Chi ha paura di un cartellone bianco? Breve storia della battaglia sociale con l’astrazione

Sabato 12 marzo in piazza a Nizhnij Novgorod due poliziotti hanno arrestato una donna con indosso un soprabito imbottito, un berretto di lana, una mascherina chirurgica, dei guanti e un cartellone tutto bianco tra le mani. A Ivanovo è stato arrestato un uomo che teneva in mano un cartellone su cui c’erano degli asterischi.

Sui social media il fatto che la polizia russa abbia arrestato manifestanti silenziosi armati solo di un cartellone bianco ha suscitato incredula curiosità perfino tra intellettuali italiani esperti di cultura russa o vincitori di prestigiosi premi letterari.

Nella contrapposizione ideologica da nuova guerra fredda tra Russia e Paesi aderenti alla NATO, in cui adesso siamo sanguinosamente immersi tutti i giorni, l’astrazione come arma di dissidenza è stata protagonista delle cronache ed è sembrata una curiosa novità.

In realtà, la dissidenza politica attribuita (a ragione o a torto) dai Paesi già comunisti a grandi superfici monocrome, spesso tutte bianche, ha una tradizione visiva ininterrotta dal Novecento; ininterrotta è anche una seconda, opposta tradizione interpretativa.

A seconda dei punti di vista ideologici e politici, e con una certa confusione che perdura, dal secondo dopoguerra l’astrazione è stata considerata una forma di dissidenza rispetto ai valori del Paese governato da un regime totalitario comunista, a favore di presunti valori occidentali; oppure è stata considerata mollemente decorativa, ove realizzata in un Paese occidentale in cui non avrebbe una funzione sociale didattica e didascalica ma di intrattenimento.

Per chi propende per la seconda opzione interpretativa (l’astrazione è decorativismo degenere praticato dagli espressionisti astratti americani), ci sarebbe addirittura una data convenzionale: il 1° marzo 1951, quando il servizio di moda The New Soft Look esce su “Vogue USA”. A p. 158 della principale rivista di moda e costume del mondo è stampata una foto a colori in cui il fotografo dei reali Windsor, Cecil Beaton, ha ritratto una modella con un abito da cocktail di Irene e Henri Bendel davanti a uno dei quadri di riferimento dell’espressionismo astratto usato come sfondo: Autumn Rhythm (Number 30) di Jackson Pollock, esposto alla mostra personale del pittore sulla cinquantasettesima strada (a New York) nella galleria di Betty Parson insieme ad altri due grandi quadri, Lavender Mist e Number 27, usati come altrettanti sfondi per abiti.

 

Cecil Beaton, The New Soft Look, “Vogue USA”, March 1, 1951, p. 158

 

Ecco perché nel luglio 2020 sono stata tra i pochi storici dell’arte che non si sono scandalizzati vedendo Chiara Ferragni fare (bene) il suo lavoro fotografata da Michael Pudelka davanti a quadri che sono il simbolo stesso del Rinascimento, come la Nascita di Venere di Botticelli agli Uffizi, usati come sfondo per una campagna di moda destinata al numero di ottobre di “Vogue Hong Kong”.

A settembre ho poi spiegato agli studenti curiosi che, semmai, qualche perplessità suscita lo sfrenato e ormai quasi esclusivo uso commerciale di un patrimonio pubblico unico al mondo da parte di chi lo amministra (le fotografie di alta moda davanti ai quadri di Pollock furono scattate in una galleria privata che li esponeva a esplicito scopo di venderli, non in un museo pubblico che conserva un patrimonio altrettanto pubblico).

 

Michael Pudelka, Chiara Ferragni agli Uffizi davanti alla Nascita di Venere di Botticelli, “Vogue Hong Kong”, ottobre 2020

 

In realtà, Ritmo d’autunno, Nebbia lavanda, Numero 27 di Pollock hanno ben poco a che vedere con decorativismo chic e cicalecci da vernissage. Jackson Pollock li ha dipinti ubriaco, insoddisfatto e depresso, in uno stato somigliante alla trance, come testimonia Hans Namuth che ha catturato le fasi della creazione di Autumn Rhythm.

 

Hans Namuth, Jackson Pollock dipinge Autumn Rhythm (Number 30), 1950

 

In generale, le biografie degli espressionisti astratti attivi negli USA rivelano esistenze tormentate e una ricerca pittorica di significati lontanissimi dal decorativismo. Il perfezionismo ossessivo unito all’ambizione porta all’autodistruzione, man mano che, paradossalmente, arriva e cresce il successo: Pollock, alcolista, muore di incidente d’auto quando è già entrato nella leggenda; Willem de Kooning, alcolista, attraversa fasi depressive alterne e muore malato di demenza senile; Barnett Newman ricerca il sublime, ma resta a lungo incompreso da pubblico e mercato; Mark Rothko, alcolista, si suicida in modo cruento e quasi spettacolare.

L’arte astratta è strettamente correlata con l’individualismo, la sofferenza psicologica, le dipendenze, il corpo a corpo con le superfici e i materiali, la ricerca forsennata del successo equivalente a una conferma del proprio valore, oltre che a un ritorno economico.

La misura monumentale delle superfici non può essere inferiore al genio di chi le dipinge, come nel caso di Pollock e Rothko; non deve comunque essere inferiore alla misura umana del corpo del pittore. Nel febbraio 1951 de Kooning pronuncia al MoMA il discorso What Abstract Art Means to Me, che contiene un’affermazione che farà il giro del mondo, recepita anche dai prensili giovani pittori romani: “Se allungo le braccia vicino al resto di me e mi chiedo dove sono le mie dita, ecco, quello è lo spazio di cui ho bisogno per dipingere”.

Nonostante i molti tormenti e le rare estasi degli astrattisti americani, durante gli anni della Guerra fredda intellettuali e storici dell’arte avevano una visione contraddittoria della loro pittura. Kirk Varnedoe, curatore capo del Dipartimento di pittura e scultura del MoMA e professore di Storia dell’arte a Princeton, nel 2003 ha riassunto lo stato delle cose: “La sinistra è incerta se considerare l’espressionismo astratto un oppiaceo o un cocktail, uno sgradevole cavallo di Troia per i valori americani o un patetico lacchè del capitalismo americano. Ad ogni modo, l’ipotesi è che l’astrazione – e l’espressionismo astratto in particolare – è troppo facile da manipolare, il suo significato è troppo poco chiaro ed è troppo utilizzabile dai malintenzionati”.

Varnedoe ha pronunciato questo bilancio delle diverse posizioni poco prima di morire, davanti a un pubblico variegato che assisteva a un ciclo di sei lezioni organizzate dalla National Gallery of Art di Washington sull’origine, lo sviluppo e i significati della pittura astratta. Varnedoe, che alla storia della pittura moderna ha dedicato studi e libri importanti ma facili da leggere anche per i non specialisti, ha così bene organizzato le sei lezioni (come accade quasi sempre ai colleghi stranieri, abituati a far coincidere ricerca, didattica, divulgazione) che nel 2006 è stato possibile pubblicarle nel libro Pictures of Nothing. Abstract Art since Pollock (la mia traduzione è dalle pp. 53-54).

Si tratta di un libro che fin dal titolo e dalla copertina mette in chiaro le cose: la periodizzazione di Varnedoe delle “immagini del niente” comincia con Pollock, in copertina c’è un’opera quadrata polimaterica tutta bianca del 1982 di Robert Ryman.

 

Il fatto è che, prima ancora dei pigmenti e dei materiali utilizzati con disperato e temerario accanimento dagli espressionisti astratti, a mettere a disagio lo spettatore sono proprio le dimensioni dei quadri, che possono arrivare a cinque metri per quasi tre metri: le dimensioni di quadri che non sono più quadri ma oggetti sono quindi esse stesse un vero e proprio mezzo comunicativo che disorienta l’osservatore, obbligandolo a uscire dalle regole tradizionali del campo visivo a cui è abituato.

Barnett Newman instaura addirittura un rapporto agonistico con il pubblico, intitolando una serie di tele monumentali Chi ha paura del rosso, del giallo e del blu? (evidente è l’assonanza con il ritornello della canzoncina Who’s Afraid of the Big Bad Wolf?, a sua volta alla base del titolo Who’s afraid of Virginia Woolf?,popolarissimo dramma teatrale del 1962, trasposto al cinema nel 1966 con i coniugi Burton-Taylor come protagonisti).

La tela della serie conservata a Berlino è stata, non a caso, oggetto di turbamento da parte uno studente quasi trentenne, Josef Nikolaus Kleer, che il 13 aprile 1982 ha vandalizzato l’opera: ci ha visto un’iconografia “dissidente” coincidente con “una perversione della bandiera tedesca”, ritenendo lo stesso titolo dell’opera una sfida a completarla, attuando un’azione finalizzata a dimostrare che “il grande lupo cattivo” non fa paura a nessuno.

Barnett Newman, Who’s Afraid of Red, Yellow and Blue IV, 1969–1970, olio su tela, 274 x 603 cm, Berlin, Nationalgalerie

 

Un grande quadro astratto monocromo o non figurativo, dunque, destabilizza perché può prestarsi a un’interpretazione in chiave politica, con la complicità del titolo che gli assegna l’autore. Fraintendimenti di questo tipo diedero origine a una ricezione dell’espressionismo astratto non subito favorevole negli anni Cinquanta e Sessanta, sia negli USA sia in Europa. Il presidente Truman avrebbe affermato: “Se questa è arte, io sono un ottentotto”.

Inchieste giornalistiche e studi più o meno recenti hanno perfino ricondotto a un’azione del governo americano l’improvviso successo degli espressionisti astratti a lungo osteggiati. Finito il Maccartismo che aveva creato un clima di terrore negli USA in nome di una presunta lotta al comunismo, l’incentivazione della cultura americana negli USA e in Europa passò attraverso la promozione della “libertà di espressione” nei quadri degli espressionisti astratti di cui sarebbe stata incaricata la CIA.

Mostre, libri e articoli avrebbero avuto come scopo la divulgazione di una lettura dei grandi quadri di Pollock, Rothko, de Kooning in chiave tautologica: un quadro è un quadro, significa sé stesso e basta, e gli artisti che dipingono senza il vincolo di rappresentare la realtà attestano la libertà di cui, in generale, si gode negli USA.

In questo modo, promuovendo la pittura monumentale non figurativa, senza ricorrere alle parole la CIA avrebbe delegittimato il realismo socialista monumentale (ecco l’idea del cartellone bianco che fa paura in certi contesti), l’unico ammesso dai comunisti in Russia e nei Paesi in cui era forte l’influenza di partiti che si rifacevano a quell’ideologia.

Fu anche il caso dell’Italia, dove il segretario nazionale del PCI di quegli anni si allineò alla denigrazione contemporanea dell’astrattismo (per conoscere alcuni degli aspetti della politica culturale del PCI nel secondo dopoguerra si può partire dal libro di Albertina Vittoria, Togliatti e gli intellettuali. La politica culturale dei comunisti italiani (1944-1964), Carocci 2014).

Negli anni Ottanta un artista che era diventato un famoso pittore non figurativo, Piero Dorazio, esprime la consapevolezza storica che i ruoli del mercato e del Partito comunista sono stati determinanti nel creare a Roma la domanda di quadri grandi e il passaggio dall’astrattismo al realismo dall’inizio degli anni Cinquanta:

“Bisogna ricordarsi che a quell’epoca nessuno a Roma dipingeva quadri grandi perché era costoso e non c’erano pubblico, né gallerie, né acquirenti. La dimensione della pittura di quegli anni era quella stabilita più o meno da Mafai e dalla Scuola romana; un quadro che superasse un metro e cinquanta o due metri di altezza era una cosa eccezionale. Soltanto dopo l’arrivo di Matta a Roma nel ’49, Burri dipinse il primo quadro grande, seguito poi da Guttuso e Mafai nei quadri di propaganda del Realismo socialista. […] Togliatti, al Convegno della Cultura a Bologna [1948], fece un discorso, pubblicato poi su «Rinascita» a firma Roderigo di Castiglia, in cui condannava l’arte astratta come degenerata, fatta da bambini o da pazzi, borghese, decadente e parassitaria. Gli astrattisti furono messi ufficialmente al bando fin quasi al 1962 e questo voleva dire essere esclusi da mostre, vendite e concorsi”.

Ecco, quindi, che Enrico Castellani, amico di Piero Manzoni e autore di quadri tutti bianchi e polimaterici (nel 1966 espone alla Betty Parsons Gallery dove erano stati fotografati i quadri di Pollock per “Vogue USA”), viene coinvolto nelle prime vicende giudiziarie delle Brigate rosse. Nel 1971 Castellani è accusato dalla Procura di Milano, che poi revoca il mandato di arresto, di avere avuto un ruolo nell’attentato del 25 gennaio allo stabilimento Pirelli a Lainate: con otto bombe posizionate sulla pista di prova degli pneumatici, le Brigate rosse contestano l’imposizione agli operai dell’aumento dei ritmi di lavoro e del cottimo.

Enrico Castellani, Superficie bianca, 1971, acrilico su tela di cotone estroflessa, 120 x 100 cm, Milano, Museo del Novecento

 

Un collega contemporaneo di Dorazio, Mario Schifano, che insieme a Giangiacomo Feltrinelli avrebbe finanziato saltuariamente i ragazzi del gruppo della contestazione estremista romana “Gli uccelli” (secondo Sandro Favale che di quel gruppo faceva parte), traccia un bilancio dell’evoluzione dall’astrattismo alla pittura figurativa, rifuggendo progressivamente dalle interpretazioni ideologiche.

A Enzo Siciliano nel 1972 Schifano dice: “Fare un quadro giallo […] era fare un quadro e basta. Le perplessità sono nate quando i critici ci hanno steso sopra le loro motivazioni e un’intera letteratura”.  A “Vogue Italia” del novembre 1985 spiega con chiarezza che, come per gli americani, i suoi monocromi erano una rivendicazione aggressiva: la pittura deve rappresentare sé stessa e basta, pur se il pittore ha progressivamente maturato un prodigioso ritorno alla figurazione coincidente con una disillusa presa di distanza dal clima politico in cui aveva realizzato i monocromi:

“Ho riflettuto sul mio lavoro dal ’60 a oggi. Io non pensavo di fare pittura. Non posso essere così cretino da fare un quadro tutto giallo e poi dire: “Faccio il pittore”. Era un’altra cosa, con più violenza. Per molti anni la spinta era totalmente concettuale, lucida; i rossi, gli smalti industriali. Tra l’altro, penso che i quadri di adesso sono più belli dei monocromi. […] Non si fa la battaglia sociale con la pittura”.

Mario Schifano, Vero amore n. 3, 1962, smalto su carta montata su tela, 200 x 160 cm, Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Fondazione CRT

 

Reclamando in aggiunta l’ispirazione progressivamente figurativa venuta dai cartelloni per strada, dalle insegne, poi dalla televisione, Schifano negli stessi anni Ottanta conclude: “Erano quadri figurativi, non un’operazione critica”.

Possiamo ora tornare all’episodio del cartellone tutto bianco esposto in pubblico in una piazza russa il mese scorso. Forse adesso è più chiaro perché, in determinati periodi storici, in certi paesi può essere un reato esporre in pubblico una superficie bianca e perché in altri la notizia dell’arresto di chi esce in piazza con un semplice cartellone tutto bianco suscita interrogativi e incredulità.

N.B. La parte del testo di questo articolo contenente fonti e analisi critiche su Dorazio e Manzoni anticipa parti del mio libro Con lo Zingarelli sotto il braccio. I libri per Mario Schifano, Roma, Accademia dell’Arcadia, Collana “Il Bosco Parrasio”, dalla fine di aprile disponibile nelle librerie online e in open access gratuito qui: https://www.accademiadellarcadia.it/category/notizie/il-bosco-parrasio/).

 

Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia e Socia  corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia

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