Una leggenda medievale per uno stendardo rivoluzionario. Sciami di stelle dipinte per un notturno in Costa Smeralda: a cosa servono i poeti, anche d’estate

Di un episodio rilevante della contestazione studentesca romana dell’estrema sinistra è stato protagonista un quadro dal titolo enigmatico trasformato in stendardo politico dal suo autore, il pittore astrattista Piero Dorazio. Nel 1985 Dorazio ha raccontato così la trasformazione del suo grande quadro da opera da museo a vivo manifesto di protesta.

Palma Bucarelli negli anni Sessanta

 

“La dottoressa Palma Bucarelli, soprintendente alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, […] nel ’66 voleva riordinare la Galleria, mi chiese un altro grande quadro e io, nonostante avessi più volte reclamato per il mancato pagamento di quello precedente, le inviai Teodorico guarda in fretta. Nella primavera del ’68 a Roma, la grande insoddisfazione degli artisti per il pessimo funzionamento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna trovava punti di contatto con le proteste degli studenti di architettura contro il funzionamento della scuola dove anch’io avevo studiato. Un gruppo di questi studenti, tra i più brillanti della scuola, che si facevano chiamare Uccelli [del gruppo romano, del leader Sandro Favale e del sostegno economico ricevuto per alcuni periodi dal pittore Mario Schifano e dall’editore Giangiacomo Feltrinelli abbiamo parlato il 14 aprile su “BeeMagazine”) venivano spesso a visitarmi in studio e mi chiesero un giorno in prestito un quadro da portare come stendardo per una loro manifestazione davanti alla Facoltà, vicinissima alla Galleria.

Quale occasione migliore per saldare due momenti di lotta? Fu scelto come giorno per la manifestazione quello in cui veniva inaugurato il nuovo ordinamento della Galleria alla presenza dei ministri Gui e Pieraccini e anziché prestare agli Uccelli un quadro che avevo in studio, decisi di staccare direttamente dalla parete Teodorico guarda in fretta, appeso in una saletta appartata insieme a opere di altri pittori come Afro e Novelli, considerate fuori moda rispetto a tutta la nuova moda della Optical art, disposta invece nelle nuove sale. Staccare i quadri dalla parete e portarli via reclamandone la proprietà era un ottimo modo di denunciare l’inefficienza di una galleria pronta a correre dietro a tutte le mode per mostrarsi aggiornata senza avere la capacità di acquistare una collezione permanente. La manifestazione ebbe molto successo, fece gran scandalo e mi fece guadagnare una bella querela da parte della Bucarelli”. (i passi dell’intervista a Piero Dorazio si leggono qui).

Piero Dorazio, Teodorico guarda in fretta, 1965, olio su tela, 220 x 320 cm, collezione privata

 

Nella stessa intervista, Dorazio traccia un bilancio storicizzante di una caratteristica determinante della pittura sua e dei compagni di strada durante la fase aurea della loro carriere, coincidente con gli anni Cinquanta e Sessanta, quando tutto cambia.

La caratteristica risiede nella scelta dei titoli, che diventano parte integrante dell’opera d’arte; non tanto e non più come richiamo per la vendita ma proprio come elementi della tecnica che concorre a realizzare l’opera. Dorazio spiega che la particolare tecnica di selezione dei titoli dei quadri deriva dalla poesia simbolista e dalla pratica totale dei futuristi. Dorazio spiega così il rapporto tra un quadro astratto e un titolo referenziale:

“L’origine di questa tecnica è nelle poesie di Mallarmé, dove c’è questo modo di sganciare il suono dal significato della parola, per verificare, attraverso il mondo dei sensi, la giustezza, la corrispondenza delle sensazioni all’oggetto sentito. È allora utile esplorare gli aspetti sensori della pittura anche da questo lato, del rapporto tra parola, suono, colore, immagine, movimento, ecc..

Quindi i titoli sono, diciamo, uno strumento accessorio di cui l’artista si può servire se intende l’arte come un’attività un po’ più estesa della fattura di un oggetto d’arte, come un’esperienza che coinvolge, come dicevano i futuristi, l’uomo, la sua sensibilità, la sua fantasia, la sua vita in un modo più totale, una ‘sinestesia’”.

Scendendo nel particolare, Dorazio sceglie come esempio emblematico proprio Teodorico guarda in fretta per illustrare il modo di lavorare che integra il titolo all’opera:

“Si tratta di un titolo spiritoso, leggero, dato a un quadro dipinto nell’estate del ’65 dopo un’ennesima visita ai mosaici di Ravenna […]. Il titolo fa riferimento a due nozioni cruciali della vita contemporanea: quella di autorialità, della storia, dei monumenti, della tradizione cui siamo inevitabilmente legati e, d’altra parte, la nozione di dinamismo, della velocità con cui trascorre la vita di tutti i giorni. Ravenna è una città dove tutti corrono in fretta, dove i monumenti si guardano seguendo un percorso prestabilito”.

Ma le cose stanno diversamente. L’artista mette alla prova l’interlocutrice che lo intervista e il pubblico, fingendo che il titolo Teodorico guarda in fretta sia nato da un’impressione fugace della quotidianità della vita moderna. Invece è una citazione colta, per niente impressionista né rivoluzionaria, dai vv. 65-66 e 17-22 di La leggenda di Teodorico, una notissima ballata di Giosuè Carducci pubblicata nel Libro VI delle Rime nuove (Bologna, Zanichelli, 1906):

“Teodorico di Verona, / Dove vai tanto di fretta?”  (Carducci stesso spiega: “Il primo re degli Ostrogoti in Italia è nell’antica poesia tedesca denominato Teodorico di Verona”).

Il verbo ‘guarda’ si ripete tre volte nei vv. 17-22 e riguarda ciò che fa Teodorico:

Guarda il sole sfolgorante

E il chiaro Adige che corre,

Guarda un falco roteante

Sovra i merli de la torre;

Guarda i monti da cui scese

La sua forte gioventú.

L’incipit di Teodorico guarda in fretta e un ritratto di Giosué Carducci

 

Dorazio poteva rileggere agevolmente due edizioni recentissime del “vate della terza Italia”, Rime nuove (a cura di P. P. Trompeo-G. B. Salinari, Bologna 1961), Rime e ritmi (a cura di M. Valgimigli e G. B. Salinari, Bologna 1964) mentre lavorava al quadro; ma non è necessario pensare a un accesso diretto dell’artista a questi libri: La leggenda di Teodoricoera una delle ballate più famose e meglio memorizzabili di Carducci e per un antico alunno di un liceo classico romano quale era stato Dorazio i versi potevano ancora essere parte di un bagaglio culturale tradizionale di cui, tuttavia, era già tempo di non fare eccessivo sfoggio.

Il gioco enigmistico nei confronti di un pubblico sempre più frettoloso e disinformato, di critici e storici dell’arte (spesso altrettanto compiaciuti di essere disinformati) riguarda, dunque, il quadro di Dorazio più legato alla tradizione culturale italiana che è anche quello che il pittore stesso considera più aderente alle istanze rivoluzionarie degli anni Sessanta tanto da farne temporaneamente uno stendardo provocatorio simbolo della lotta politica degli intellettuali.

Un contemporaneo di Dorazio, di lui più celebre per il grande pubblico per la vita spericolata da rockstar, Mario Schifano, ha attribuito ai titoli dei propri quadri riferimenti ancora più criptici, che richiedono vaste conoscenze umanistiche a chi guarda. Anche le opere di Schifano non vanno guardate in fretta, a cominciare dai titoli.

Qualche suggerimento era già nella recensione di un avido lettore di libri e grande prestigiatore di immagini fatte di parole, Alberto Arbasino, alla retrospettiva del 2006 Schifano 1964-1970. Dal paesaggio alla TV presso la Fondazione Marconi a Milano. Arbasino riassume i principali avvicendamenti della carriera dell’amico Schifano, individuandone la caratteristica preminente nell’aderenza ironica dei titoli delle opere al cangiante spirito dei tempi; in particolare, tra la fine degli anni Sessanta e il 1975, Arbasino suggerisce il rapporto tra i quadri grandi con “sciami di stelle” fluorescenti, come L’associazione e la proiezione dei ricordi e l’illustrazione con la “Notte stellata”. Quadro e illustrazione condividono l’iconografia, che Arbasino ha chiesto all’artista per illustrare la copertina della nuova edizione del suo La narcisata. In entrambi i casi, Schifano assegna un titolo non referenziale alla notte stellata dentro cui si abbraccia la coppia della pubblicità dei Baci Perugina:

“Sciami di stelle e palme luminose, come in un notturno fluorescente di Van Gogh. Analoghi “trips” si ritrovavano sulle pareti di care e brillanti ospiti: Pupa Raimondi, Luisa Spagnoli. Così gli chiedevo una “Notte stellata” per la copertina Einaudi (trent’anni fa) delle mie storie romane moderne uscite prima da Feltrinelli con copertina di Cy Twombly: un “Catullus” che Mario conosceva bene. E mi diede un mirabile slide: una coppia da Baci Perugina sotto una cascata di stelle anche filanti, e la scritta calante “L’associazione e la proiezione dei ricordi”. Già un anticipo delle scritte slabbrate e populiste che invaderanno la pittura di Piazza del Popolo accanto alle Marilyn e Mangano stracciate di Mimmo Rotella. “Io non amo la natura”… “Bisogna farsi un’ottica”… “La settimana di amori a Parigi”… “Camminare”… “Dedicato a Jean-Luc Godard”… “Compagni compagni”…[…] Dunque, una grafica poetica non più tipografica come ai tempi di Mallarmé o Apollinaire, ma impegnata in una sloganistica visivamente post-informale ma concettualmente neo-dottorale, ex cathedra e senza diritti di replica” (Alberto Arbasino, Una sauna in casa Schifano, “La Repubblica”, 31 marzo 2006, consultabile nell’archivio online laRepubblica.it).

Gianni Barcelloni, amico di Schifano, ricorda che nel 1969 l’artista “stava dipingendo un quadro meraviglioso che chissà dov’è finito, ispirato ai Baci Perugina”. Si tratta appunto di L’associazione e la proiezione dei ricordi. Sarebbe calzante con l’iconografia del quadro potere accertare che sia stato commissionato da una delle care e brillanti amiche citate da Arbasino, la socialite umbra naturalizzata romana Luisa Spagnoli Jr.: intellettuale, giornalista, tra i primi collezionisti di Schifano insieme a Giorgio e Mario Franchetti, Luisa era la sfortunata nipote dell’omonima nonna imprenditrice, il cui nome è tramandato dall’azienda di abbigliamento femminile che porta il suo nome e dalla creazione dei cioccolatini Baci prodotti dalla Perugina (dei quali ricorre quest’anno il centenario le cui genesi e fortuna racconta Marino Niola, Cent’anni di Baci, la pralina avvolta in parole d’amore, “La Repubblica”, 22 gennaio 2022, disponibile qui). L’iconografia di L’associazione e la proiezione dei ricordi è infatti una variazione in controparte (perché Schifano proiettava le immagini sulla tela con proiettore per ingrandirle e poi lavorarci sopra) della grafica ideata da Federico Seneca a partire dal celebre Bacio di Hayez per pubblicizzare i Baci.

Federico Seneca, manifesto per i Baci Perugina, 1922

 

Una conferma aggiuntiva del rapporto iconografico tra la grafica e il quadro viene da una testimonianza di un amico e sodale di Schifano, lo scrittore, saggista, giornalista, sceneggiatore e poeta Goffredo Parise. A p. 3 del “Corriere della sera” di mercoledì 26 luglio 1972, Parise pubblica la voce Eleganza (ora raccolta nei Sillabari, Milano, Adelphi, 2013, pp. 129-133: 129-130), che racconta una visita a casa di Schifano: una serata in compagnia dell’artista e della sua compagna Nancy Ruspoli permette di rievocare la personalità di Schifano. 

Parise ricorda di avere “rivisto” “in una grande villa al mare” “pochi giorni prima” di andare a casa di Schifano il “grande quadro suo” il cui “soggetto era la scatola dei “baci” Perugina: un grande cielo blu tempestato di stelle e le silhouettes dei due amanti ottocento, abbracciati. Le stelle erano dipinte con uno smalto al fosforo e nell’oscurità mandavano luce come le lucciole” (probabilmente il pigmento giallo fluorescente era l’acrilico Lumen, che sicuramente Schifano usa almeno fino agli anni Settanta). 

Parise non aggiunge informazioni sulla collocazione e sulla proprietà della villa al mare: si tratta di una villa di Luisa Spagnoli o di quella, di Punta Volpe a Porto Rotondo, di Marta Marzotto, dove l’artista era spesso ospite (Marta Marzotto con Laura Laurenzi, Smeraldi a colazione. Le mie sette vite (2016), Milano, Cairo, 2020, pp. 213-237, 67, 105, 126, racconta di avere ospitato Parise a Roma e nelle ville in Costa Smeralda e a Cortina)? Quel che è certo è che Luisa Spagnoli Jr. muore all’inizio di settembre 1977 mentre è ospite nel Fischburg di Giorgio Franchetti in Val Gardena precipitando in un burrone durante un’escursione. Prima di morire ha fatto in tempo a vendere, o a donare, a Marta Marzotto L’associazione e la proiezione dei ricordi. La contessa, residente a Roma negli anni Settanta, nel 1974 è infatti sicuramente la proprietaria del quadro, dato che lo presta ad Arturo Carlo Quintavalle per la prima e unica mostra pubblica di Schifano organizzata da un’università, a Parma. Nel 1994 il quadro era ancora nella “Collezione d’Arte Moderna Marta Marzotto” trasferita a Milano (Mauro Ranzani lo fotografa per una diapositiva su pellicola: la riproduzione a colori, con i dati relativi  e la cronologia erroneamente collocata al “1970 ca.”, è nell’archivio online Fondazione Alinari per la fotografia, con la scheda della diapositiva inventariata RAN-F-000835-0000 e con il titolo che ha perso ogni riferimento a quello originale: Baci Perugina, Mario Schifano, Collezione d’Arte Moderna Marta Marzotto, Milano).

 

Mario Schifano, L’associazione e la proiezione dei ricordi, 1968, smalto su tela (due pannelli), cm. 200 x 200, già Collezione d’Arte Moderna Marta Marzotto, Milano (da https://www.alinari.it/it/dettaglio/RAN-F-000835-0000; la scheda e la riproduzione sono pubblicate nel catalogo La collezione d’arte moderna di Marta Marzotto, a cura di Rossana Bossaglia, con un saggio di Giancarlo Vigorelli, progetto grafico di Gavino Sanna, Milano, Leonardo Arte, 1993, p. 105, con la stessa didascalia sbagliata e un errore anche nell’indicazione della tecnica: “Baci Perugina, anni Settanta, olio su tela, 200 x 200”).

 

Marta Marzotto ha più volte dichiarato che Schifano fu tra coloro che non si allontanarono da lei quando subì una vera e propria gogna mediatica dopo la morte dell’amante Renato Guttuso nel gennaio 1987 (si legge, per esempio, in Marzotto con Laurenzi, Smeraldi a colazione, pp. 67, 108, 192, e Marta Marzotto, Una collezione nata per caso, in La collezione d’arte moderna di Marta Marzotto, pp. 7-9: 9). Nell’autobiografia Una finestra su Piazza di Spagna spiega: “Amavo molto la pittura di Franco Angeli, di Mario Schifano, e di Tano Festa. Anche se a quell’epoca era di difficile lettura, e quindi sottovalutata, io la capivo perché conoscevo l’inquietudine, spesso la sofferenza, che la generava”.

Nella voce Eleganza Goffredo Parise non fornisce informazioni sul titolo del quadro, che in ogni caso si legge in bella evidenza in rosso al centro della superficie. Uno sguardo senza fretta al quadro ne rivela il titolo, ma anche che il rapporto con i Baci Perugina si arresta al richiamo al manifesto di Seneca; il titolo è un rinvio concettuale alle “singole parole” messe “da parte” da Schifano da un libro tradotto in italiano nel 1965, La fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty, il cui capitolo II contiene le espressioni “associazione” e “proiezione dei ricordi”. 

Adatte alla “scritta calante” sulla rielaborazione della pubblicità dei Baci, ecco quale percorso hanno fatto le parole L’associazione la proiezione dei ricordi per arrivare a campeggiare anche al centro del disegno commissionato da Arbasino a Schifano per la copertina della ristampa Einaudi di La narcisata. 

Alberto Arbasino, La narcisata, Torino, Einaudi, 1975, Collana Nuovi Coralli, 121

 

Oggi erede della stratificata tradizione che, passata da Duchamp a personaggi come Kounellis e De Dominicis, culmina nella semplificazione dell’arte concettuale ispirata al nulla e nella liquidazione della storia dell’arte, è Maurizio Cattelan. Nel 2019 Cattelan risponde a Bianca Trevisan che gli chiede: “Quanta importanza hanno i titoli all’interno della tua opera?”:

“È importante quanto il cognome: fa parte dell’identità del lavoro, e se manca è come se mancasse l’informazione su da dove viene, chi sono i tuoi antenati. Pur sapendo tutto questo, moltissimi dei miei lavori sono intitolati Untitled, e a volte mi sento come se li avessi abbandonati. Ma è anche vero che peggio di un senza titolo c’è un pessimo titolo. E io ho sempre scelto di correre il rischio minore“.

Maurizio Cattelan, Untitled, tecnica mista, 3 manichini, dimensioni reali, Piazza XXIV Maggio, Milano, veduta dell’installazione 5 maggio – 6 giugno 2004 (foto: Attilio Maranzano)

 

La storia dell’arte può essere dunque capita produttivamente anche dall’osservatorio privilegiato dagli artisti moderni, secondo due differenti punti di vista: i rimandi alla tradizione nei titoli delle opere, i rimandi alla tradizione nelle iconografie. Spesso la negazione del legame con la tradizione da parte degli artisti coincide quasi sempre con la negazione anche verbale della tradizione stessa, che si traduce ciclicamente nel concetto della “morte dell’arte” ma quasi mai si esprime in realtà effettiva. La negazione della tradizione coincide anche con il fastidio manifestato dagli artisti per l’inquadramento del loro lavoro nella storia dell’arte e con il conseguente tentativo di allontanare l’attenzione del pubblico dalle fonti delle opere attraverso l’espediente di attribuire a esse titoli semanticamente stranianti.

Esistono libri e articoli scientifici, più e meno buoni, in varie lingue, su alcuni aspetti dei titoli delle opere d’arte. Manca ancora un libro con una storia sistematica dei titoli delle opere d’arte, moderne e contemporanee (a questo argomento e alla pratica degli artisti di distogliere l’attenzione del pubblico dai legami con la tradizione usando titoli fuorvianti dedico il capitolo XIII di Le conseguenze delle mostre. II. Dare forma al vuoto: la tradizione nella Performance Art, UniversItalia 2021; ai titoli dei quadri di Schifano ho dedicato il libro Con lo Zingarelli sotto il braccio. I libri per Mario Schifano, Accademia dell’Arcadia 2022, in cui parlo anche di Dorazio. L’episodio sulla fonte di Teodorico guarda in fretta è inedito e lo presento qui per la prima volta). Si tratta di un approccio decisivo alla storia dell’arte, perché le definizioni chiariscono subito la posta in gioco e quali elementi prevalgono in un’opera secondo l’artista, che ci chiede di non essere superficiali e si prende gioco di noi se ne sappiamo meno di lui: dall’età moderna il titolo di un’opera nell’arte concettuale e in quella da biennale, da galleria, da museo, è importante quanto l’opera stessa, contribuisce alla sua vendita, è una sorta di anagrafe paragonabile alle didascalie sui cartellini di gallerie e musei (che sono più antichi dei titoli) e ai pannelli esplicativi negli spazi mercantili ed espositivi.

In attesa di una storia dei titoli, gli esempi di Dorazio, Schifano e Cattelan confermano che imparare a memoria le poesie a scuola serviva a tante cose. Sollecitare la memoria, e quindi i ricordi, serve anche a scoprire, quando si è ormai nel mezzo del cammino, che un pittore colto ha scelto il poeta Carducci per uno slogan di protesta di giovani rivoluzionari inconsapevoli; che sciami di stelle fluorescenti a casa di una contessa in Costa Smeralda hanno illuminato le memorie notturne del poeta Parise; e che, insomma, quando si smette di imparare a memoria le poesie e di leggere libri, i titoli (e le opere d’arte) non sono più seducenti come quelli di una volta (anche se la moda social delle ultime settimane per i teen agers è fingere in diretta radio di non conoscere a memoria i più famosi versi di Dante).

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; @FlConte) e Socia  corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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