Cinema, corpi, empatia. Ritratto di Ludovico Di Martino

Regista e sceneggiatore onnivoro e talentuoso, Ludovico Di Martino, guarda il mondo da Napoli e raccoglie successi, da “La belva” su Netflix a “Mare fuori”

A 13 anni legge avidamente “Piccoli brividi” per guadagnarsi le 5000 lire promesse dalla madre per ogni libro letto. Alla stessa età scrive un racconto su degli studenti che scoprono che i loro professori sono delle spie malefiche ma se lo ricorda dopo avere girato i I viaggiatori. La Belva è stato il film più visto su Netflix dopo quattro giorni. Il primo episodio di Mare fuori 5 conta 4,4 milioni di visualizzazioni. Celebre come autore di genere, se i diritti lo permettessero vorrebbe fare un film da L’ultima notte in città, romanzo introspettivo di Gianfranco Calligarich con un loser che si aggira in una decadente Roma dostoevskjiana.
È il ritratto, parziale, dell’onnivoro e talentuoso regista e sceneggiatore Ludovico Di Martino, 32 anni, romano con sangue di Atrani per parte paterna, figlio di restauratori, che ha accettato di dirigere Mare fuori 5 dopo avere passato qualche ora nel carcere minorile di Nisida, alle cui “voci di dentro” Eduardo permise di travalicare il “mare fuori” costruendo un teatro.
L’Ipm, il carcere minorile, di Di Martino è un moderno Castello d’If: i detenuti minorenni pensano a come vendicarsi e ad acquisire potere; chi spezza la catena del male, lo fa grazie all’amore (amicale o filiale) o alla cultura; il “mare fuori” alimenta sentimenti negativi, come per Edmond Dantès. In prevalenza i ragazzi si perdono, pensando – come Simone dice a donna Wanda – che “l’amore non è più forte della vendetta”. Mare fuori guadagna una regia autoriale, con qualche pennellata rarefatta a lume notturno e primi piani arditi.

Di Martino sul set di Mare fuori. Foto di Sabrina Cirillo.

Abbiamo parlato di Mario Schifano, del Pasolini di Fabrizio Gifuni, del magistero di Daniele Vicari, di Ettore Scola alla Scuola Volonté, della passione comune per Scorsese e per C’era una volta in America. Una parola chiave, speranza, ispira la visione della vita, coincidente con i giovani e col cinema.

Salendo nel punto più alto del carcere di Nisida ti affacci su una baia che sembra caraibica, con la visione più idilliaca che si possa avere del mare. C’è un dialogo che ho aggiunto per due ragazze che arrivano: “Non so se è meglio o peggio avere il mare fuori”. “Meglio del muro di cemento che avevamo”. Là sotto hai un eden e sei chiuso dentro: è un’immagine devastante che potenzia la reclusione.

Il conflitto tra Bene e Male sta nella dialettica tra napoletano e milanese in uno scontro tra Milos e i villain Samuele e Federico. Per la resa del dialetto e dell’italiano regionale ti affidi all’improvvisazione?

Loro conoscono la lingua meglio di me: non sono quel personaggio ma magari hanno conosciuto quel personaggio. Chi più fa questo lavoro è Maria Esposito: ha una capacità di ricerca sulla lingua in maniera istintiva di cui non si rende conto, ma viene a dirmi: “Senti, questa battuta la direi così”. Sembra avere studiato su decine di libri, invece semplicemente sa che si dice così. È una cosa affascinante che accade nelle serie: i registi cambiano, gli attori no. Gli attori conoscono i loro personaggi anche meglio di chi li scrive.

Di Martino, Domenico Cuomo (Cardiotrap) e Artem (Pino) sul set di Mare fuori. Foto di Sabrina Cirillo.

Questa stagione è un po’ il tuo Ragazzi di vita. E traduce per il servizio pubblico la tua idea di incidere su ciò che non va nel Paese.

Susanna Marietti, la presidente di Antigone, parlando con me del Decreto Caivano ha detto: “L’empatia a volte funziona più delle rivoluzioni”. Sono sempre stato uno che dice che per cambiare le cose dobbiamo cambiare noi. Perché se no è solo una lamentela. Ciò che dice la Presidente di Antigone è la stessa cosa: se il giudice decide di non usare quello strumento, il giudice sta rifiutando la legge, anche se non la cambierà; ma riesce a cambiare le cose.

Lavoriamo entrambi vicino a giovani spesso già disillusi.

Prima di fare Mare fuori ero sconfortato da questa generazione di adolescenti. Per I viaggiatori ho visto migliaia di ragazzi per i provini. Vedevo una generazione sempre meno affamata. Napoli invece ti offre una generazione di ragazzi come Alfonso Capuozzo, che faceva il pizzaiolo da quando aveva 12 anni. Quando gli ho detto: “Ti abbiamo scelto”, e quindi gli stavo dicendo (lui ne era perfettamente consapevole) “la tua vita cambierà”, mi ha risposto: “Ok, quando cominciamo?”. Hanno una grande fiducia nel futuro.

Fabrizio Gifuni (Luzio) in I viaggiatori.

In Mare fuori lavori con molti non professionisti. Invece scegliendo Fabrizio Gifuni hai diretto uno degli artisti più ammirevoli del teatro e del cinema italiani. Quali ruoli ti avevano convinto a chiedergli di indossare la divisa di L’ingegner Gadda va alla guerra in chiave contemporanea per La Belva?

(Ridiamo) Purtroppo non ho visto L’ingegner Gadda va alla guerra perché ero piccolo: Fabrizio si è diplomato alla Silvio D’Amico l’anno in cui io sono nato! Non ho visto dal vivo la parte “energica” della sua carriera, ma solo Lehman Trilogy (che attori c’erano su quel palco!). Mi sono innamorato di Fabrizio nella scena di Fai bei sogni di Bellocchio. Ho capito che è un prestigiatore. Poi mi è piaciuto tantissimo in Prima che la notte, anche perché diretto da Vicari. Forse è il suo primo vero ruolo da protagonista. Ha permesso a La Belva di apparire credibile, non realistico.

Fabrizio Gifuni e Di Martino sul set di La Belva.

Le tue regie sono campioni di download. Da protagonista dello streamcasting, come ragioni sul dibattito sulle sale (che da Roma ha avuto risonanza internazionale dopo l’uscita del libro Fantasmi urbani scritto da Silvano Curcio con Giovanni  B. Gifuni)?

A casa io ho un grande impianto audio, un grande televisore, non ho quello che mi tossisce accanto… “I film che mi hanno formato li ho visti in televisione”, ha detto Tarantino. Tra 30 anni ci sarà un regista che dirà: “Mi sono formato su Netflix”. Oggi si va all’Anteo e al Troisi perché sono centri polifunzionali, o si va in sala perché c’è un evento con regista e cast. Quando è finito il Covid i teatri si sono riempiti di più perché la gente ha detto: “Se devo uscire di casa voglio vedere i corpi. E se devo vedere un film, voglio vedere il corpo di chi l’ha fatto”. Il cinema ora ha bisogno dei corpi.

Floriana Conte Pagina Instagram 

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