L’eterno ritorno. È quello della separazione delle carriere dei magistrati che, ciclicamente, da trent’anni a questa parte, torna ad animare il dibattito in tema di giustizia (e di politica).
Attualmente giacciono in Parlamento ben cinque proposte di legge costituzionale (quattro alla Camera, una al Senato) che incidono, eliminandola, sull’unità dell’Ordine giudiziario. Esse si ispirano a vecchie proposte risalenti addirittura a Licio Gelli e riprendono, in gran parte, analoga iniziativa sponsorizzata dall’Unione delle Camere penali, che ne ha fatto, da sempre, un proprio cavallo di battaglia, addirittura promuovendo una iniziativa di legge popolare.
I testi dei d.d.l. sono piuttosto simili fra loro e prevedono: due concorsi per l’accesso in magistratura, uno per la magistratura requirente, uno per quella giudicante; due distinti C.S.M.; l’impossibilità di transitare da una all’altra delle due carriere; l’accesso per nomina nella magistratura giudicante di avvocati e professori universitari in materie giuridiche; l’abolizione del disposto di cui all’art. 107 della Costituzione, secondo cui “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (prefigurando, in tal modo, una gerarchizzazione degli Uffici, già oggi strisciante nelle Procure); infine, sostanzialmente, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, posto che nell’art. 112 Cost., dopo le parole “Il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” viene aggiunta la frase: “nei casi e nei modi previsti dalla legge” (che finisce con lo sterilizzare il postulato contenuto nella prima parte del periodo).
Quali le ragioni di tale riforma, secondo i suoi promotori? Assicurare un migliore e più efficiente assetto della giustizia penale e dare concretezza al principio del “giusto processo”, garantendo, con la separazione delle carriere, l’imparzialità e la terzietà del giudice.
Il che presuppone che oggi il transito da una funzione all’altra sia sostanzialmente libero e che, per effetto di tanto, il giudice non sia né terzo, né imparziale.
Ma è davvero così?
Un’analisi attenta e scevra da posizioni preconcette deve, a mio parere, partire dall’attuale assetto ordinamentale e verificare se quanto rappresentato nei d.d.l. di riforma risponda a verità.
Attualmente l’accesso in magistratura segue ad un concorso unico, per P.M. e giudice. Al termine delle prove concorsuali viene stilata una graduatoria dei vincitori e, successivamente, il C.S.M. individua un numero di posti, requirenti e giudicanti, da mettere a concorso, pari al numero dei vincitori, che effettuano la loro scelta sulla base della graduatoria medesima.
Alla stregua delle vigenti disposizioni (ultima la legge n. 71/22, modificativa dell’art. 13 del D. L.vo n. 160/06 sull’Ordinamento giudiziario), il passaggio da una funzione all’altra può avvenire una sola volta nell’ambito della carriera e nei primi nove anni dall’assunzione delle funzioni (al termine del prescritto tirocinio), purché fuori dal proprio distretto di Corte d’Appello e fuori regione, ovvero fuori del distretto ex art. 11 c.p.p. Successivamente sarà possibile un altro solo passaggio “dalle funzioni giudicanti alle sole funzioni requirenti, quando l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali, nonché il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni civili o del lavoro in un ufficio giudiziario suddiviso in sezioni”.
Si tratta, come si vede, di una strettissima “camicia di Nesso”, come è dimostrato dal fatto che, a far tempo dalla Riforma Castelli/Mastella del 2006 – e prima delle ulteriori restrizioni introdotte dalla Riforma Cartabia – sono passati alla funzione requirente solo 312 giudici (con una media annuale di 20 giudici) e dalla funzione requirente a quella giudicante solo 456 P.M. (media annuale di 28,5). Dunque si può affermare, senza tema di smentite, che già oggi, a fronte dell’unicità della carriera, esista una sostanziale separazione delle funzioni, tale da scongiurare il rischio di possibili condizionamenti del giudice da parte dell’organo requirente.
A ben vedere, infatti, nonostante l’attenzione dei riformatori (e, in genere, della politica) sembri incentrarsi sulla figura del P.M. (si parla spesso, per esempio, di “Partito delle Procure” ed è alle Procure che recentemente ha fatto riferimento il Ministro Crosetto, ipotizzando possibili inchieste finalizzate ad indebolire il Governo), è la figura del giudice ad essere attaccata (ed intaccata) dai fautori della riforma, in quanto – è giocoforza ritenere – questi si farebbe condizionare nelle proprie decisioni dall’appartenenza del P.M. al medesimo corpo giudiziario. Fuor di metafora: il giudice – G.I.P. o Giudice del dibattimento – renderebbe decisioni tendenzialmente favorevoli all’organo dell’accusa, appiattendosi sulle prospettazioni di quest’ultimo, tradendo, in tal modo, la propria terzietà ed imparzialità.
Questo, in un Paese in cui le assoluzioni, sul piano quantitativo si attestano oltre il 40%, mentre, sul piano qualitativo, si assiste frequentemente al rigetto di ipotesi accusatorie in processi nei quali gli Uffici di Procura hanno molto investito.
Un dato, questo, che smentisce ex se – e drasticamente – la tesi dei promotori della riforma. Se fosse vero, infatti, quanto sostenuto da costoro, gli esiti processuali dovrebbero esser ben diversi!
Peraltro, affermare che l’appartenenza alla medesima carriera si traduca in un vantaggio per il P.M. rispetto al difensore, ipotizzando che il giudice possa favorire chi provenga dal medesimo concorso, oltre ad essere smentito clamorosamente dai dati statistici, non ha alcun fondamento, posto che considerazioni analoghe potrebbero farsi, forse con ancora maggiore solidità, per i giudici dei successivi gradi di giudizio. A seguire tale impostazione, infatti, anche i giudici d’appello e, poi, quelli della Cassazione (tutti riconducibili all’alveo della magistratura giudicante) sarebbero passibili del medesimo sospetto – rendere decisioni coerenti con quelle del grado precedente – per scongiurare il quale , a stare alla logica dei promotori della riforma, dovrebbero anche costoro provenire da altro concorso e non far parte della medesima carriera. Un evidente paradosso.
Come ben evidenziato in un recente documento redatto da numerosi magistrati in pensione, “di fronte all’importanza della decisione da prendere, in qualsiasi causa, non conta assolutamente nulla l’appartenenza alla stessa categoria, essendo ben distinte le funzioni”. È veramente miserevole anche solo pensare che un giudice rinunci alla propria autonomia ed indipendenza di giudizio solo per compiacere un collega, venendo meno, in tal modo, all’essenza stessa della propria funzione.
Sono ben altre, allora, le VERE ragioni sottese alla riforma. Esse – come è dato cogliere anche nelle parole di alcuni commentatori (e come risulta, peraltro, dalle correlate modifiche dell’assetto costituzionale) – consistono nella volontà di ridurre l’autonomia e l’indipendenza del Pubblico Ministero, non solo nel suo status, ma anche nella sua capacità d’azione, portandolo nell’alveo di un incisivo controllo politico.
Al di là di roboanti proclamazioni di principio, secondo cui ne verrebbe comunque garantita l’autonomia e l’indipendenza, sono proprio le riforme correlate alla separazione delle carriere che disvelano tale intento recondito. La sottolineatura da parte dei promotori – con una interpretazione tendenziosa della norma – che soltanto i giudici (e non i P.M.) “sono soggetti alla legge” (art, 101 Cost.); la eliminazione (contenuta nel progetto di riforma) del terzo comma dell’art. 107 della Costituzione (secondo cui “i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni”); la modifica dell’art. 112 sull’obbligatorietà dell’azione penale, che resterebbe tale (sic!) solo “nei casi e nei modi previsti dalla legge” (legge che, ovviamente, promana dal potere politico); l’aumentato tasso di “politicità” dei due C.S.M. con la prevista parificazione dei membri laici a quelli “togati”; tutte queste innovazioni costituiscono evidente espressione di un’accresciuta influenza della politica sulla magistratura e delineano un diverso equilibrio fra i poteri dello Stato, confinando il P.M. in un territorio comunque controllato dalla politica e dal potere esecutivo (come accade, del resto, nei Paesi che adottano tale sistema). E controllare il P.M. si traduce, di fatto, in un controllo dell’intera magistratura penale, con tanti saluti al principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.
E se, invece, bypassando i timori di gran parte dei magistrati, la riforma, pur separando le carriere, garantisse una vera, effettiva autonomia ed indipendenza anche per il P.M.?
Se – come sostenuto nel libro “Meglio separate”, scritto proprio da un magistrato, il dott. Gaetano Bono – la riforma si risolvesse nella grande occasione di una effettiva innovazione dell’Ordinamento giuridico, con un ufficio del P.M. effettivamente indipendente, specializzato, non gerarchizzato, dotato delle necessarie risorse e tale da dare attuazione “al disegno costituzionale che vede la magistratura come potere diffuso”? Non sarebbe forse questa un’occasione da cogliere al volo?
Personalmente non penso che sia così ed anzi ritengo che quella prefigurata dal dott. Bono sia, allo stato, mera utopia.
Ma se anche così fosse, se, cioè, la riforma garantisse piena autonomia al P.M., il rischio potrebbe essere quello di avere un magistrato trasformato in una sorta di superpoliziotto, un “grande inquisitore” scevro da verifiche e controlli, che piuttosto che essere – come oggi è – promotore di giustizia, sarebbe un mero avvocato dell’accusa o della Polizia, non più tenuto istituzionalmente alla ricerca della verità ma, semplicemente, delle prove a carico dell’indagato.
Al contrario, io ritengo che, anche per il P.M., debba essere mantenuta – e, se del caso, incentivata – la cultura della giurisdizione; che anche il magistrato del P.M. “ragioni come un giudice”, perché “allontanarlo per decreto da una comune cultura del <<giudicare>> non aumenterebbe la tutela dei cittadini ma la diminuirebbe” (così Vincenzo Candido Renna su Bee magazine di alcuni giorni fa). Dunque, a mio modo di vedere, occorrerebbe aumentare piuttosto che limitare l’osmosi fra le due funzioni (così era in grandi tradizioni giuridiche del passato, quale quella romana, e così avviene anche in molti Paesi, fra cui la Francia e, parzialmente, la Germania, oltre che nel variegato mondo anglosassone).
L’Unione delle Camere penali, a supporto della propria iniziativa, ha fatto ricorso ad uno slogan suggestivo: separare le carriere per fare in modo che l’arbitro “non indossi la stessa maglia di una delle due squadre”. Si tratta di uno slogan, appunto, suggestivo, ma fuorviante, perché la giustizia non è un campo di calcio sul quale si fronteggiano due squadre, ma un terreno sul quale tutti i protagonisti, ciascuno per la propria parte e per il proprio ruolo (e quello del P.M. è ben diverso da quello del difensore), mirano al medesimo obbiettivo, che è quella della ricerca della verità nel rigoroso rispetto delle regole processuali. Separare le carriere, nell’attuale contesto storico, significa alterare le regole del gioco senza che la Giustizia, quella con la G maiuscola, ne tragga alcun giovamento. Sono altre, infatti, le riforme che servirebbero a tale scopo. È bastata, per esempio, la modesta – e limitata nel tempo – iniezione di risorse costituita dagli addetti all’Ufficio del processo per produrre risultati assai significativi sia con riferimento alla riduzione dell’arretrato che dei tempi di definizione dei processi. Di questo ha bisogno, soprattutto, la Giustizia, di risorse, e di una stabilità dell’assetto normativo che non cambi con una frequenza davvero eccessiva le regole del gioco.
Roberto Tanisi – Presidente ( fino a pochi giorni fa) del Tribunale di Lecce e già presidente della Corte d’Appello