Quando israeliani e palestinesi ancora si parlavano

Ricordi di un corrispondente da Gerusalemme

Nei primi giorni di giugno del 1967, in quella che è passata alla storia come la “Guerra dei sei giorni”, le forze armate di Israele sconfissero tre eserciti arabi (Egitto, Giordania e Siria) e occuparono l’intera penisola del Sinai inclusa la striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture del Golan. Di botto e inaspettatamente Israele si trovò ad avere sotto il suo controllo circa 60.000 Kmq di territorio arabo, pari al triplo della sua superficie statale. Pochi giorni dopo quella vittoria, ricorda lo storico israeliano Avi Raz, l’allora premier Levi Eshkol, in una riunione di gabinetto per discutere su cosa fare e come gestire un bottino così vasto, fece questo commento: “La vittoria ci ha portato una bella dote ma una sposa problematica (cioè, la popolazione palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, GR) che non ci piace”.

Da allora sono passati 57 anni e in questo frattempo Israele, in cambio di un trattato di pace, ha restituito all’Egitto l’intera penisola del Sinai ma non la striscia di Gaza che l’Egitto non volle ricevere, considerandola parte della Palestina e non del suo territorio sovrano, ben felice, inoltre, di lasciare a Israele il problema di come gestire un territorio povero e sovraffollato da una popolazione ostile.

Diverso il caso della Cisgiordania.

Qui entrarono in gioco fattori diversi: considerazioni strategiche, suggestioni religiose, interessi economici. Fu di breve durata l’iniziale asserita disponibilità di Israele a ritirarsi da questo territorio, nel contesto di un accordo, ma non da Gerusalemme est, i cui confini municipali furono anzi enormemente allargati rispetto a quelli in epoca giordana. Secondo Raz, l’offerta di restituire i territori occupati nel 1967, in cambio della fine del conflitto israelo-arabo, non fu mai seriamente posta sul tavolo.

Per lo storico, si trattò piuttosto di una mossa diplomatica intesa a neutralizzare, con un veto americano, un’iniziativa dell’Unione Sovietica per imporre a Israele, con una risoluzione vincolante del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il ritiro da tutti i territori senza nemmeno la condizione della pace. In ogni caso, poco tempo dopo, il vertice arabo a Khartum, con i suoi tre no: al riconoscimento di Israele, ai negoziati e alla pace, rinviò alle calende greche ogni prospettiva di accordo.

Cinque anni dopo, nel 1972, Israele e i palestinesi si opposero alla proposta di re Hussein di Giordania di trasformare il Regno in una federazione tra due regioni autonome: quella a est del Giordano direttamente amministrata dal governo di Amman e quella a ovest, cioè la Cisgiordania inclusa la parte araba di Gerusalemme est, direttamente gestita dai palestinesi, restando nelle mani del governo centrale ad Amman la politica estera, la sicurezza e la difesa. Il piano si basava sul presupposto di un accordo di pace israelo-giordano. Davanti al rifiuto dei diretti interessati e l’ostilità degli stati arabi, re Hussein, dopo la prima intifada palestinese (1987), nel 1988 troncò definitivamente tutti i legami giuridici e amministrativi con la Cisgiordania (ma senza rinunciare al patrocinio sui Luoghi Santi musulmani e cristiani), riconoscendo solo all’Olp il diritto di rappresentare la popolazione palestinese e di parlare a suo nome.

Non ci sono santi ma solo vittime e peccatori in questa tormentata storia del conflitto tra israeliani e palestinesi.

Per quasi quarant’anni ne sono stato testimone, in gran parte in veste di cronista. Un periodo sufficientemente lungo per permettermi di constatare che mai nella loro tormentata e sofferta storia i rapporti tra israeliani e palestinesi sono stati così ostili come negli ultimi anni. Fino a precipitare al livello più basso dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, con 1200 israeliani uccisi e il rapimento di oltre 230, e la conseguente spietata reazione militare israeliana con l’uccisione finora, secondo dati di Hamas, di circa 31mila palestinesi, tra armati e civili, oltre a enormi devastazioni.

Mi limito a osservare che in questa storia i palestinesi sono stati spesso usati come strumenti al servizio di interessi altrui.

Per esempio, lo storico palestinese Rashid Khalidi ricorda che nel settembre del 1948 fu costituito a Gaza, per la prima volta, un governo palestinese in esilio che però ebbe vita breve perché né la Giordania né l’Egitto avevano allora l’interesse politico a una rappresentanza indipendente palestinese. La Giordania, nel 1950, si annesse perfino l’intero territorio della Cisgiordania, del quale, dopo il conflitto con Israele nel 1948-49, aveva la custodia provvisoria, in attesa di un accordo sull’assetto politico permanente del territorio. L’annessione fu riconosciuta solo dalla Gran Bretagna e dal Pakistan. Nella striscia di Gaza il cosiddetto Governo di Tutta la Palestina divenne di fatto un fantoccio nelle mani del governo egiziano, fu poi costretto a trasferirsi al Cairo e perse quasi ogni possibilità di influenzare gli eventi a Gaza. Al suo posto sorse nel 1964 l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) presieduta da Yasser Arafat dal 1969 fino alla sua morte.

Molti palestinesi, ricordando il passato, non celano perciò ancora oggi un profondo rancore con i paesi arabi.

Mi rammento di un colloquio che negli anni Novanta ebbi con Nasser Eddin Al Nashashibi a Gerusalemme est, nella sua splendida villa di epoca ottomana con le pareti ricoperte di fotografie di incontri con note personalità politiche e di governo di tutto il mondo. Nella sua lunga e colorita carriera era stato giornalista, direttore di importanti testate egiziane e ambasciatore della Lega Araba, oltre a diversi altri incarichi politici che lo avevano portato in giro per il mondo.

Nasser Eddin poteva parlare con cognizione di causa, come figlio di una delle grandi famiglie patrizie palestinesi della città che negli anni Trenta avevano condotto dietro le quinte un dialogo politico intenso con esponenti dell’Agenzia Ebraica in Palestina nel tentativo di arrivare a un accordo tra i due movimenti indipendentisti avversari. Sugli eventi di quell’ormai lontano 1948 Nasser Eddin mi disse che a far fallire il tentativo di dar vita a un governo palestinese in esilio furono soprattutto gli stati arabi. “Non ce lo permisero” mi disse tirando un profondo sospiro. “La storia chissà forse si sarebbe svolta diversamente”. Nei suoi occhi mi parve di veder cadere un velo di mestizia. Credo si possa affermare con ragionevole certezza che le probabilità di un accordo tra israeliani e palestinesi allora fossero maggiori che ai giorni nostri. In quell’immediato primo dopoguerra c’erano in ambedue i campi nemici persone aperte a un dialogo e a compromessi di pace. Secondo il già citato storico israeliano, la possibilità di un accordo con i palestinesi fu esplorata nel 1967, poco dopo la guerra, da emissari del governo israeliano di allora con notabili palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. Ma i contatti, purtroppo, non ebbero sviluppi in direzione di una soluzione.

Mi ricordo pure di un altro colloquio, nella seconda metà degli anni Ottanta, questa volta con una personalità israeliana destinata a svolgere nei decenni successivi un ruolo centrale – ai miei occhi nefasto – nella vita politica dello Stato ebraico. Trattandosi di un colloquio confidenziale, off the record e a registratore spento, non sono libero di nominarla nemmeno oggi. Non dimentico però ciò che mi disse, parlando del futuro della Cisgiordania: doveva restare per sempre nelle mani di Israele. Chiesi: e che succederà ai palestinesi che vi abitano? Ah, rispose, ci sono tanti stati arabi dove possono andare. Ma come convincerli a lasciare la loro terra? Rendendo la loro vita impossibile. Molti, disse, cercheranno lidi più ospitali. Nel profondo e crudele cinismo di questa risposta c’era anche un’evidente ignoranza della realtà sul terreno.

Se il mio interlocutore, istruito in una delle migliori università occidentali, si fosse preso la briga di circolare nei campi coltivati col duro lavoro dei fellah palestinesi e di osservare i tanti giovani che all’ombra degli ulivi erano assorti nella lettura dei libri di scuola, forse la sua arrogante certezza sarebbe stata scalfita.

I decenni passati da quel colloquio mi hanno confermato l’attaccamento dei palestinesi alla loro terra, malgrado le difficoltà di vita, al pari di quello dei loro contemporanei in Israele. Sono due patriottismi che si scontrano e che hanno della storia letture profondamente diverse.

Devo anche dire che i palestinesi, allora, potevano contare anche sulla solidarietà di non pochi israeliani. Tra questi, ricordo l’avvocata Lea Tsemel, coraggiosa combattente per i diritti dei palestinesi che difendeva davanti ai tribunali dell’Amministrazione Militare in Cisgiordania. Per questo era molto popolare e, direi, amata dai palestinesi che la ricevevano fraternamente e con gratitudine. Era piccolina, un caratterino pepato che mi attraeva, ed era tosta. Il marito dirigeva un centro di controinformazione alle versioni interessate delle autorità israeliane su ciò che succedeva nei territori occupati.

Quando andai a intervistarla nel suo ufficio spartano nel cuore del quartiere arabo di Gerusalemme, mi propose di accompagnarla per assistere al processo di un suo giovane cliente palestinese accusato di non ricordo quale reato contro l’occupazione. Il processo si svolgeva davanti a un tribunale militare, vicino a Ramallah.

Lea, fumatrice accanita, aveva con sé due grandi e pesanti borsoni colmi di dossier che portava a fatica e con grande affanno. Galantemente mi offrii di sobbarcarmi il peso di almeno uno dei borsoni. Il gesto, cui evidentemente non era abituata, la sorprese e mi rivolse uno sguardo di gratitudine. Mentre entravamo nell’aula, mi diceva, le formalità del procedimento giudiziario sono rispettate ma la sentenza in realtà è già stata decisa. “Ciò che io posso fare – mi disse – è patteggiare la pena e di ridurla per quanto mi è possibile. Ottenere un’assoluzione rasenta quasi l’impossibile”. Per quanto mi ricordo non ravvisai in lei, mi sembra, malanimo nei confronti della magistratura militare. Era piuttosto il sistema coercitivo che era ingiusto e perciò così funzionava e non per insita cattiveria dei magistrati o dell’avvocatura militare.

Lea non era una combattente solitaria. La affiancavano quei giovani che operavano come volontari nelle organizzazioni di difesa dei diritti umani e civili dei palestinesi e registravano, con una pignoleria contabile che innervosiva le autorità, la nascita di nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati, la loro espansione, il numero di nuove case di coloni in costruzione. Erano organizzazioni come Bezelem, come Peace Now e ne erano l’anima giovani israeliani, uomini e donne, che magari appena pochi anni prima avevano combattuto e rischiato la vita per difendere il loro stato. Per me erano veri patrioti a cui importava sinceramente proteggere, non solo la popolazione palestinese dagli abusi dell’Amministrazione Militare, ma pure la coscienza democratica dello stato e il suo buon nome. Ho ora ritrovato la stessa passione nelle massicce manifestazioni di popolo contro i tentativi dell’attuale governo di “destra-destra” di imporre al paese una svolta antidemocratica con una controversa “riforma della giustizia” che sembra, almeno per ora, affossata.

(PRIMA PARTE)

 

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