Separazione delle carriere – tra falsi miti e speranze

Dopo la presa di posizione del sostituto procuratore generale Gaetano Bono, che sulle separazione delle carriere ha scritto un libro dall’eloquente titolo Meglio separate ( anche se poi indica una serie di condizioni, e quindi non una separazione a tutti i costi), pubblichiamo il punto di vista di un giurista. Che intanto lancia un monito, anche di carattere metodologico, oltre che di contenuto: Il dibattito non si può ridurre al solo versante della giustizia penale: c’è la Giustizia Civile, Amministrativa, Contabile e Tributaria, che non sono figli di un "Dio minore", meritevoli di discussioni solo per gli addetti ai lavori

Non vi è dubbio che, il tema della Giustizia costituisca argomento di discussione troppo spesso aspro e foriero di polemiche e contrasti, che contribuiscono a confondere più che chiarire aspetti e circostanze afferenti al funzionamento della macchina giudiziaria.

La questione meriterebbe, al contrario, un tavolo di confronto equilibrato ed aperto, scevro dalla cultura delle curve contrapposte e non relegato a semplici tweet o post copiosamente ospitati nei vari social network, ancor prima che sulla carta stampata, che pare giocare un ruolo subalterno e di mero riporto rispetto agli hub digitali.

Non posso, inoltre, non evidenziare che il dibattito dell’opinione pubblica è orientato prevalentemente su vicende e circostanze che afferiscono alla Giustizia Penale, lasciando sullo sfondo, in una subalternità fattuale, la Giustizia Civile, Amministrativa, Contabile e Tributaria come se fossero figli di un “Dio minore”, meritevoli di discussioni solo per gli addetti ai lavori.

Più che di “separazione delle carriere” occorrerebbe portare al centro del dibattito lo “stato di diritto”, che nel nostro Paese sembra non godere di sana e robusta costituzione. Per la verità, se la Costituzione, quella con la “C” maiuscola fosse stata applicata sin dalla sua emanazione con il rigore e lo zelo richiesto per una fonte normativa cosi autorevole, non dovremmo trovarci a discutere del tema delle “separazione delle carriere”, che più che figlio del c.d. diritto vivente appare conseguenza di un diritto se non morente decisamente affetto da molteplici patologie.

Comincio con il dire che, come del resto la maggioranza degli italiani, sono tutt’altro che affascinato dall’istanza referendaria sul tema “separazione delle carriere”, ritenendo che tale misura adottata senza una riforma complessiva della macchina giudiziaria penale rappresenterebbe un mero espediente tecnico astrattamente innovativo e destinato a fallire sul nascere.

Parafrasando Brecht, “ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati”. Non voglio ingrossare le file del partito dei giuristi della domenica, con giudizi random da bar dello sport. Da operatore del diritto sono sempre preoccupato del rovescio della medaglia per cui al diritto di opinare in libertà corrisponde il dovere di farlo con cognizione di causa.

 

 

 

 

Lo ha detto benissimo Giorgio Lattanzi, presidente della commissione di riforma del codice penale, quando era presidente della Corte Costituzionale in una delle più memorabili sentenze della Consulta: <<alla magistratura non spetta combattere i fenomeni criminali, ma difendere l’applicazione precisa e garantita della legge penale>>. I risultati di chi ha snaturato quest’idea li stiamo vedendo. Esiste la vocazione di <taluni> inquirenti italiani (non tutti) di coltivare potenziali sceneggiature più che inchieste rigorose: realtà e fiction assumono contorni sempre più sfumati…

 

 

 

Si è diffusa, infatti, da alcuni lustri, una cultura che si ispira alle fiction, si fonda sul presupposto per cui compito del magistrato sarebbe quello di liberare la società dalla lordura della criminalità (può chiamarsi corruzione, evasione, mafia, malapolitica); mentre in uno Stato di diritto il magistrato non ha per nulla quel compito, che spetta, semmai, alla Società civile, all’azione collettiva, alle forze dell’ordine, e ad agenzie educative come la scuola, e la famiglia.

Ed è in forza di quel fraintendimento che magistrati inquirenti assurti al ruolo di star mediatiche, seppur legittimamente, possono lasciarsi andare allo sproposito per cui il loro ruolo è di “far rispettare la legge”, ruolo, in verità, cui ha più titolo il vigile urbano e persino il controllore del bus: perché il magistrato, della legge, deve fare applicazione, che è cosa completamente diversa.

Purtroppo aderendo al principio di realtà, seppur a malincuore dovremmo pervenire all’idea che la normalità sembra richiedere la violazione e l’abuso del diritto come regola, del resto, il fatto che la scritta “la legge è uguale per tutti” che compare nei tribunali è alle spalle del giudice e non davanti rischia di farlo diventare un concetto superato.

Personalmente sono dell’idea che la miglior garanzia per gli utenti della giustizia è che il magistrato del pubblico ministero ragioni come un giudice. Allontanarlo per decreto da una comune cultura del “giudicare” non aumenterebbe la tutela dei diritti ma la diminuirebbe.

Appare ragionevole, tuttavia, evidenziare come l’esercizio dell’azione penale per un verso e il giudicare per altro verso richiedano attitudini, esperienze e competenze, che sarebbe corretto regolare in modo da evitare che il know-how acquisito dal magistrato possa disperdersi sulla base di una mera scelta soggettiva svincolata dalla giusta causa e dall’obbligo di motivazione per quanto di carattere personale.

Le porte girevoli da evitare, al contrario, a mio modesto avviso, sarebbero altre e fanno riferimento al rapporto tra magistratura e politica; la toga soggetta solo alla legge una volta dismessa non la si dovrebbe indossare più e non c’è collocamento in aspettativa che tenga, perché diversamente, si tradirebbe l’aspettativa di imparzialità e correttezza, principi irrinunciabili, per una democrazia matura e una società civile come la nostra.

La magistratura deve fare un’autoanalisi ed evitare atteggiamenti e pronunce che ledano la sua credibilità e il suo prestigio. Ma deve essere altrettanto chiaro che non si può dare via libera a progetti punitivi e di sottomissione contro di essa.

Al tempo stesso non sono tra coloro che ritengono che il motivo per cui in Italia è tanto difficile mettere in campo una qualsiasi, seria riforma dell’amministrazione della giustizia, è dovuto alla prepotenza di un “mandarinato” giudiziario capace di intimidire e ricattare il legislatore riformatore.

Per quanto il caso Palamara abbia evidenziato l’esistenza di questa componente, ritengo che quel movimento reazionario sarebbe insufficiente a raggiungere l’obiettivo se non potesse contare sul disfacimento complessivo dello Stato di diritto che vede nel potere giudiziario l’utilizzatore finale e non il motore primigenio.

Non vi è certezza nella Giustizia, se non nelle cose che non vanno: la lungaggine dei processi, l’ipertrofia normativa, assetti organizzativi non al passo con i tempi.

Da ciò deriva l’eccesso di giustizialismo ed il tentativo interessato e strumentalizzato da molti di riconoscere alle toghe della magistratura un ruolo supplente rispetto ad una politica troppo spesso incapace rispetto ai bisogni della comunità.

Personalmente ritengo condivisibile il pensiero di un autorevole Giurista qual è Francesco Caringella, che in “10 Lezioni sulla Giustizia” pur non assolvendo la magistratura, per le tante disfunzioni e criticità, chiama in “correità” ciascuno di noi, in quanto “portatore sano” e partecipe di quel diritto di sovranità che in ogni sentenza viene ricordato.

 

 

 

 

 

Vincenzo Candido RennaAvvocato cassazionista del Foro di Lecce, Compliance and Ethics Specialist.

 

 

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