Quando israeliani e palestinesi si parlavano

La seconda parte dei "ricordi di un corrispondente da Gerusalemme"

Nei primi anni dopo il 1967 l’occupazione israeliana fu tutto sommato non soffocante e l’intento era di non interferire, nei limiti del possibile, nella vita della popolazione. Quando da giornalista tornai a Gerusalemme alla fine degli anni Settanta, ricordo che il portavoce militare distribuiva ai corrispondenti della stampa estera un opuscolo riccamente illustrato sulle attività svolte per migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese, in campo sanitario soprattutto. Conteneva molta propaganda ma pure qualcosa di vero.

Nel procedere a ritroso nel tempo, con uno sguardo forse nostalgico, balza subito evidente, ai miei occhi, il fatto che i rapporti tra israeliani e palestinesi dei Territori si sono svolti su un piano divenuto sempre più inclinato col passare del tempo, fino a una rottura che, a parte lodevoli eccezioni, è ora pressoché totale. Ricordo, per esempio, quei primi anni Settanta, quando da studente nell’Università Ebraica di Gerusalemme, circolavo da solo liberamente sul Monte degli Olivi nel cuore del quartiere arabo per poi sedermi in totale solitudine all’ombra di un albero mentre con lo sguardo vagavo su un orizzonte di aride colline e sul Mar Morto che baluginava in lontananza. La sensazione di sicurezza e di pace era assoluta. Questo oggi sarebbe impensabile. Si rischierebbe una brutta fine.

La vita di un giornalista, soprattutto in zone di conflitto, è necessariamente affollata, non tanto di incontri con personaggi destinati a passare alla storia che non sono facilmente raggiungibili se non si rappresentano i maggiori media mondiali e se non c’è un interesse politico, ma da quell’infinità di attori minori che formano il coro e lo sfondo di un dramma tuttora in svolgimento. Spesso sono queste le fonti migliori di notizie. Per un corrispondente accreditato in Israele e in Palestina le brevi distanze facilitavano il compito. Gerusalemme, che Israele ha proclamato sua capitale, dista da Ramallah, sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, appena sedici chilometri. Una distanza che oggi diventa quasi siderale, soprattutto per un palestinese, se si considerano i posti di blocco dell’esercito e le strozzature nei valichi di transito tra territorio israeliano e palestinese.

In quegli anni Settanta e primi Ottanta gli incontri tra israeliani e palestinesi erano frequenti. I palestinesi sembravano stentare a riprendersi dallo shock subito con la vittoria israeliana nella guerra del 1967 e indecisi su cosa fare. Intere famiglie israeliane nei fine settimana amavano pranzare nei ristoranti arabi di Gerico, dove il profumo degli aranceti era inebriante e si potevano mangiare ottimi spiedini di kebab a prezzi irrisori. La presenza militare israeliana era tutto sommata discreta e ancora non soffocante e oppressiva. Rari i posti di blocco dell’esercito. Si era pure cominciata a formare una rete di interessi economici e commerciali tra uomini d’affari delle due popolazioni. Per esempio, abiti disegnati in Israele venivano poi cuciti a Gaza, dove la manodopera costava molto meno. Il rapido sviluppo dell’edilizia in Israele è stato letteralmente frutto dell’opera della manovalanza palestinese. La chiusura e l’isolamento della Cisgiordania sono perciò un’arma a doppio taglio: da una parte, privano la popolazione palestinese di una fonte di reddito essenziale, accentuando così il fermento e la rabbia; dall’altra, paralizzano il settore edilizio e ne fanno lievitare i costi, molto spesso oltre le possibilità economiche dell’israeliano medio.

I rapporti tra le due popolazioni cominciarono a inasprirsi a mano a mano che nei palestinesi si consolidava ed emergeva ad alta voce una coscienza politica nemica dell’occupazione e di affermazione di un’identità nazionale titolare di ineludibili diritti politici e statali. Affermazioni di un’identità a sé stante, e non genericamente araba, che negli anni dell’amministrazione giordana in Cisgiordania erano invece rimaste silenziose o espresse sottovoce per non provocare la reazione ostile della famiglia reale giordana e dei suoi servizi di sicurezza. Fu solo dopo l’occupazione israeliana che si cominciò a parlare sempre più apertamente di popolo palestinese. In Israele si replicò con un progressivo giro di vite che, nell’inesorabile logica del conflitto, avrebbe portato a sviluppi tragici. Ma in quei tardi anni Settanta il processo era ancora ai suoi primi passi.

In Cisgiordania, soprattutto, ma anche a Gaza, si stava intanto formando una dirigenza politica locale, rappresentata dai sindaci, dagli intellettuali, dagli studenti delle scuole superiori e delle università palestinesi, da ricche famiglie borghesi con i loro clan, che rivendicava diritti nazionali e denunciava l’occupazione israeliana. Alcuni sindaci godevano di particolare popolarità tra i giornalisti stranieri e israeliani, sia per il loro buon inglese sia per un colorito linguaggio che permetteva di arricchire i pezzi. Ne ricordo due in particolare, Karim Khalaf, avvocato e sindaco di Ramallah, con moglie italiana. Politicamente era partito da posizioni molto moderate, aderendo alla formula due stati per due popoli, successivamente si era allineato, come tutti gli altri, alle posizioni dell’Olp e del suo leader Yasser Arafat. Un altro sindaco, su posizioni assai più radicali, era Bassam Shaka, a Nablus. Nel 1980 ambedue furono vittime di attentati dinamitardi attuati da una cellula di terroristi ebrei che intendeva vendicare l’uccisione di alcuni seminaristi di una yeshiva (collegio rabbinico) a Hebron. Khalaf perse la gamba destra e nel 1982 fu rimosso dall’incarico dall’amministrazione militare. Shaka perse ambedue le gambe e dovette rinunciare alla vita pubblica. Morirono pochi anni dopo gli attentati.

Chi godeva di indiscusso prestigio e di autorità agli occhi della popolazione e quindi di peso politico era Faisal Husseini, appartenente al clan dei Husseini, altra grande famiglia patrizia palestinese di Gerusalemme che negli anni Trenta era stata rivale politica dei Nashashibi. Apparteneva a questa famiglia il Mufti filonazista di Gerusalemme, Amin Al-Husseini, che negli anni del mandato britannico in Palestina si era implacabilmente opposto a ogni tentativo di intesa politica con gli esponenti della minoranza ebraica. Durante la guerra trovò ospitale rifugio nella Germania nazista e fu ricevuto da Hitler.

Faisal Hussein (1940-2001) conduceva la lotta politica contro l’occupazione dalla Orient House, una palazzina di epoca ottomana a Gerusalemme est, considerata per diversi anni sede ufficiosa dell’Olp. L’Orient House era divenuto il vero centro dell’attività politica palestinese e tappa obbligata per ogni giornalista. Se un infarto non lo avesse ucciso nel 2001, penso che Faisal avrebbe potuto divenire, dopo la morte di Arafat, il nuovo leader palestinese, anche grazie al prestigio che gli derivava dall’appartenenza a una famiglia legata alla storia della Palestina, oltre ovviamente alle sue indubbie qualità personali.

In una traversa parallela a quella della Orient House c’era un altro punto obbligato di incontri: l’American Colony. Era un albergo a cinque stelle, costruito nei primi anni del Novecento come locanda e ospizio per pellegrini americani. In seguito, era stato trasformato in albergo di lusso, divenuto sito preferito, ancora oggi, da molte delle più note personalità politiche, di governo, del mondo intellettuale, delle arti e del cinema che lo hanno frequentato nell’arco di più di un secolo. Dopo l’occupazione israeliana, l’albergo era divenuto una specie di terra franca, luogo di incontri discreti tra attivisti politici palestinesi e israeliani, sito preferito da diplomatici, alti dirigenti di agenzie dell’Onu, giornalisti e, sicuramente, da spie e agenti di servizi segreti. Su questo mondo, dietro le quinte, tenevano gli occhi e le orecchie bene aperti i servizi di sicurezza israeliani.

Tra gli esponenti della dirigenza politica palestinese in Cisgiordania che io ricordo brillavano anche due donne, ma non erano le uniche. La prima era Hanan Ashrawi, che insegnava letteratura inglese nell’Università di Bir Zeit. Era molto ricercata dai media internazionali perché, in un inglese forbito, sapeva perorare molto bene le ragioni della causa palestinese, usando tutti i temi e i termini cari a un pubblico occidentale, soprattutto europeo.

La seconda, era Raymonda Tawil. Bella donna, allora di mezz’età, nata ad Acco (l’antica San Giovani d’Acri delle crociate) nel 1939, in una famiglia di religione greco-ortodossa. Dopo il matrimonio con un cittadino giordano, si era trasferita a Gerusalemme est per ritrovarsi di nuovo dopo la guerra del 1967 sotto il dominio israeliano. Alle comodità e agli agi di ricca borghese aveva preferito l’impegno politico. Autrice di un libro autobiografico che ebbe un certo successo Raymonda aveva aperto a Gerusalemme est, a poca distanza dalle mura che circondano la Città Vecchia, in un appartamentino di tre stanze, il Palestine Press Service, che operava come agenzia di stampa locale col compito di tenere costantemente aggiornati i media internazionali su ciò che quotidianamente avveniva in Cisgiordania e a Gaza. Non so perché mi aveva preso in simpatia e ogni volta mi riceveva festosamente. Non immaginavo che pochi anni dopo sarebbe divenuta, col matrimonio della figlia Suha, suocera di Yasser Arafat. Sulle vere circostanze di quel matrimonio circolarono allora non pochi pettegolezzi. Ho constatato che israeliani e palestinesi condividono lo stesso gusto, spesso perfido, per i pettegolezzi, soprattutto su personalità politiche e di governo.

Sari Nusseibah, con l’aria di un distratto professore educato a Oxford, era un altro esponente di quell’aristocrazia palestinese di Gerusalemme che cercava, penso sinceramente, un’intesa con gli israeliani. Per alcuni anni si associò ad Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet (il servizio segreto di sicurezza interna israeliano), per promuovere un dialogo di pace. Tentativi lodevoli ma che non ebbero ampio seguito.

Nei primi mesi del 1987 il morale dei palestinesi era sceso al livello più basso per l’evidente assenza di prospettive di una soluzione politica che ponesse fine all’occupazione. Circolava allora tra di loro un’amara battuta, “copulation against the occupation”, cioè, sconfiggere l’occupazione facendo sempre più figli. E io pensavo che si trattasse di un pessimo segno di disperazione e che prima o poi la rabbia che si stava accumulando sarebbe esplosa. Infatti, nel dicembre dello stesso anno, la morte di alcuni operai palestinesi di Gaza in un incidente stradale provocò manifestazioni di protesta palestinesi che presto si estesero a tutti i territori occupati: era la prima intifada, quella delle pietre. Quella successiva, scoppiata nell’autunno del Duemila e protrattasi per quasi quattro anni, sarebbe stata assai più sanguinosa e questa volta al posto delle pietre vennero le bombe, una lunga catena di attentati suicidi nel cuore stesso delle città israeliane e la dura reazione di Israele con la temporanea rioccupazione delle città cisgiordane governate dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), divenute teatro di sanguinosi scontri, soprattutto a Jenin e Nablus.

Tra la prima e la seconda intifada la regione aveva però conosciuto un periodo in cui sembravano aprirsi spiragli di ottimismo. Sull’onda delle ripercussioni causate in Medio Oriente dalla guerra nel Golfo, innescata dall’invasione irachena del Kuwait, si aprì nel 1991 a Madrid una conferenza internazionale di pace con la partecipazione delle maggiori Potenze che vide attorno allo stesso tavolo, per la prima volta, una delegazione formata da rappresentanti palestinesi dei territori occupati, accanto a quelle degli stati arabi e di Israele. La delegazione palestinese formalmente rappresentava la popolazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza ma di fatto riceveva le direttive dall’Olp, che Israele ancora non riconosceva come interlocutore. Ricordo vividamente l’eccitazione e le speranze che accompagnarono la partenza della delegazione e la commozione, toccante, sul volto di Hanan Ashrawi mentre saliva sul pulmino per l’aeroporto. Dopo Madrid, con la costituzione in Israele del governo di Yitzhak Rabin, affiancato da Shimon Peres come ministro degli esteri, vennero nel 1993 gli accordi di Oslo con il reciproco riconoscimento tra Olp e Israele, la costituzione dell’ANP, il trionfale ritorno di Yasser Arafat in Cisgiordania e a Gaza, con tutto il seguito dei quadri e dei miliziani delle diverse organizzazioni palestinesi in esilio. Gli accordi stabilivano un periodo di cinque anni per un accordo definitivo su tutto il contenzioso. Entro poco tempo tutta la dirigenza politica locale palestinese, che aveva imparato a conoscere bene Israele, fu rapidamente emarginata dal folto corteo di palestinesi, assetati di potere, cariche e prebende, tornati dall’esilio al seguito di Arafat. Credo che sia stato un male per la causa della pace.

Uno dei protagonisti dei negoziati segreti che portarono agli accordi fu, per il lato israeliano, un diplomatico col quale ero in amicizia. Avevo conosciuto Uri Savir quando era giovane compassato diplomatico col compito di coltivare i rapporti con la stampa estera. Formalmente cauto nel linguaggio nelle occasioni ufficiali, privatamente sapeva essere persona dotata di un umorismo che rendeva sempre gradevole la conversazione. Ci aveva avvicinato anche il fatto che Savir e io eravamo in uno stretto gruppo formato da corrispondenti esteri che abitualmente si riunivano per notturne accanite partite di poker. Savir, in quelle occasioni, si toglieva l’abito del diplomatico per concedersi battute anche sarcastiche e confidenze personali, potendo contare sulla nostra discrezione. Fu poi portavoce di Shimon Peres quando divenne primo ministro. La sua carriera fu fulminea fino a divenire direttore generale del ministero degli esteri. Peres lo scelse, assieme ad altri collaboratori di fiducia per i negoziati segreti con la delegazione dell’Olp a Oslo. Ebbe poi una breve apparizione nella politica israeliana, che lo vide anche in veste di parlamentare, prima di essere colpito da grave malattia che lo costrinse a un prematuro ritiro a vita privata. È morto, pressoché dimenticato da tutti, un paio d’anni fa. Al suo funerale non ci furono rappresentanti del governo israeliano e nemmeno uno di quei politici palestinesi con i quali aveva condiviso le fredde giornate di Oslo attorno al tavolo dei negoziati. E mentre la terra ricopriva la tomba io malinconicamente mi chiedevo se quella non fosse pure la sepoltura delle speranze di pace.

La firma di quegli accordi, con una solenne cerimonia alla Casa Bianca, e la stretta di mano di Arafat con Rabin e Peres, furono un momento di massima euforia. I telegiornali di tutto il mondo mostravano, compiaciuti, immagini di ragazzi palestinesi che in Cisgiordania fermavano sorridenti pattuglie di soldati per porgere fiori da inserire nelle canne dei fucili, secondo uno slogan già reso popolare dalle manifestazioni pacifiste contro la guerra in Vietnam. Era, ai miei occhi di scettico, un festival mediatico: come se davvero una nuova era si stesse aprendo, come se fosse scoppiata la pace, lo stato palestinese sul punto di nascere e si stesse assistendo a un embrassons nous israelo-palestinese. Ma tutte le questioni centrali del conflitto erano rimaste aperte, senza poter nemmeno intravvedere un’ipotesi reale di soluzione. C’era perciò il vero rischio di creare aspettative esagerate che, se deluse, avrebbero potuto causare – come poi avvenne – reazioni molto violente, affossando ogni prospettiva di pace.

Sono del parere che gli accordi di Oslo furono frutto di malafede, di un’erronea lettura dell’avversario e perciò causa di equivoci. Israele, a mio giudizio, pensava che l’Olp, una volta insediatosi nei Territori, avrebbe svolto il lavoro sporco di reprimere ogni forma di resistenza palestinese, che si sarebbe accontentato di vivere sotto la sua ombra, rinviando alle calende greche la soluzione delle maggiori questioni al centro del contenzioso. Alcune delle quali, come il diritto al ritorno dei profughi palestinesi del 1948, restano irrisolvibili, se si vuole che Israele resti uno stato ebraico. Da parte dell’Olp, l’accordo era necessario per porre fine all’esilio in Tunisia, dopo l’espulsione da Beirut nel 1982, e per stabilire una base di autogoverno in Cisgiordania e Gaza dalla quale proseguire in futuro la lotta per il ritorno a tutta la Palestina, cancellando così l’”onta” del 1948, una volta maturate le giuste condizioni.

Guardando ai 31 anni che sono passati dalla firma di quegli accordi, viene spontaneo chiedersi cosa sia andato così orribilmente storto tra israeliani e palestinesi fino ad arrivare alla tragedia dello scorso 7 ottobre e delle settimane e mesi successivi. La risposta, ovviamente, non può che essere articolata e richiederebbe una trattazione separata delle cause esterne e interne. Mi preme tuttavia sottolineare la nefasta influenza crescente, forse dominante, dell’estremismo religioso in seno a strati non marginali delle due società negli ultimi decenni. Come nelle tre streghe del Macbeth false profezie messianiche sembrano fomentare in ambedue i campi visioni escatologiche di trionfo finale.

La società israeliana, pur con un marcato spostamento a destra – come del resto altrove – è animata da dibattiti vigorosi e da scontri di idee anche aspri sulla direzione che lo stato dovrebbe prendere, cui si aggiunge, dopo il trauma dello scorso 7 ottobre, almeno l’inizio di un sofferto esame di coscienza. La causa della pace ne uscirà sicuramente rafforzata quando si potrà constatare anche nella società palestinese un analogo tormentato dibattito, a partire dalla domanda “dove è che noi abbiamo sbagliato”, rinunciando all’abituale scappatoia di incolpare tutto il mondo delle loro disgrazie e respingendo nei confronti di Israele – pur con tutte le sue colpe – e degli ebrei immagini e termini presi dal dizionario del peggiore antisemitismo.

 

Giorgio RaccahGiornalista. Già corrispondente dal Medio Oriente

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