Stroncature. “La felicità negata” del professor De Masi, “ovvero il liberalismo incompreso”

In quale sconosciuta filosofia ha attinto il professor Domenico De Masi una tale conoscenza della felicità da aver sentito l’urgenza di scrivere un dotto saggio sulla “felicità negata”?

Chi o cosa negano la felicità, pare arduo appurarlo, se la felicità, in essenza, nessuno sa cosa sia. Dall’inizio del pensiero umano, la ricerca della felicità, intesa nel senso dell’affannarsi a definirla, ha costituito il travaglio inconcluso di filosofi, religiosi, poeti, politici.

Ma, all’evidenza, il professor De Masi la dà per presupposta e su tale azzardata quanto ottimistica supposizione, invero un postulato, profonde la sua notevole erudizione nel tentare d’illustrare le forze avverse e le cospirazioni subdole che impediscono la felicità umana altrimenti a portata di mano come la biblica mela della Creazione.

Egli mostra e dimostra d’esser convinto non solo di conoscerla, la felicità, ma pure che la felicità è una per natura e unica per tutti, la stessa, comune agli esseri umani prescindendo dai tempi storici, dai luoghi geografici, dall’età anagrafica. Insomma, un’ipostasi. Pare davvero troppo, anche per l’illustre sociologo.

Dalla stravagante quanto infondata, anche per semplice esperienza, concezione dell’unicità e universalità della felicità degli esseri umani il professor De Masi ricava le certezze propalate apoditticamente nel volumetto “La felicità negata“, Giulio Einaudi Editore, 2022, pag.137.

Mai libro fu più esplicito, nelle intenzioni e nel risultato, come risulta dal frontespizio e dalla quarta di copertina, l’uno e l’altra straordinariamente coerenti con il contenuto. Devono essere stati approvati dall’Autore. Riportarli qui serve a mettere in chiaro il significato del libro nell’interpretazione autentica ed a scampare il Recensore dall’accusa di alterazioni e incomprensioni, forsanche dai risentimenti dell’Autore per le poco lusinghiere ma ben meritate critiche.

Leggiamo, dunque: “Non c’è progresso senza felicità e non ci può essere felicità in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. Quest’inumana disuguaglianza non avviene a caso ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità”.

E proseguiamo, sebbene storditi da tale catastrofica virulenza: “Domenico De Masi analizza qui due concezioni opposte dell’individuo, della società, dell’economia, la cui contesa verte proprio sul ruolo, il valore e l’organizzazione della vita attiva nelle sue espressioni del lavoro e dell’ozio. Da un lato la concezione della Scuola sociologica e marxista di Francoforte; dall’altro quella della Scuola economica e neoliberista di Vienna. Purtroppo ha vinto la seconda, grande nemica della felicità”.

Fummo indotti a comprare l’ultima fatica di Domenico De Masi non tanto dalla recensione più che positiva sul Corriere della Sera quanto dall’impressione indotta dalle enormità del libro riportate dal giornalista senza gli avvertimenti critici che avrebbero meritato, mentre vennero recepite sic et simpliciter alla stregua di verità per la reputazione dell’Autore, professore emerito di sociologia nello Studium Urbis nientemeno.

La lettura del libriccino, nonostante il titolo pretenzioso e il tema ambizioso, conferma la prima impressione di letteratura politica militante e nel contempo frivola, che, sotto la patina della scientificità accademica e dell’aggiornamento dottrinario e delle moderne conoscenze, ripropone triti luoghi comuni senza corrispondenza nei problemi costitutivi della condizione umana.

Chiudendo il libro, lo sconforto ebbe il sopravvento sullo stupore.

L’Autore era stato purtroppo ispirato, sebbene senza accorgersene, da quel travisamento antiscientifico della realtà che amiamo denominare “paradosso dell’illiberalismo“. Consiste in questo. “Capitalismo” e “Mercato” sono le due parole identificative del liberalismo che tuttavia più gli hanno nuociuto. I suoi nemici le usano come sineddoche per farne un bersaglio più facile, secondo loro, da denigrare, svilire, adulterare. Grazie alla figura retorica della parte per il tutto, hanno preteso di sezionare il liberalismo in componenti separate facendone di ciascuna un fantoccio polemico, senza voler o poter comprendere che il liberalismo costituisce la più potente gnoseologia della civilizzazione umana, la più complessa e completa teoria della conoscenza e spiegazione fattuale dello sviluppo sociale di individui indipendenti che cooperano in libertà.

“Quest’inumana disuguaglianza”, scrive il professor De Masi, “non avviene per caso, ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza, come obiettivo l’infelicità” (i corsivi sono nostri).

Egli aggiunge che l’aveva già capito Karl Marx, secondo il quale, citazione alla mano, “l’economia genera avidità di denaro e la guerra tra coloro che ne sono affetti, la concorrenza”. Il vecchio Marx, neanche a dirlo, è un prediletto dell’Autore che, pur sentendosi un raffinato interprete della “politica del tempo” (André Gorz), prende a prestito dall’armamentario del comunismo “scientifico” la chiave di lettura del presente. Insomma pretende che una mummia egizia reciti Shakespeare.

Quanto al “paradosso dell’illiberalismo” il professor De Masi raggiunge la perfezione del genere.

Gliene va dato atto. Che il Capitalismo sia un essere abietto e malvagio, devastato dall’odioso proposito di procurare l’infelicità degli umani pare all’Autore una verità di per sé evidente, tanto da dare per assodato che ci riesca benissimo, con la forza del connaturato egoismo dispiegato nella concorrenza nient’altro che una guerra.

Lamentando con Herbert Marcuse che la società capitalistica è “una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà”, l’Autore fa suo l’interrogativo esiziale della Scuola di Francoforte: “Come era possibile che si fosse passati dalla logica del dominio dell’uomo sulla natura a quella del suo dominio sul mondo e sull’uomo stesso, per cui l’individuo, mirando a diventare libero, felice e padrone di sé grazie all’illuminismo, si ritrovava schiavo infelice e massificato nella società di massa?”

Ecco le colpe del Signor Capitalismo e del Signor Mercato: hanno schiavizzato, massificato, infelicitato l’umanità! Al contrario, la Scuola di Francoforte ha provato a liberarla anche con lo studio della psicanalisi, circa la quale non ci stanchiamo di avvalerci, ogni volta che torni a proposito, della definitiva sentenza di Richard Feynman, premio Nobel, tra i più grandi fisici del Novecento. “Tra parentesi, la psicoanalisi non è una scienza: è una pratica medica, un po’ come la stregoneria. La stregoneria ha una teoria sulle cause delle malattie: un sacco di spiriti, questo e quello. La malattia, sostiene per esempio lo stregone, è causata da uno spirito che entra attraverso l’aria; questo è vero, c’è qualcosa che entra attraverso l’aria, ma non è lo stesso tipo di spirito e non lo si scaccia agitando, per esempio, un serpente; il chinino è invece d’aiuto contro la malattia. Quindi, se siete malati vi consiglio di andare dallo stregone, perché nella tribù è quello che ne sa di più sulle malattie; tuttavia, la sua non è una scienza” (“Le battute memorabili di Feynman“, Adelphi Edizioni, 2017, pag.152).

A questo punto dobbiamo confessare che il libro del professor De Masi, sposando le impostazioni sociologiche della Scuola di Francoforte e degli scrittori che la formarono o vi si rifecero (Marcuse, Fromm, Horkheimer, Adorno, Habermas, eccetera), cade nello stesso involontario umorismo di certe loro bizzarre affermazioni.

Per esempio, l’insistenza su espressioni come “la società di massa massifica” oppure “il mercato mercifica” ovvero “l’economia reifica” e “la civiltà esige il disagio della nevrosi e la rinuncia alla felicità”. E qui lo sgomento Recensore domanda all’Autore se l’infelicità umana sia dunque determinata intenzionalmente, dolosamente bisogna precisare, da entità personificate come “Capitalismo” e “Mercato” oppure costituisca l’inevitabile e naturale conseguenza dell’ambiguo ed impersonale intero processo di civilizzazione, assimilato, sembra a noi, ad una distruttiva creatura mitologica: Crono che divora i suoi figli.

“Il progresso è ambivalente perché produce sempre più benessere e sempre più oppressione, cioè infelicità… ma nulla dimostra che anche in futuro la civiltà debba coincidere con la repressione, il progresso con il dominio”. Il benessere, che genera oppressione, repressione, dominio, dipende dal fatto che “la cultura dominante è basata sul sacrificio metodico della libido”.

Così il freudismo viene elevato a “teoria unificata” dello sviluppo sociale, un’impresa non riuscita neppure ad Einstein nel campo della fisica. Dal libro di Herbert Marcuse “L’uomo ad una dimensione“, “testo sacro della controcultura rivoluzionaria e libertaria” lo definisce il professor De Masi, egli ricava pure che “la ricchezza crescente si concentra nelle mani di un numero decrescente di persone”, un’affermazione smentita dalle statistiche economiche. Proprio i sociologi vi riscontrano che nel mondo non ci sono mai stati tanti ricchi tanto ricchi come adesso, in continua crescita.

Sembra una curiosità, ma non poi tanto, la notazione del professor De Masi secondo cui “i francofortesi, in nome dell’oggettività e della distanza necessarie alla critica, si isolarono dal mondo circostante e dalla cultura dominante finché restarono in Germania; poi, per sfuggire al nazismo, si esiliarono scappando in America.” Radicali nel pensiero, élites accademiche, lontani dalla politica militante, ma accomodati al sicuro nel grembo ospitale della nazione più somigliante all’inferno che aborrivano nei loro libri!

***

Dopo aver affermato quasi tutto il bene possibile della Scuola di Francoforte e dei “francofortesi”, il professor De Masi non si trattiene dal dire peste e corna della Scuola di Vienna, fino a frasi come queste, che sconcertano per la carica denigratoria e la confusione scientifica.

La prima: “Da bravo neoliberista, Ludwig von Mises criticò il liberalista (sic!) Stuart Mill rimproverandogli di essere ‘il più grande avvocato del socialismo’. Con Mises, anche gli altri seguaci della Scuola di Vienna trascurarono la ricerca della felicità per concentrarsi su quella della ricchezza, fino al punto da ritenere del tutto compatibile con la deontologia professionale di un economista prestare la propria consulenza a un dittatore come Pinochet”.

La seconda: “Pinochet ispirò la sua Costituzione liberticida al saggio Società libera (1960) di Hayek”. Questa affermazione costringe la ragione del Recensore nella morsa del trilemma se Pinochet oppure De Masi ovvero entrambi abbiano stravolto “La società libera“, un vero capolavoro senza ambiguità.

E così il professor De Masi si lascia scappare l’allusiva associazione del liberismo alle dittature fasciste, un accostamento tanto scorretto intellettualmente quanto falso politicamente e scientificamente, se non altro perché la Scuola di Vienna, per chi ha letto e  compreso le opere di quei giganti, non ha mai fatto granché differenza tra comunismo e nazismo, socialismo collettivistico e fascismo dirigistico, negatori della “libertà dei liberali”, come ci ostiniamo a chiamarla proprio per distinguerla da quella che hanno in testa i pensatori come il professor De Masi pur se e quando ne usino il nome, costoro preferendo in genere liberazione.

L’Autore scorge qualche pregio dei “marginalisti” nello “stile rigoroso negli studi, battagliero nei dibattiti, goliardico nel piglio” e nella “cultura interdisciplinare che conferiva spessore e ampiezza alla scienza economica cui si erano votati con fervore e rigore quasi religiosi”.

Nondimeno li ridicolizza e sminuisce dipingendoli quasi come maneggioni ed intrallazzatori, guitti ed agit-prop: “Compresero che, per imporre in tutto il mondo la torsione che a quella scienza essi ambivano imprimere, occorreva frequentare i luoghi e le persone che contano, corteggiare mecenati, soddisfare finanziatori, occupare cattedre universitarie, cariche ministeriali, presidenze bancarie e di camere di commercio, suonando spregiudicatamente tutte le corde della propaganda, dalle canzoni da osteria alle riviste più esclusive”.

Non s’avvede, il professor De Masi, di descrivere non già la Scuola di Vienna del XIX e XX secolo ed i suoi straordinari protagonisti, bensì il milieu italiano d’oggi che l’Autore mostra di così ben conoscere, sociologicamente parlando? Egli sta riferendosi nientemeno a Menger, Boehm-Bawerk, Wieser, Mises, Hayek, i quali, a sentire l’Autore, avevano addirittura la colpa di essere “tutti von, cioè nobili, aristocratici, ricchi, ben istruiti e introdotti.” Nonostante questi loro preclari caratteri, vengono descritti come impegnati in “un assiduo esercizio di lobbying e pubbliche relazioni ed è questo l’aspetto distintivo della Scuola di Vienna, ciò che più la differenzia sia dai liberalisti (sic!) classici, sobri, pedagogici, attenti ai sentimenti umani, sia dalla Scuola di Francoforte, riservata, lontana dai partiti, dai soldi e dai luoghi di potere”.

Tuttavia, i principali “francofortesi”, lo ricorda sempre l’Autore, non si curavano dei soldi perché li avevano già di famiglia.

L’Autore istituisce una distinzione, quasi divisione, tra i liberali classici, Locke, Smith, Bentham, Mill, citati per elogiarli d’aver fatto riferimento alla felicità, meglio se di molti o di tutti, e i liberisti della Scuola di Vienna e successori, che invece avrebbero di mira soltanto la ricchezza.

È strano che il più classico dei liberali, David Hume, il gemello siamese in scienza e sapienza di Smith, non venga neppure citato. Questa contrapposizione tra, per dire, “economisti della felicità” ed “economisti della ricchezza” è campata per aria e lascia il tempo che trova. Certo non veniva teorizzata negli istituti viennesi dove la “rivoluzione marginalista” (mai ricordata dall’Autore, se non indirettamente citando l’omonimo libro di Y. Wasserman!) dettava legge per merito delle ricerche e degli studi dei liberisti, così originali da imporsi all’attenzione del mondo perché, di fatto, rifondavano l’economia su basi completamente nuove non solo, ma anche scientificamente esatte e perciò utili a capire ed agire.

L’Autore annota, quasi incidentalmente: le loro teorie “…seppero attrarre nei loro seminari viennesi personalità di spicco come Max Weber e Lenin, Stalin e Trockij”.

Weber trasse il massimo giovamento dagli insegnamenti, diventando un pensatore liberale. Supponendo che quelle teorie li abbiano davvero attratti, gli altri tre non ne appresero nulla, anzi l’opposto, mentre risulta che avessero più dimestichezza con le gozzoviglie nei bar di Vienna.

I tre rivoluzionari comunisti marxisti, benché la Scuola di Vienna avesse già dimostrato che l’economia collettivizzata non può funzionare, soppressero in Russia la proprietà privata e, dove governarono loro ed i loro emuli ed epigoni, realizzarono spietatamente il comunismo mediante ogni genere di “oppressione, repressione, dominio”, a prezzo d’indicibili sofferenze e milioni di morti, proprio per perseguire la felicità che il comunismo prometteva a tutti. Il comunismo, non il capitalismo o il mercato, ha determinato ovunque l’infelicità di massa. Soltanto il comunismo e il nazismo, et similia, conoscono gulag e lager.

***

La seconda parte del libro del professor De Masi è dedicata al lavoro e all’ozio. Qui a noi non interessa, se non per confermarne l’impostazione generale, con l’eccezione dell’ozio creativo, una definizione che l’Autore vanta d’aver coniato ma che invece, a ben vedere, si trova nel vocabolario latino, come nome e come concetto.

L’otium, tranquillità, agio, tempo libero, riposo, era contrapposto alla sua negazione nec otium, negotium, attività, affari, occupazioni, lavoro.

L’Autore concede che l’ozio possa procurare la felicità “a coloro che avranno il privilegio di svolgere attività creative”, ma contraddicendosi smaccatamente, perché l’otium è una condizione libera per definizione. In genere coincide con “la libertà di fatto”, cioè non regolata dal diritto che invece disciplina il negotium. Con la libertà di oziare creativamente la felicità è dunque possibile. A riguardo l’Autore potrebbe trarre il necessario giovamento dalla “scacchiera di Adam Smith”.

Ma anche con riguardo ai problemi del lavoro troviamo affermazioni sbagliate o sconcertanti, che fanno riflettere, come provano due esempi.

Il primo: “La ripartizione iniqua del plusvalore tra profitti e salari”. La frase riaccredita un errore esiziale che tocca l’architrave del socialismo sedicente scientifico e che comprova la fallacia del marxismo. Il plusvalore designa una cosa che non esiste, irreale, e dunque non può essere né ripartito né sottratto. Il plusvalore è basato sulla teoria oggettivistica del “valore-lavoro” che proprio gli antesignani della Scuola di Vienna confutarono con l’acquisizione del concetto di “utilità marginale”, basato invece sul valore soggettivo.

Aver considerato veritiera e fondata la teoria del “valore-lavoro” ha causato sciagure morali e materiali proprio ai lavoratori così ingannati: poiché il valore del prodotto coincide con il lavoro occorso a produrlo e il datore di lavoro incamera una parte di tale valore sotto il nome di profitto, ne consegue che il lavoratore non riceve tutto il salario ma gliene viene sottratta una percentuale corrispondente alla quota di profitto.

Il secondo: “È motivo di alienazione la mancanza di meritocrazia ma pure la stessa meritocrazia”. Sic!

Infine, a mo’ di conclusione, il Recensore ritiene utile riportare una frase dell’Autore che ne sintetizza le idee espresse nel libro: “La lizza è durata molti decenni e, allo stato attuale, ad apparire vincente è il gruppo viennese, con conseguenze devastanti per il benessere e la felicità di miliardi di esseri umani”.

Lo sviluppo e l’affermazione della società libera costituiscono dunque l’apocalisse dell’umanità?

L’Autore della Felicità negata risponde pressappoco sì, incurante della cooperazione volontaria, delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane, della concorrenza come procedimento di scoperta, dell’incolmabile ignoranza e irrimediabile fallibilità degli attori economici e politici, insomma del liberalismo come pensiero e come azione, della “libertà dei liberali” nella teoria dei classici e nella pratica storica. Nonostante gli errori commessi e le manchevolezze irrisolte, resta che il liberalismo ha reso il mondo più libero, più prospero e, purtroppo per l’Autore, più felice.

 

Pietro Di Muccio de QuattroDirettore emerito del Senato, Ph.D. Dottrine e istituzioni politiche

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