, di conoscerlo in francese): effettivamente, le traduzioni italiane esistenti dal 1834 al 1959 antologizzavano il racconto in volumi miscellanei, fino a quando una traduzione italiana in un libretto autonomo esce nel 1983 (Il capolavoro sconosciuto. Prefazione di Geno Pampaloni, traduzione di Luca Merlini e Carlo Montella, Passigli editore 1983 nella collana “Le lettere”).
Se Il capolavoro sconosciuto vive nel percorso professionale di Schifano, l’autore del libro ha un posto anche nel suo percorso di regista di film (anche mai realizzati) e nella sua vita sentimentale. Negli anni Novanta Schifano tradisce la giovane moglie Monica con la più giovane Sabrina Acciari, assistente e apprendista pittrice; Acciari e Schifano si separano malamente, lei muore poi suicida nel 2008. Il rapporto complicato si trasfigura grazie al solo titolo di un racconto che Balzac pubblica un anno prima di Il capolavoro sconosciuto, Adieu. Piuttosto trascurato dagli storici della letteratura, Adieu viene tradotto in italiano col titolo Addio per Mondadori nel 1994, con un conseguente incremento di attenzione da parte degli specialisti di narrativa francese in Europa nello stesso periodo. Roberto Ortensi ricordava:
“Fece sparire tutte le foto di Sabrina [Acciari] tranne una con scritto Adieu… Era il titolo di un racconto di Balzac che lui avrebbe voluto trasformare in film, la storia di un ufficiale che durante la guerra si separa dalla sua fidanzata dicendole solo: Adieu […]. Lei riesce a superare lo choc ma poi, dicendo Adieu, muore. Questa era più o meno la trama che Mario raccontava. Non ho mai controllato. Lui era famoso per leggere i libri solo attraverso qualche pagina… Il resto del libro se lo inventava a modo suo”.
A proposito del metodo di inventarsi il contenuto dei libri “a modo suo”, proprio Schifano nel 1998 ha ricordato che il racconto di Balzac gli era stato segnalato dal critico cinematografico Goffredo Fofi ma, alla fine, non era riuscito a leggerlo:
“Io quando leggo dei libri, poi è come se me li riscrivessi come voglio. […] Non ne leggo, ogni tanto qualcuno me ne parla. Per esempio questo che mi ha raccontato Fofi, Adieu di Balzac. C’è una battaglia e la donna del generale va fuori di testa, l’attendente se ne innamora. Lei ha perso la parola, lui la cura, la protegge. Poi ha l’idea di ricostruire la battaglia per farle subire l’effetto contrario […]. Il libro non l’ho mai letto. Non ho avuto mai il coraggio”.
Da Balzac e dalla pittura introversa di Jasper Johns, assorbita dal vivo durante il viaggio di formazione a New York del 1963-1964, Schifano ha imparato che la superficie di un quadro può ammettere un’immagine solo se dichiara l’indipendenza della pittura dalla figura, risolvendo il paradosso di Frenhofer.
L’autonomia della pittura prevale anche in un quadro come Entra nel mio occhio prima che nel mio sentimento, che ha il titolo forse più lirico di tutto il catalogo di Schifano: chissà se per formularlo gli sono tornati in mente i commenti di poesie antiche ascoltati dalla voce dell’amico Giuseppe Ungaretti, frequentato con assiduità. A Ungaretti era familiare il binomio occhio ~ sentimento amoroso frequente nelle liriche dei trovatori e della Scuola poetica siciliana, fino agli stilnovisti e molto oltre. Oppure Schifano ha semplicemente parafrasato un titolo o un verso di un brano musicale in inglese, o una frase presa da un libro, ancora da individuare, secondo un procedimento quotidiano di lavoro.
Entra nel mio occhio prima che nel mio sentimento è un quadro figurativo che ha come protagonista una finestra, che come metafora fisica ed emotiva del nuovo paesaggio urbano è un tema caro ai futuristi. Entra nel mio occhio prima che nel mio sentimento potrebbe essere letto addirittura come un autoritratto in chiave balzachiana: è infatti eseguito l’anno precedente il primo degli arresti causati dalla tossicodipendenza. L’anno dopo l’esecuzione del quadro, Schifano si fa scattare un ritratto in bianco e nero da Ugo Mulas: in controluce davanti alla stessa finestra della casa di vicolo delle Grotte evocata nel quadro, il pittore si volta a guardare il fotografo; alla sua sinistra c’è una pianta in vaso. Nel suo quadro Schifano non si era ritratto esplicitamente; alla sua presenza fisica alludeva il possessivo “mio” ripetuto due volte nel titolo. Nel cielo celeste incede di profilo la sagoma di una gamba, delineata dalla coscia al piede incompiuto; la figura invisibile a cui appartiene la gamba bidimensionale sembra portare una croce tridimensionale.
Durante lo stesso 1965 del quadro, un amico e sodale di Schifano, Goffredo Parise, lascia coordinate su un altro quadro, Suicidio n. 1, applicabili anche a Entra nel mio occhio prima che nel mio sentimento. a proposito degli “elementi narrati (il parapetto, la pianta immota, il cielo immoto, vuoto e profondo)” simili nel grande quadro Suicidio n. 1, Parise intuisce che “il pittore pensa al suicidio come a una sorta di estasi estetica”. E magari, a Schifano che capisce già di avere ereditato la maledizione creativa del Frenhofer di Il capolavoro sconosciuto, quel “piede vivo” memore di quello di Catherine Lescault sembra l’unico modo di inserire nel suo quadro un “frammento sfuggito a un’incredibile, lenta e progressiva distruzione”.
* Ho trascritto le citazioni da Il capolavoro sconosciuto dalla traduzione di Gabriella Mezzanotte dell’edizione del 1837 di Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto, pubblicata in Honoré de Balzac, La commedia umana. Scelta e introduzioni di Mariolina Bongiovanni Bertini, 3 voll., 2006-2013, Mondadori “I Meridiani”, vol. III, pp. 1059-1092, che non ha un indice dei nomi e che è dotato di un apparato di commento a cura di Susi Pietri alle pp. 1507-1523, non sempre all’altezza della complessità interdisciplinare del racconto né della sua importante fortuna storica (ma si tratta di due lacune che accomunano diversi volumi dei Meridiani dedicati ad altri autori, con egregie eccezioni).
Ho riassunto il rapporto di Schifano con Il capolavoro sconosciuto e con Balzac dal mio libro Con lo Zingarelli sotto il braccio. I libri per Mario Schifano, Roma, Accademia dell’Arcadia, 2022, disponibile in e-book gratuito sul sito dell’Accademia dell’Arcadia: https://www.accademiadellarcadia.it/pubblicazioni-il-bosco-parrasio/con-lo-zingarelli-sotto-il-braccio/.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877)