Oltre che isola, la Sicilia è terra di confine: confine meridionale della penisola italica, lunga e variegata nelle sue molteplici fisionomie; confine tra continenti distanti per cultura e costumi di vita: l’Europa e l’Africa. Questa condizione geografica, assieme alla posizione strategica al centro del Mediterraneo che l’ha resa appetibile a tante popolazioni, ha influito abbastanza sulla storia e sulla cultura della Sicilia.
La storia dell’isola è segnata dal succedersi di aggressioni militari, conquiste, dominazioni. Ciò ha reso la Sicilia crocevia di civiltà diverse e, nello stesso tempo, anche in ragione del suo porsi a confine tra realtà territoriali e culturali contrastanti, luogo di dialogo tra i popoli.
L’intrecciarsi di razze, caratteri, costumi differenti in una terra di confine ha fatto della Sicilia un universo composito connotato da tratti fortemente caratterizzanti, seppure policromi, che ne accentuano l’unicità.
Ed è proprio la spiccata singolarità – frutto paradossalmente, oltre che dell’insularità e della posizione di confine, della promiscuità – che fa assumere alla Sicilia, in ciò concorrendo anche la sua rigogliosa natura, una dimensione fantastica e onirica; dimensione rivelata dal fluente fiorire della mitologia.
Poche terre, come la Sicilia, sono state visitate da leggende e miti. E tra i miti assume particolare rilievo quello di Persefone, la bella fanciulla figlia di Demetra, dea della fertilità, rapita da un innamoratissimo Ade, la quale – grazie alla mediazione di Zeus – trascorre la sua esistenza metà dell’anno tra gli inferi, regno di Ade, e metà nella terra. Un mito ricco di valenze metaforiche non già perché in esso affonda le radici la “fuitina”, prassi a lungo praticata nell’isola per regolarizzare relazioni amorose, ma perché riflette, per dirla con Gesualdo Bufalino, l’eterna sospensione della Sicilia ‹‹tra vita e morte, splendore di prati primaverili e tentazione del buio››, in altre parole il confine tra la luce e il lutto (altra espressione cara allo scrittore di Comiso).
D’altra parte l’unicità della Sicilia conduce, da un lato, a un senso di vanagloria insito in molti siciliani che vedono nella propria diversità un segno di superiorità e, talvolta, di onnipotenza (si pensi a Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al suo Il Gattopardo, autentico capolavoro di sociologia letteraria, in cui si legge che i siciliani si considerano degli “dei”), dall’altro a rappresentare la Sicilia con tinte forti che enfatizzano oltre misura ogni vicenda o figura dell’isola.
L’unicità della Sicilia trova riscontro tutt’oggi nella “specialità” della Regione, nel suo atipico status giuridico in seno all’apparato dello Stato italiano. Come è noto, infatti, alla Sicilia venne concesso, nel 1946 prima ancora del varo della Costituzione, uno Statuto speciale che ne esalta l’autonomia sino a sconfinare, in alcuni suoi istituti, nel federalismo. L’ampia autonomia speciale riconosciuta alla Sicilia nel Dopoguerra fu dettata dalla necessità. Avvertita dallo Stato, di far fronte alle spinte e ai fermenti indipendentistici e separatisti allora in voga. L’autonomia specialissima della Regione Siciliana– di cui si è fatto pessimo uso-, nel tempo attenuata dalla giurisprudenza costituzionale omologante, si ricollega alla perifericità politica e culturale dell’isola, al suo essere terra di confine.
L’unità d’Italia non è mai stata del tutto accettata dalla Sicilia
E, a parte taluni “laboratori politici” sorti in Sicilia in dissonanza con le linee politiche nazionali (il più eclatante è stato il cosiddetto “Milazzismo” negli anni Cinquanta), ancor oggi si registrano frequenti contrasti tra gli indirizzi politici regionali e nazionali. Inoltre continuano a costituirsi in Sicilia movimenti o partiti politici che si richiamano all’autonomia, ottenendo talvolta significativi successi elettorali (si pensi all’Mpa, Movimento per l’Autonomia, che non molti anni fa ha riscosso larghi consensi al punto che il suo fondatore, Salvatore Lombardo, divenne presidente della Regione).
Molto ha inciso sul carattere dei siciliani la posizione geografica dell’isola di confine e nello stesso tempo strategica per operazioni militari di controllo territoriale. Una terra, la Sicilia, ambita e perciò vulnerabile, da conquistare e possedere in quanto punto di riferimento nello scacchiere della politica internazionale, come la storia testimonia. Vivere in una terra soggetta a continue aggressioni belliche e meta di approdi ha sviluppato nei siciliani due opposti stati d’animo: da un lato la diffidenza, dall’altro lo spirito di accoglienza. La diffidenza dei siciliani, che si manifesta in atteggiamenti di estrema cautela, circospezione e apprensione nelle relazioni anche tra gli stessi isolani, è proverbiale; come pure è proverbiale, paradossalmente, l’inclinazione all’accoglienza dei siciliani.
Spiegare una simile dicotomia nel carattere dei siciliani è assai difficile
Si potrebbe azzardare che, mentre la diffidenza sia stata originata da come generalmente si sono comportati nei confronti della Sicilia i suoi conquistatori depredandola e sfruttandola in nome dei propri interessi, la “vocazione” all’accoglienza sia dipesa e dipende dall’essere terra di frontiera e dalla sua insularità. In un’isola di confine il senso di solitudine è più acuto che altrove. Sulla solitudine dei siciliani Luigi Pirandello ha osservato che essi ‹‹avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di questo aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l’ha, la sua poca gioia, da sé, taciturno e senza cercare conforti, si soffre del suo dolore spesso disperato››.
Questa solitudine, accompagnata dalla sofferenza, dalla familiarità con il dolore, ha accentuato nei siciliani la solidarietà con chi versa in condizioni esistenziali precarie. Ciò trova riscontro nella drammatica realtà dell’immigrazione africana nelle coste siciliane e nell’accoglienza dei siciliani ai disperati che fuggono dalle loro terre in cerca di un futuro diverso affrontando viaggi avventurosi e spesso rovinosi se non letali. Tanto si manifesta soprattutto in quell’isola nell’isola che è Lampedusa, diventata in questi anni monumento della solidarietà e dell’accoglienza.
L’essere transitate in Sicilia tante civiltà diverse ha contribuito a rendere il carattere dei siciliani multiforme. La complessità dei siciliani fu notata da Edmondo De Amicis nel corso del suo viaggio nell’isola. Lasciando la Sicilia a conclusione del suo tour, all’autore di Cuore rimasero impresse le ‹‹pupille oscure›› dei siciliani rivelatrici di anime esacerbate e complesse: ‹‹Sono esse veramente l’espressione visibile della profondità e della complessità del carattere siciliano, così difficile da definirsi, così vario in sé medesimo, e pieno di contraddizioni, di disarmonie e di lacune; per cui disse uno scrittore dell’isola che il siciliano “pensa e sente come un arabo, agisce come un greco, concepisce la vita come uno spagnuolo”››.
D’altra parte Leonardo Sciascia sottolineò la dualità di anime nei siciliani: quella romana, ‹‹ragionevole e realistica››, quella araba ‹‹principio di creatività fantastica e surreale, zeppa di riferimenti alle Mille e una notte››.
Sentimento contrastante nei confronti del potere
L’essere stata la Sicilia assoggettata – in quanto terra di confine – a tante dominazioni che in essa hanno esercitato il potere spesso in modo arbitrario e spavaldo ha generato nei siciliani un sentimento contrastante nei confronti del potere. Da un lato i siciliani subiscono il fascino del potere o mostrano accondiscendenza e complicità nei suoi confronti per paura di esserne soggiogati; dall’altro l’ingiustizia del potere fine a se stesso, la tracotanza che vi è insito, fa emergere – per contrasto – uno spiccato senso di giustizia rivelato, oltre che da figure esemplari di magistrati interregimi (si pensi a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino e ai non pochi custodi della giustizia che per essa hanno sacrificato la propria vita), dai numerosi siciliani che si dedicano, con passione e rinunce null’affatto semplici, al delicatissimo mestiere di giudice.
Il fascino perverso del potere si coglie in un proverbio siciliano che non è un azzardo definire sinistro: ‹‹Cumannari è megghiu cà futtiri››. Così come il machiavellismo e l’estrema disinvoltura nel maneggio del denaro pubblico e nell’asservimento subdolo al potere di taluni siciliani – causa di mali atavici e contagiosi condizionanti le amministrazioni succedutesi nell’isola – sono sottolineati nelle pagine, purtroppo tuttora attuali, di Scipio Di Castro: ‹‹I Siciliani nell’universale sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri […]. La lor natura è composta di due estremi, perché sono sommamente timidi, sommamente temerari. Timidi, mentr’essi trattano gli affari proprij […] d’incredibile temerità, dove si tratti del maneggio pubblico››.
Un altro tratto distintivo della sicilianità è la passione per la retorica –notata persino da Marco Tullio Cicerone -, per i cavilli, per i sofismi, la causidicità fine a se stessa sino al paradosso ( esemplare, sotto questo profilo, è la novella La giara di Pirandello). La Sicilia ha sempre abbondato di legulei, sin dai tempi di Gorgia da Lentini, che si vantava di aver sostenuto nello stesso giudizio la parte dell’accusa e della difesa.
Ma sarebbe sbagliato sostenere che ciò dipenda da inclinazioni naturali. Anche in questo caso è la storia del popolo siciliano il fattore determinante, come osservato da Sciascia: ‹‹La passione giuridica del siciliano dev’essersi dunque formata nel corso dei secoli, perché ha dovuto fare i conti con una quantità di leggi, di dati dai quali derivavano privilegi. La Sicilia era diventata la terra dove le giurisdizioni, o fori privilegiati erano più numerosi››.
La Sicilia si rivela luogo di confine anche nella ricca e significativa produzione letterari.
Poche terre come la Sicilia hanno generato scrittori e poeti di eccelso rilievo estetico. L’elenco è troppo lungo per poterne citare alcuni senza far torto ad altri meritevoli di menzione. É sufficiente evidenziare come tra sei autori italiani premi Nobel per la letteratura due sono siciliani: Pirandello, insignito del massimo riconoscimento nel 1934, e Salvatore Quasimodo, che ricevette l’”alloro” nel 1959. Ma non è su ciò che ci vuole soffermare, quanto piuttosto sulla tendenza allo sperimentalismo presente in diversi scrittori siciliani; tendenza che esprime l’esigenza di superare i limiti dei canoni espressivi correnti e convenzionali.
Negli scrittori sperimentali siciliani si manifesta lo sconfinamento della frontiera della lingua italiana usuale in un impasto con gerghi e sintassi dialettali emblematico in una terra che si nutre della diversità e dell’unicità della sua cultura. Ciò è particolarmente evidente in Stefano D’Arrigo e nel suo capolavoro Horcynus Orca. In quest’opera, da sempre assai controversa ma di indubbio valore letterario, spicca la sicilianità: nel richiamo delle tradizioni popolari, nel linguaggio, nella potenza immaginifica (in cui Sciascia, come si è detto, scorgeva l’anima araba isolana), nei rimandi mitologici (non è la Sicilia la terra dei miti?).
Un altro dato che si ricollega alla dimensione di confine della Sicilia e dei siciliani è la vitalità del dialetto
A differenza che nelle altre regioni della penisola, dove l’omologazione culturale tanto invisa a Pier Paolo Pasolini ha condotto all’oscuramento del dialetto, il siciliano continua a essere parlato in tutti i ceti. E addirittura si registra il fenomeno di un autore, l’assai noto Andrea Camilleri – anche lui scrittore sperimentale ancorché sostenuto dal successo commerciale che non svilisce il suo valore estetico -, che scriveva i suoi romanzi in un siciliano italianizzato. E se ciò non bastasse, moltissimi scrittori siciliani, spinti anche dalla fortuna di Camilleri, infarciscono i loro romanzi di gerghi ed espressioni dialettali.
A questo punto, nel concludere queste riflessioni, ci si pone una domanda: nell’era di internet, della sempre maggiore invadenza dei media e della globalizzazione, quanto potrà resistere la diversità di una terra di confine come la Sicilia? Tale diversità non rischia, come già sin d’ora accade in tanti casi, di risultare adulterata, resa mero folklore massificato, spogliata della sua autenticità?
Antonino Cangemi – Scrittore