L’eterno ritorno dell’Iliade

Sulle guerre nel mondo. Una lettura di Simone Weil

Sospinti dalle attuali, terribili vicende di guerra e facendo leva sull’immaginario collettivo che con esse intimamente dialoga, gli interessi editoriali e cinematografici degli ultimi mesi si sono concentrati sull’opera prima che nella cultura mediterranea incarna Polemos: l’Iliade, il poema della forza – secondo la famosissima definizione di Simone Weil.

Film, fiction, edizioni moderne del testo, adattamenti per ragazzi: l’offerta, ricchissima e continua, di prodotti incentrati sull’epos omerico sembra voler rianimare il mercato dei sentimenti bellicosi del fanciullo maschio. Alle donne invece la guerra non piace, geneticamente esse sono bios, possono anche indossare provvisoriamente una divisa in nome di una giusta causa, ma in genere lo fanno per ristabilire il contatto con la vita e con l’umanità.

Come accadde alla stessa Simone Weil quando, allo scoppio della guerra spagnola, si arruolò nella milizia internazionale di Durruti per partecipare a missioni di guerriglia, ma poi, costretta al rimpatrio da una grave ferita, si adoperò a smontare l’uso mitologico di parole come guerra, patria, nazione, sacrificio in un saggio dall’eloquente titolo Ne recommençons pas la guerre de Troie.

Il concentrato delle sue successive meditazioni sugli orrori della guerra è però affidato ad un altro testo, scritto tra il 1936 e il ’39 e pubblicato nel ‘40/’41 a Marsiglia, in cui l’autrice lavora proprio sul poema omerico, letto come atto di fondazione della terra del tramonto, come perdita del senso del sacro e del sentimento di finitezza dell’uomo.

L’Iliade o il poema della forza ha un incipit bruciante, assertivo, quasi apodittico e insieme anti-prospettico: Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. [..] la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. L’anima umana vi appare di continuo alterata… trascinata… accecata… curva sotto il giogo della forza[…] La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa… nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. Altro che gloria, altro che eroismo, altro che valori identitari!

L’eroe (Ettore) è una cosa trascinata nella polvere, dietro a un carro, senza aureola né conforto alcuno, mentre a distanza la sua Andromaca, ingenua! – è l’aggettivo più ironico che patetico datole da Omero – gli va preparando bagni caldi. La guerra è polvere e miseria: l’eroe troiano abbattuto nella polvere evoca per opposizione drammatica la cura femminile, l’acqua, il calore della vita e dell’amore nel passo riportato dalla Weil, che così intraprende la lettura del suo inquietante presente storico attraverso la lente del grande mito occidentale: una sorta di riflessione autobiografica condotta sub specie aeternitatis.

Parole potenti, immagini compattate da un lessico tagliente e carnale, per dire che la forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Non dice mai animalesca, primitiva (non potrebbe avendo scelto il mito e l’epos arcaico) perché sarebbe banalizzazione, semplificazione del pensiero, mentre le preme espressionisticamente evidenziare il paradosso tragico della forza che dà la morte: il respiro, psyché, l’anima, non può ripiegarsi su sé stessa, non è fatta per abitare una cosa e l’essere che è ancora pensante non può pensare nell’attimo in cui sta per essere ucciso. Respira ma è già materia.

Parimenti il supplice Priamo viene sospinto a terra da Achille come un oggetto inerte, nientificato dall’assenza di umanità, sospinto nel demi-monde di un’altra specie umana, compromesso tra uomo e cadavere, la specie del vivo-morto. D’altro canto è lo stesso Achille a riconoscere che la sua riflessività non può aver ragione della collera. L’eroe dell’eccesso è vinto dalla sua stessa ira.

Ed ecco l’alto monito della Weil: La forza annienta tanto impietosamente, quanto impietosamente inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell’Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato e vincitori, capi dall’altro; non vi è un solo uomo che non sia in qualche momento costretto a piegarsi alla forza. Disonore, lacrime, paura sono sentimenti che trovano albergo in entrambi i fronti della guerra iliaca: basta che Ettore lanci una sfida per rendere sgomenti tutti i GreciIl forte non è mai forte in assoluto, né il debole è debole in assoluto, l’uno e l’altro però lo ignorano.

In questa diagnosi della grande intellettuale parigina avvertiamo il suo carattere primario: rifiuto del compromesso, sentimento estremo della vita, sguardo tragico sull’essere la portano di necessità a cercare e teorizzare un rovesciamento di prospettiva nell’eterna dialettica tra assoggettato e vincitore, a ipotizzare un altro spazio di riconoscimento dell’altro, uno spazio di reale umanità. L’Iliade sembra smentirla, però, quando i personaggi, pur adottando parole ragionevoli, come accade a Tersite o allo stesso Achille che deve ammettere tristemente che una vita umana, una volta andata, non si riconquista più, sono poi sconfessati dal volere divino, da un qualunque dio che all’occorrenza consiglia l’irragionevolezza, come se fosse impossibile sottrarsi all’occupazione toccata in sorte, quella di uccidere e di morire.

Simone Weil delinea in pochi tratti il tragitto perverso di ogni guerra: una “trappola” in cui uomini armati cadono senza alcuna necessità e senza “vedere” il nemico, come se andassero a giocare; anche dopo essere stata provata la guerra non smette subito di sembrare un gioco perché il pericolo è ancora un’astrazione, le vite distrutte lasciano indifferenti e la potenza dell’azione induce il senso di irresistibilità. Quando però  la morte si presenta come l’unico inevitabile futuro assegnato ai professionisti della guerra, lo spirito entra in una tensione insopportabile perché la guerra cancella ogni idea di scopo, persino l’idea degli scopi della guerra.

Essa cancella anche il pensiero di porre fine alla guerra. L’idea dell’inconcepibilità della fine della guerra mi colpisce per la sua attualità, mentre quasi in contemporanea leggo l’articolo di David Grossman sul dilemma di Israele se resistere nella fortezza o aprirsi alla pace, nel quale riporta la frase di Kabbalah Gershom Scholem “Tutto il sangue scorre verso la ferita”. Forte è l’impressione che le due voci ebraiche dialoghino a distanza storica tra di loro e anche con le parole dell’Ulisse omerico:

Cosa? Lasciare Priamo, i Troiani vantarsi/di Elena di Argo, ella per la quale tanti Greci/davanti a Troia sono morti […]Cosa ? Desideri che la città di Troia dalle ampie strade /lasciamo, per la quale abbiamo sofferto tante miserie?

La spiegazione di questo passo dell’Iliade data da Simone Weil è di una specularità così profonda con i nostri tempi da far trasalire:

L’anima, obbligata dall’esistenza di un nemico a distruggere in sé quanto la natura le aveva dato, crede di poter guarire solo distruggendolo.

La guerra rende il soldato vincitore un flagello della natura, uno schiavo, un essere sordo alla ragione delle parole, mentre serve uno sforzo di generosità sovrumano per rispettare la vita altrui. Quello che, tra gli uomini dell’Iliade, riesce al solo Patroclo il quale “seppe essere mite verso tutti”, Patroclo, un tocco di grazia quasi femminile nel poema cosparso di un’amarezza che non si abbassa mai a lamento, perché è il poema della forza e del passaggio brutale dalla vita alla morte, ugualmente distribuito tra vincitori e vinti. L’Iliade non è di parte, non ha il sigillo d’autore greco e potrebbe averla scritta anche un troiano, tanto è comune il destino superiore di Polemos, tanto è comune sventura che gli uomini possano essere così trasformati dalla legge della forza. In questo consiste, secondo la Weil, lo spirito dell’unica vera epopea occidentale e che mi sento di condividere come anima inerte ma non indifferente di fronte agli attuali eventi di guerra:

Possiamo amare ed essere giusti solo se conosciamo l’imperio della forza e siamo capaci di non rispettarlo.

 

Caterina Valcheradocente, saggista

 

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