(a margine di G.A.D.D.A. e di I fantasmi della nostra storia: Milano-Firenze-Milano dal 10 novembre 2023 al 14 gennaio 2024)
Dopo Carlo Emilio Gadda, se c’è un artista italiano che ha precocemente e ostinatamente fondato la propria ricerca di una fisionomia identitaria sulla tragedia per eccellenza del male, della colpa, della punizione, cioè l’Amleto di Shakespeare, è Fabrizio Gifuni.
Gifuni, come Gadda, scandaglia in profondità Amleto fin dai suoi studi all’Accademia Nazionale d’Arte drammatica “Silvio d’Amico”, dove viene ammesso a 23 anni. Là il grande maestro Orazio Costa per due anni fece studiare alla classe frequentata da Gifuni, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Pierfrancesco Favino, Sandra Toffolatti esclusivamente Amleto, fino a quando (ha raccontato Gifuni): “ognuno di noi alla fine lo sapeva tutto a memoria, in ognuno dei ruoli”, maschili e femminili. Tale padronanza del testo shakespeariano e lo studio approfondito della Cognizione del dolore e della sfera culturale di Gadda hanno permesso a Gifuni una metabolizzazione critica che ha affidato, anni dopo, al pirotecnico L’ingegner Gadda va alla guerra, o della tragica storia di Amleto Pirobutirro (diretto da Giuseppe Bertolucci dal 2010) in cui ha interpolato con l’Amleto in una crasi originalissima i diari di guerra, La cognizione del dolore, le invettive contro Mussolini da Eros e Priapo.
Tra il 2013 e il 2018 Gifuni ha portato in scena a Bari, Roma, Pescara, Napoli, Milano la sua drammaturgia Concerto per Amleto per orchestra sinfonica, ugualmente tratta da Shakespeare (la voce si affiancava alle musiche di Dmitrij Sostakovic da op. 32, musiche di scena per Amleto di Nikolai Akimov e op. 116 musiche per il film Amleto di Grigori Kozintsev, affidandosi alla consulenza musicale di Rino Marrone; i dati completi con fotografie di scena sono sul sito personale: https://fabriziogifuni.it/concerto-per-amleto/).
Nel 2016 Gifuni ha detto (a Stefano Bartezzaghi per “la Repubblica” del 3 ottobre) che vede molte messe in scena di Amleto perché non resiste “alla curiosità di sapere come vengono sciolti certi nodi”. Così ha stilato indirettamente un canone delle sue predilezioni: l’Hamlet di Benedict Cumberbatch in scena al Barbican Theatre dal 5 agosto 2015 (un particolare delle cui immagini ufficiali rilasciate nel 2014, se non sbaglio, è l’icona scelta da Gifuni per il suo profilo su What’s app: https://www.independent.co.uk/arts-entertainment/theatre-dance/news/benedict-cumberbatch-as-hamlet-new-poster-shows-child-version-of-actor-as-danish-prince-9645096.html); soprattutto l’Amleto di Richard Burton, di cui possiede un VHS che si era procurato a Londra; infine, come spettacolo vero e proprio, un Amleto a Madrid con regia inglese e compagnia spagnola che sottolineava “un punto cruciale, spesso trascurato: la Corte, il Palazzo. Amleto è una tragedia regale, non un dramma borghese, domestico”.
Per questo aspetto misconosciuto o travisato di Amleto, Gifuni converge sull’intuizione di uno degli autori prediletti, Gadda. Nel 1925 l’Ingegnere da studente aveva cominciato a interrogarsi su Amleto per scrivere una tesina (chissà se sollecitato dalla fama mondiale dell’allestimento della tragedia portato tra New York e Londra da John Barrymore, o dalla traduzione italiana di Diego Angeli uscita a Milano per i Fratelli Treves proprio nel 1925). Gadda pensò poi per tutta la vita (pur non essendo mai diventato un uomo di teatro) che meritavano di essere risarciti in scena il ruolo politico centrale di Polonio e tutti i riferimenti alla vita degli attori disseminati in Amleto. Da vecchio pare che rileggesse solo Amleto.
Quindi Gifuni ha confessato (nella stessa intervista del 2016 a Bartezzaghi) che gli “potrebbe capitare” di portare in scena un Amleto “completo”. Si tratta di un’idea che è tornata anche in relazione a un esperimento che Gifuni ha fatto di nuovo su Amleto, stavolta eliminando Ofelia e dando maggiore forza alla dimensione pubblica del tradimento, al gioco del potere attraverso il gioco (play) del teatro, alla virtù che col potere confligge inesorabilmente. Gifuni ha riassunto questo suo ultimo lavoro shakespiriano il 30 dicembre 2022 in un post su Instagram:
“Nel giugno del 2019 mi invitarono a Londra per un piccolo Festival dedicato alla scena teatrale italiana, organizzato dall’Istituto italiano di Cultura in un bel teatro a Notting Hill. Potevo scegliere cosa portare, mi scrivevano, ma Gadda, Pasolini o Testori, aggiungevano, sarebbero stati sicuramente graditi. In un lampo di incoscienza risposi che avrei preferito portare un omaggio ad Amleto. Chiamai il mio amico G.U.P. Alcaro con cui avevo fatto un primissimo studio sonoro sul testo, nel 2016, per il Salone del libro di Torino [Remember me. Omaggio ad Amleto]. […] Chiesi a Giupy di fare uno dei suoi fantastici lavori di sonorizzazione, mettendo insieme suoni delle porte del Palazzo di Elsinore, interni e esterni del castello, inni identitari, folle acclamanti, una campionatura musicale della voce strabiliante di Antony and The Johnsons, rumori di spade a duello, più varie ed eventuali. Tutto avveniva nella testa del Principe, nel suo “teatro della mente”, dove si rincorrevano le voci dei personaggi, suoni, rumori, musiche e una ventina di scene di Hamlet. Ne venne fuori un lavoro niente male che persino il pubblico inglese sembrò apprezzare. Fra i tanti buoni propositi per il nuovo anno, penso che non sarebbe male riprendere in mano l’intera questione”.
In attesa che fra “i tanti buoni propositi” di questo 2023 in scadenza ci sia anche il progetto futuro di un Amleto completo, dal 10 novembre Gifuni ha ricominciato a condividere in teatro due giochi rituali, o esorcismi, o formule sceniche: G.A.D.D.A. – Galline Autolesioniste Declamano Dubitazioni Amletiche e I fantasmi della nostra storia, prodigiosi per originalità e per lo sforzo mnemonico e fisico sostenuto in una concentrazione di poche settimane, con resa e successo immutati. Quest’anno Gifuni raggiunge infatti trent’anni di carriera, coincidenti con il David di Donatello ricevuto dall’Accademia del cinema a maggio come protagonista di Esterno notte di Marco Bellocchio. Gifuni ha dedicato il premio ai registi indipendenti visionari con i quali ha spesso scelto di lavorare: Giuseppe Bertolucci, Claudio Caligari, Antonio Capuano, Davide Manuli (della collaborazione con Manuli la rubrica si è occupata il 15 settembre: https://beemagazine.it/larte-non-e-una-faccenda-per-persone-perbene-mostre-teatro-e-performance-art/).
Dopo la folgorazione giovanile per Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, tra 2004 e 2014 Gifuni si è imposto progressivamente come interprete, e per molti versi anche critico, privilegiato di Gadda: la sua lettura integrale per Emons audiolibri di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana invoglierebbe chiunque a leggere e ad amare Gadda e chi ha assistito ad almeno una recita di L’ingegner Gadda va alla guerra, o della tragica storia di Amleto Pirobutirro, forse ne porta ancora addosso il campo energetico diffuso.
Così il 10 novembre scorso il Piccolo Teatro a Milano ha ospitato un rito collettivo partecipatissimo, G.A.D.D.A. – Galline Autolesioniste Declamano Dubitazioni Amletiche (un acronimo suggerito da Stefano Bartezzaghi). Gifuni ha presentato in una composizione scenica non incasellabile nello “spettacolo” né nella “lezione-spettacolo”, ma piuttosto in “Un gioco rituale. Un esorcismo. Una formula” il suo trentennale rapimento per il lavoro sull’Ingegnere, in cui la lingua si fa arte quando non nasce “per filologicale senatoconsulto” né si ferma all’”uso-Cesira” (così scrive Gadda dei pedanti e degli incolti in Lingua letteraria e lingua dell’uso ora benissimo edito e annotato da Mariarosa Bricchi in I viaggi la morte per Adelphi, su cui Gifuni ha studiato per il suo lavoro).
Le parti di G.A.D.D.A. sul Giornale di guerra e di prigionia e su La cognizione del dolore coinvolgevano profondamente. La prima anche perché esplicita sugli effetti orrendi delle guerre, la seconda perché chiudeva il cerchio su Amleto, che il 10 novembre è risorto molte volte, insieme a Pasolini: Gifuni ha illuminato con una sapiente lettura critica un trascurato “Progetto di uno spettacolo sullo spettacolo” del 1965 mai attuato da Pasolini (bisogna scavare nei meandri di carta velina del Meridiano Mondadori dedicato al Teatro per le cure di Walter Siti e Silvia De Laude, pp. 237-241). Pasolini immaginava proprio Gadda come personaggio protagonista di un’azione basata sulla simultaneità performativa in un unico spazio (una cosa che uno dei ras del teatro di regia, Luca Ronconi, fa veramente con la prima dell’Orlando Furioso a Spoleto il 4 luglio 1969). In aggiunta, lavorando sui saggi di Gadda Teatro e Amleto al Teatro Valle, Gifuni ha proposto una lettura critica del rapporto di Gadda col teatro, trascurato nella sua reale essenza e su cui è significativo che sia stato un artista ad accendere, da tempo, i riflettori.
Il rito collettivo milanese ha avuto anche un valore civile (costante nelle drammaturgie di Fabrizio). Il giorno prima del debutto, nel CdA del teatro fondato da Grassi e Strehler dove tra 1944 e 1945 i fascisti milanesi della “Legione Ettore Muti” della RSI torturavano i partigiani è entrato un rappresentante della dinastia del più fiero collezionista di cimeli del “Trombone trombatissimo“. E allora: modifica della scaletta a rotta di collo, ingresso di Eros e Priapo, fuga indignata di qualche spettatore come ai tempi di L’ingegner Gadda va alla guerra, missione compiuta.
Mentre scrivo, Gifuni continua a tessere la sua ostinata e contraria antibiografia del Paese con l’esercizio della memoria (storica e di artista), portando nei teatri per la prima volta insieme e in successione nella stessa settimana il dittico I fantasmi della nostra storia (ha cominciato dal Teatro della Pergola a Firenze, continuerà a Milano al Teatro Franco Parenti a gennaio 2024. Le date complete sono qui: https://fabriziogifuni.it/teatro-stagione-2023-2024/).
Con I fantasmi della nostra storia sono in sinergia reciproca le parole in vita di due fantasmi insepolti della storia italiana, Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro. Come il padre assassinato di Amleto, entrambi appaiono a chi è in grado di non dimenticare il loro impegno di ricerca assidua di alternative alla foschia di un periodo storico che entrambi vissero con disagio, fino all’isolamento e alla morte sinistramente simili.
Come per G.A.D.D.A., anche per Pasolini e Moro eternamente spettri che rivivono in I fantasmi della nostra storia, lo studio della lingua dei loro scritti pubblici e privati ha permesso a Gifuni di rivelare il carattere profondo dei rapporti dei due personaggi con i loro contemporanei che in tante maniere diverse contribuirono alle loro condanne a morte.
Come a Milano per G.A.D.D.A., anche a Firenze negli esperimenti scenici, o “oggetti teatrali non indentificati”, di I fantasmi della nostra storia Gifuni veste i propri abiti civili in una scena scabra messa in continua crescente tensione da un’orchestra di luci (alla cui riuscita contribuisce l’illuminotecnica di Danilo Cencelli): altri due segnali che a celebrare il rito collettivo con i cittadini è un artista che si dichiara sempre più esplicitamente cittadino attivo, consapevole che senza orpelli di scena “non si può barare” (come egli stesso ha detto in un incontro con il pubblico alla Pergola il 29 novembre).
Entrambe le parti del dittico cominciano con un prologo: una struttura che richiama quella della tragedia greca e che rafforza il senso di “teatro di cittadinanza” anche nel richiamo alla formula di scansione dei tempi della drammaturgia antica.
Alla fine del prologo di Il male dei ricci. Ragazzi di vita e altre visioni Fabrizio Gifuni si congeda dal pubblico per fare posto dentro di sé al fantasma di Pasolini con una trovata apparentemente semplice ma recitata con tale naturalezza che ho sentito alcune persone sedute dietro di me chiedersi: “ma si sente male?”, “sente davvero dolore?”.
Alla fine del prologo di Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro Fabrizio Gifuni si fa abitare dallo spettro di Moro entrando nella prigione come una sagoma espressionista che accovacciandosi compie un gesto rituale impalpabile, si toglie la giacca, la posa sulla sedia davanti alla scrivania che resterà sempre in scena, prende la risma di fogli che praticamente sono anche essi un oggetto, non un vera e propria traccia per la memoria stupefacente dell’artista (a ogni replica che ho visto, quando la silhouette nera del fantasma entrava in scena di profilo sullo sfondo blu, mi venivano in mente, forse non così a sproposito, le ombre notturne del Nosferatu di Murnau e di Robert Mitchum in The Night of the Hunter).
La prima parte di I fantasmi della nostra storia. Il male dei ricci, monta e fonde tra loro scritti eterogenei di Pasolini: il primo romanzo Ragazzi di vita si trasfigura in un rimando di specchi nelle profezie e nelle palinodie di Poesia in forma di rosa, di Lettere luterane, di Seconda forma de La meglio gioventù, dell’ultima intervista concessa a Furio Colombo la sera prima di morire, Siamo tutti in pericolo. Gifuni sintetizza e rielabora drammaturgicamente i suoi precedenti lavori su Pasolini, cominciati con l’indimenticabile funambolico (anche linguisticamente) ’Na specie de cadavere lunghissimo, diretto da Giuseppe Bertolucci, e proseguiti con altre esperienze, compresa la lettura integrale di Ragazzi di vita per Emons audiolibri.
Il risultato è che ci si porta dentro per giorni, anzi credo per sempre, “qualcosa / (che tu sai bene, perché è la poesia)”.
Nella seconda parte di I fantasmi della nostra storia. Con il vostro irridente silenzio, Gifuni celebra un rituale scenico con la sua drammaturgia tratta da un vero e proprio “meteorite” (come lo chiama lui nel prologo), cioè il nucleo di scritti composto dalle lettere dalla prigionia e dal memoriale di Aldo Moro, forse i documenti più sconcertanti della storia della Repubblica. Rispetto a Il male dei ricci, la seconda parte del dittico può sembrare quella meno performativa; eppure a ben guardare è quella che richiede maggiore sforzo fisico a Gifuni dopo che si trasforma in ombra alla fine del prologo.
In Con il vostro irridente silenzio per quasi tutta la durata del “gioco rituale” Gifuni stringe e fa vibrare tutto il corpo fino alla punta delle dita delle mani e dei piedi in una morsa dalla quale non si libera, come se ancora il corpo fisico dello spettro di Moro parlasse costretto nella “prigione del popolo”. Quando lo spettro emerge dall’acme della tragedia culminante nel memoriale sul mefistofelico Giulio Andreotti, comincia ad avvicinarsi al confine della prigione delimitata da quattro linee bianche con passi, gesti e movenze inaspettati, quasi da rockstar, con un microfono che diventa esso stesso parte della performance; poi lo spettro tenta perfino di uscire da quel confine con pochi passi barcollanti che lo ricacciano indietro, quando la constatazione della realtà ha il sopravvento e l’auspicio bellissimo di trovare luce nell’altra vita che lo aspetta chiude la lettera di addio alla vedova Eleonora (in una trazione che aumenta replica dopo replica, fino all’ultima, quando gli applausi del pubblico della Pergola, pieno di energia e commozione, hanno richiamato Gifuni sul palco non so più quante volte).
Senza alcuna aggiunta né adulterazione della fonte originale, da Con il vostro irridente silenzio Moro emerge sorprendentemente (per molti dei presenti) come uno scrittore esperto, capace di cambiare genere e registro a seconda dei destinatari e delle fasi della prigionia, in questo aiutato dal doppio ruolo professionale di professore universitario e di politico. All’inizio Moro si apre con la moglie in veri e propri squarci di poesia: “Ma quando si rompe così il ritmo delle cose, esse, nella loro semplicità, risplendono come oro nel mondo” (da p. 44 della drammaturgia di Con il vostro irridente silenzio, della quale scrivo diffusamente dopo). L’apparentemente placido Moro è addirittura aggressivo quando urla dal carcere al segretario della DC, Benigno Zaccagnini (al quale il prigioniero riserva le allocuzioni più sarcastiche e violente): “Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte? […] Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese” (la lettera, recapitata il 20 aprile 1978, è alle pp. 80-82 di Con il vostro irridente silenzio).
Quando lo spettro di Moro traccia nel memoriale la storia politica di Andreotti come quella di un vero e proprio genio tragico del male, la figura del fantasma si carica di chiaroscuri sinistri, il suo volto urla dal buio come gli alti funzionari della Chiesa di Francis Bacon, né più e né meno che se si trattasse dello spettro di Banco in Macbeth, con modulazioni accresciute spaventose del tono della voce, che culmina in una condanna inappellabile: “Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male della sua vita?” (questa parte si legge alle pp. 102-104 di Con il vostro irridente silenzio).
Il giorno dopo che Gifuni ha recitato le parole di Pasolini sullo stesso palco, vedere le preghiere e le invettive di Moro tradito dagli amici e processato dalle Brigate rosse prendere corpo riporta a galla nella memoria, con il malsano malessere di una preterizione, quei famosi articoli pubblicati da Pasolini su “Il Mondo” e sul “Corriere della Sera” pochi mesi prima di essere assassinato: Pasolini chiedeva con violenza decisa e argomentata un “Processo Penale” pubblico per i “gerarchi” della Democrazia Cristiana (dai quali distingueva positivamente proprio Moro). Il “Processo Penale” sarebbe dovuto finire con una condanna “alla fucilazione, all’ergastolo, all’ammenda di una lira” per cominciare con una nuova epoca (gli articoli dal 24 agosto al 28 settembre 1975 sono raccolti nell’edizione Einaudi del 1976 delle Lettere luterane di Pasolini alle pp. 107-151: 116, 148).
Quasi ogni scelta di ricavare una drammaturgia da un testo che è in primo luogo una fonte storica è un atto ermeneutico-esegetico che Gifuni opera attraverso tagli, interpolazioni e un montaggio tali da evidenziare l’aspetto politico e civile del testo e di attualizzarlo senza corromperlo. Proprio la visione critica di Amleto come tragedia della virtù che confligge col potere ha permesso a Gifuni, con naturalezza da storico, di scegliere un’architettura shakespeariana per il saggio introduttivo che ha scritto in occasione della pubblicazione nel 2022, per Feltrinelli, della drammaturgia di Con il vostro irridente silenzio, lavorando e discutendo con “rigorosi e appassionati storici di professione di diversa scuola”, come fa sempre per ogni sua opera (lo scrive a p. 16 di I fantasmi della nostra Storia premesso al libro Con il vostro irridente silenzio). Gifuni definisce “un grande tradimento shakespeariano di cui Moro fu vittima” la “parte importante di storia del nostro Paese” che affronta nel rito teatrale di Con il vostro irridente silenzio (ancora p. 16 di I fantasmi della nostra Storia, premesso al libro Con il vostro irridente silenzio, che inizia con il paragrafo Questi fantasmi, un soffuso omaggio concettuale al nume Eduardo).
Gifuni ha intitolato il saggio I fantasmi della nostra Storia e lo ha cominciato coerentemente evocando gli spettri più celebri del teatro mondiale: il fantasma del padre di Amleto, lo spettro di Banco in Macbeth e i sei personaggi pirandelliani. Ha messo in chiaro che ritiene “il teatro la vera casa dei fantasmi” la cui vita fu interrotta da morti violente, come le vite degli spettri ai quali ha scelto di dare corpo e voce in veste di drammaturgo e attore: Pasolini (sulla cui morte si ricomincia ciclicamente, e significativamente, a indagare) e Moro, ai quali “non è stata data ancora degna sepoltura” (pp. 9-10 di Con il vostro irridente silenzio). Gifuni spiega che nella drammaturgia fa parlare l’”unica fonte, quella diretta”, sulla quale ha lavorato con criteri rigorosi (praticamente accademici, nel senso alto del termine) che ha esplicitato, anche perché, scrive giustamente: “Da uomo di teatro nutro da sempre molta fiducia nei testi” (a p. 19). Ha messo in evidenza che il tradimento shakespeariano si riassume in un’affermazione affidata dal Presidente al Memoriale: su Giulio Andreotti e gli altri ex amici democristiani: “mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti” (a p. 26 del saggio I fantasmi della nostra Storia e a p. 105 della drammaturgia). Seguendo i criteri cronologici, storici e linguistici (pp. 20-23) che si è imposto lavorando alla sintesi delle fonti che aveva a disposizione, cioè le carte di Moro a partire dal 27-29 marzo 1978, Gifuni ha ottenuto una climax drammaturgica dall’alto e tragico valore civile.
La drammaturgia Con il vostro irridente silenzio è stata anche un modo di fare i conti con una “storia di fantasmi” affidata al paragrafo finale della sua introduzione, che Gifuni ha intitolato Il porto sepolto (pp. 32-36 del libro). Così Ungaretti aveva intitolato la sua prima raccolta di poesie nel 1916, nella quale “non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno”: una dichiarazione in linea con lo spirito di Moro e, quindi, anche con l’argomento e lo spirito della drammaturgia di Gifuni.
Ho dedicato tanto spazio alla drammaturgia e al saggio introduttivo di Con il vostro irridente silenzio perché non si sottolinea mai abbastanza che l’arte di Gifuni si estrinseca in modo consistente e non estemporaneo anche in una scrittura cristallina e intelligentissima espressa in vari generi letterari (un’antologia dei suoi scritti liberamente scaricabile è nella sezione 360° del suo sito personale: https://fabriziogifuni.it/360-2/). Gifuni scrive articoli per riviste scientifiche e giornali sugli autori sui quali ha lavorato per anni, a cominciare da Gadda e Pasolini, e saggi storici e critici, come la prefazione alla ristampa dell’edizione originale di Il dio di Roserio di Giovanni Testori, la cui lingua “potentemente pittorica, folle e visionaria” l’artista portò in scena nel gennaio 2016 e durante la prima settimana del maggio 2017 al Teatro Franco Parenti a Milano; sarebbe bellissimo un suo nuovo esperimento scenico su Testori, che anche da pittore, critico e pure storico dell’arte fu creatore di una lingua ecfrastica dall’alta temperatura emotiva.
La scrittura non è la sola arte presentissima nel lavoro di Gifuni.
Anche la musica è ispirazione continua negli interessi condivisi con la moglie Sonia Bergamasco (l’unica artista musicale italiana e, per me, la voce femminile più bella della nostra scena artistica, della quale la rubrica si è occupata il 5 maggio 2023: https://beemagazine.it/lo-specchio-nel-quale-chi-ne-ha-il-coraggio-si-puo-guardare/ ): dai lavori teatrali sulla Commedia dantesca e sul Piccolo principe al film Musikanten per Franco Battiato a una drammaturgia tratta dall’epistolario di Mozart. Gifuni ha dato anche voce alle parole del rivale di Gian Lorenzo Bernini, l’architetto Francesco Borromini morente suicida, raccolte da un medico il 2 agosto 1667, nella Morte di Borromini di Salvatore Sciarrino alla Scala nel 2017. Si arriva, così, anche alla storia dell’arte.
Gifuni ama moltissimo la bellezza generata da una ferita nelle statue di Alberto Giacometti (così la vedeva un drammaturgo, poeta e scrittore come Jean Genet). All’artista ha dedicato vere e proprie dichiarazioni come quella su Instagram del 20 agosto 2021: “È da più di trent’anni che venero il genio e il mistero di questo signore #albertogiacometti”. Non è così scontato che un artista si appassioni all’arte difficile della scultura se non la pratica, e anche questa predilezione per Giacometti è una delle caratteristiche che fanno di Gifuni un artista (positivamente) fuori dai cardini. Ci sono effettivamente della affinità elettive nel modo di intendere il rapporto tra artista, opera d’arte e pubblico e il ruolo della tradizione. Nella sua pratica di rituali scenici, Gifuni attribuisce un ruolo fortissimo al pubblico (anzi, ai cittadini), che condiziona fortemente la sua performance recita dopo recita. Anche la sua visione degli scritti di Gadda e Pasolini è il suo modo di trovare nelle parole del passato la maniera più efficace di descrivere la storia a noi contemporanea.
Quasi allo stesso modo, mentre visitava il Louvre intervistato da Pierre Schneider per un libro diventato classico, Giacometti attribuì grande importanza al ruolo di chi guarda un’opera d’arte e a quello dell’arte del passato che meglio di quella contemporanea può illuminare il presente:
“la cosa che mi stupisce, che mi colpisce di più, non sono i pittori o gli scultori, ma gli spettatori. Ormai non faccio che guardare le persone che guardano. […] Di recente ero di fronte a delle sculture caldee; a un certo punto vedo una donna china su una scultura che la guarda. All’improvviso, la scultura caldea diventava un sasso malamente sbozzato che rappresentava sommariamente una testa. E la testa che la guardava diventava una cosa strabiliante, meravigliosa, assolutamente ignota. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella persona”. E, sulla tradizione: “le opere del passato che mi sembrano somigliare di più alla realtà sono quelle che in genere riteniamo più lontane” (cito dal libro ormai classico di Pierre Schneider, Louvre, mon amour. Undici grandi artisti in visita al museo più famoso del mondo (1967) tradotto per Johan & Levi Editore nel 2012 da Ximena Rodríguez Bradford, 2012; nuova edizione 2023, pp. 55, 58).
L’impegno di artista che è anche scrittore e critico attento a ogni forma di espressione visiva e linguistica nasce tra l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” e l’università La Sapienza. Come nelle fiabe, anche nella realtà evocare la preistoria serve a trovare la chiave del presente.
Molto versato nell’imitazione delle voci altrui fin da bambino, Gifuni al liceo classico a 16 anni si trova a interpretare Mercuzio, un ruolo shakesperiano piuttosto movimentato (anche fisicamente, se si vuole, come si è visto la scorsa primavera nel Mercuzio di Alessandro Bay Rossi nel Romeo e Giulietta di Mario Martone al Teatro Strehler). “Quello che realizzai subito fu una cosa molto elementare: recitare era una cosa che mi faceva stare bene. E quella condizione di imprevista felicità mi faceva avvertire questo lavoro come il più bello del mondo” (lo ha detto al «Corriere della Sera», 15/08/2009). Gifuni si iscrive poi all’università e arriva vicinissimo alla laurea in Giurisprudenza. Assecondando una vocazione ormai dominante, entra infine all’Accademia Nazionale di Arte drammatica “Silvio d’Amico”, dove si diploma. Questa esperienza formativa torna di continuo nel lavoro di attore di Gifuni, che tra l’impegno di artista per il palcoscenico e il cinema e il portato dell’infanzia non smette di tendere un nesso che il suo maestro in Accademia, Orazio Costa, favoriva il più possibile tra gli allievi:
“Precondizione di qualsiasi lavoro sul testo o sul personaggio, il risveglio dell’infanzia e del suo infallibile istinto mimico. Riavvicinarsi sempre di più a quell’innata capacità di diventare ‘qualsiasi cosa’ che hanno i bambini nei primissimi anni di vita. Un viaggio a ritroso alla ricerca di un’età dell’oro – il primo stadio dell’esistenza – in cui famiglia, scuola e convenzioni sociali non hanno ancora avuto il tempo di chiudere la propria morsa infernale sui nostri corpi, interrompendo quel fiume di energia spudorata e benedetta. Che è mimica allo stato puro” (Gifuni ne ha scritto ricordando Costa sul numero monografico di “Ridotto”, 10/11, ottobre/novembre 2012, a p. 43).
“Energia” e “mimica allo stato puro” erano, in forme molto originali, al centro delle performance degli artisti che il giovane Gifuni imparava ad amare, andando a teatro praticamente tutte le sere mentre frequentava l’Accademia. A questa parte della sua formazione hanno contribuito anche gli spettacoli di Giorgio Gaber (celebrato in queste settimane dal docufilm di Riccardo Milani Io, noi e Gaber), che hanno lasciato esperienze vividissime ancora oggi:
“Ero pazzo di lui da ragazzo, pazzo della sua voce, del suo timbro unico, della sua ironia, della sua intelligenza urticante e così poco prevedibile. Ma la cosa che amavo di più in assoluto era tornare in teatro tutte le sante sere successive, fino all’ultima replica, per assistere gratuitamente ai bis. Il piano era sempre lo stesso: mi appostavo nel foyer – il teatro di solito l’Eliseo o il Giulio Cesare – arrivando verso le undici, undici e un quarto, perché sapevo che appena terminato ufficialmente lo spettacolo, al momento degli applausi, le maschere avrebbero aperto le porte. E io sapevo che il mio spettacolo preferito sarebbe cominciato solo dopo quei lunghi applausi, perché solo allora Gaber si sarebbe slacciato il colletto della camicia, si sarebbe allentato il nodo della cravatta e avrebbe dato sfogo a tutta la sua energia spudorata e benedetta: iniziavano i cosiddetti bis (anche a richiesta) che potevano durare anche mezz’ora, un altro spettacolo dopo lo spettacolo. Allora scivolavo dentro, restando in piedi sul fondo della sala, poi di solito, pezzo dopo pezzo, mi spostavo in avanti di qualche metro lungo le pareti laterali, per arrivare vicinissimo al palco. Gaber allora diventava irresistibile, ripercorreva il meglio del suo repertorio, stravolto in un bagno di sudore, improvvisava commenti esilaranti spesso solo col volto. Dopo ogni pezzo lanciava urli liberatori di gioia, il corpo si torceva con i pugni stretti, in una comunione totale e totalmente erotica con il suo pubblico. Una gioia indescrivibile, uno spettacolo nello spettacolo” (cito dal post di Gifuni su Instagram del 2 gennaio 2023: https://www.instagram.com/p/Cm6l__VqCSf/).
Proprio in questo vivacissimo periodo di formazione, tre incontri quasi contemporanei cambiavano la vita al Gifuni poco più che ventenne: l’incontro con il suo maestro in Accademia Orazio Costa, l’incontro durante gli stessi anni con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda e quello con Il Rito di Ingmar Bergman.
Quando Gifuni decide di non laurearsi in Giurisprudenza all’Università La Sapienza, fermandosi all’esame di Procedura penale studiato sul manuale di un maestro come Franco Cordero “prima di un Macbeth al teatro romano di Verona”, deve la svolta agli effetti rivelatori di uno dei film sul teatro più potenti mai fatti, Il rito (1967-1968; messo in onda dalla tv svedese il 25 marzo 1969). Il rito è un film feticcio anche per gli storici dell’arte interessati alla tradizione e al ruolo civile delle arti visive.
Si tratta di un film che per li rami riporta anche a una tradizione familiare: nella versione italiana, Thea/Ingrid Thulin ha la voce di una delle più illustri doppiatrici italiane, Noemi Gifuni, procugina di Fabrizio. Nel film tre attori mettono in scena una performance accusata di oscenità, incerti se essa (e quindi il teatro) sia “Un gioco rituale. Un esorcismo. Una formula” (la definizione oscillante è pronunciata dall’attore Hans Winkelmann, interpretato da Gunnar Björnstrand, e si può leggere nella sceneggiatura pubblicata in Ingmar Bergman, Sei film, Torino 1979, pp. 177-228, a p. 223, contestualizzata da Salvatore Settis nel più bel saggio sul film: Ingmar Bergman: archeologia del Rito, pubblicato da Feltrinelli nel libro Incursioni. Arte contemporanea e tradizione nel 2021, pp. 103-131). Proprio da Il rito a Gifuni viene l’idea di scrivere un intrigante abbozzo di tesi di laurea che, con i criteri di oggi, sarebbe una tesi interdisciplinare tra Storia del Diritto penale e processuale e Storia dell’arte. L’abbozzo è intitolato Ordinare o precipitarsi? Divagazioni sul rito, il gioco e il processo penale (ha molto impressionato chiunque abbia avuto il privilegio di leggerlo).
Dall’abbozzo per la tesi di laurea Gifuni ha tratto un articolo, Ordinare o precipitarsi? Sul Rito di Ingmar Bergman (uscito su “Rifrazioni dal cinema all’oltre”, n. 8 che si legge sul suo sito). Vi ha scritto del potere progressivo che ha esercitato Il rito sulla sua biografia professionale: “L’impulso ordinatore del diritto e l’impulso disaggregante dell’arte” sono, a suo parere, alla base del conflitto messo in atto da Bergman (entrambi gli impulsi coesistono, originalmente e felicemente, nell’arte di Gifuni).
“Il Rito è un grande film sulla potenza invisibile e deflagrante del teatro. Quando ancora pensavo di concludere i miei studi universitari in legge, pensavo a questo film – assieme a un episodio dell’Amleto di Shakespeare e a un racconto di Plutarco – come punto di partenza per un’ipotetica tesi di laurea che, probabilmente, nessuno mai mi avrebbe concesso. Il tema era: quanto della potenza arcana del Rito sopravvive all’interno del rito processuale? È possibile, in un processo penale, ‘muovere’ l’altrui coscienza, spostarla, colpirla insomma, attraverso una serie preordinata di azioni, gesti e parole? Il nucleo simbolico del rituale sopravvissuto all’interno del Processo è ancora in grado di condizionarne gli esiti? Questi i quesiti che mi ponevo. […] Fu così che decisi di chiudere i libri di giurisprudenza e diventai un attore”.
La seduzione perpetrata su Gifuni da giovane da un film come Il Rito si intreccia a quella per il cinema politico di Elio Petri: “un film abbagliante come I giorni contati” con “un immenso Salvo Randone” è uno dei film che hanno maggiormente contato per Gifuni: (lo ha dichiarato egli stesso: https://www.instagram.com/p/Clo1sXpLZtx/?img_index=1). Come per Il rito, anche I giorni contati ha un grande valore per la storia dell’arte, addirittura per la forma ironicamente documentaria con cui il film si mostra al passo con le vicende del mercato americano dei falsi quadri informali e pop a Roma all’inizio degli anni Sessanta.
Per Gifuni, se poi i film politici di Petri sono interpretati dall’attore in assoluto più amato dall’artista, Gian Maria Volonté (come non concordare con lui?), ancora meglio. È poi andata che Gifuni è stato spesso paragonato al grande artista milanese per versatilità professionale e impegno pubblico, con una felice comunicazione tra il ruolo di artista e quello di cittadino attivo sempre più innestata nella parte finale di questi trent’anni: tra il 2012 e il 2022 Gifuni ha ricevuto i premi intitolati a Volonté e a Petri, mentre confermava con il suo lavoro e con nuovi impegni il ruolo di intellettuale calato nel suo tempo.
Ha fondato l’Unione Nazionale Interpreti Teatro e Audiovisivo (U.N.I.T.A.) per la rivendicazione e la difesa dei diritti dei lavoratori dello spettacolo, tra i meno tutelati d’Europa.
Parallelamente, l’attenzione all’importanza della didattica del mestiere di attore si è tradotta anche nel compito di dirigere la collana “Franco Angeli Drama” dedicata a: “La letteratura internazionale portata in Italia per contribuire professionalmente alle Arti Drammatiche” con Matteo Franco (attore e performer internazionale che l’11 novembre scorso al teatro Out/Off a Milano si è esibito nell’eccezionale performance-fiume collettiva di Jan Fabre PEAK MYTIKAS -On the top of Mount Olympus, di cui presto si occuperà questa rubrica).
C’è infine un progetto che Gifuni persegue con tenacia, perché legato alle sue radici e destinato a bonificare attraverso l’esercizio della cultura un territorio difficile come la Capitanata: da sette anni a Lucera per PrimaVera al Garibaldi Gifuni cura con Natalia di Iorio (da poco diventata membro del CdA del Teatro di Roma) un ciclo di rappresentazioni teatrali con i maggiori artisti europei (Ute Lemper, Toni Servillo, Massimo Popolizio, Luigi Lo Cascio, Alessio Boni, Lino Musella, Sandro Lombardi, Sonia Bergamasco e tanti altri). PrimaVera al Garibaldi si svolge in primavera nello storico teatro Garibaldi e in estate nell’Anfiteatro augusteo, in un costante dinamismo a favore della conoscenza della storia e del territorio di Lucera attraverso l’arte, intesa non come svago ma come mezzo per illuminare la storia, la cultura, il senso civico di appartenenza, soprattutto a favore delle giovani generazioni (della tradizione artistica e culturale della famiglia Gifuni la rubrica si è occupata il 2 agosto: https://beemagazine.it/per-capire-larte-ci-vuole-una-sedia-la-rubrica-di-floriana-conte-gifuni-nonno-e-nipote-il-diritto-i-libri-il-patrimonio-pubblico-le-arti-da-lucera-a-lucera/).
I libri, il cinema, la musica, la storia dell’arte, il teatro l’Accademia e la giurisprudenza, l’impegno di cittadino. Risulta del tutto logico, dunque, che Gifuni abbia maturato doti eccellenti nell’interpretazione di personaggi storici e della contemporaneità: da Moro per Marco Tullio Giordana e Bellocchio, a Basaglia per Marco Turco, a Pippo Fava per Daniele Vicari, a De Gasperi per Liliana Cavani, dagli speculatori finanziari per Luca Ronconi, Marco Bellocchio, Paolo Virzì, al Sigmund Freud tormentato dal dubbio in una regia onirica di Federico Tiezzi per il Piccolo Teatro (una di quelle macchine sceniche che andrebbero tenute in repertorio).
Per il suo ingresso in un personaggio realmente esistito, Gifuni studia sempre moltissimo con piglio scientifico: lo ha fatto leggendo i libri e una biografia di Freud per Tiezzi, leggendo i lavori degli storici per Con il vostro irridente silenzio, per Esterno notte e per il cattivo inquisitore Pier Gaetano Feletti di Rapito che nella scelta tra etica e diritto non ha dubbi; lo ha fatto leggendo i libri che i personaggi ai quali doveva ridare vita avevano letto davvero, per pensare e agire come pensavano e agivano loro. In definitiva, Gifuni lavora come uno storico dell’arte se deve ricostruire la storia di un’opera d’arte o di un artista: indaga sempre il contesto in cui l’oggetto del lavoro o l’artista si sono formati ed evoluti.
Gifuni ha lavorato così, per esempio, per entrare nell’anima e nel corpo di Franco Basaglia per C’era una volta la città dei matti… Delle letture di Basaglia poi diventate sue ha scritto:
“Le mie iniziarono ad incollarsi alle sue: l’esistenzialismo di Sartre e Merleau Ponty, e poi Foucault, Binswanger, ma anche il Surrealismo a servizio della Rivoluzione e la fenomenologia di Husserl. Belle letture. Alcune già frequentate ai tempi del liceo o successivamente negli anni delle letture onnivore, altre da scoprire. Non lo faccio sempre, non sono così ossessivo. Ma questa volta, istintivamente, sentivo che era importante, per me che lo dovevo studiare, capire come e cosa avesse studiato lui. Chi fossero stati i suoi maestri e in che modo li avesse mangiati e digeriti per poterli attraversare” (cito dallo scritto Franco Basaglia. Corpo a corpo, pubblicato nel sito personale di Gifuni: https://fabriziogifuni.it/franco-basaglia/).
Gifuni è uno dei rarissimi attori italiani capaci di un impegno performativo fisico e mentale totale: parla, cammina, si ingobbisce come Aldo Moro anche fuori dal set fino a che non termina le riprese di Esterno notte; dall’evocazione dello spirito di Moro il suo corpo viene quasi spossato e, con evidenza, pervaso ben dopo la fine di ogni rituale di Con il vostro irridente silenzio; convince la produzione del film Noi 4 che il regista Francesco Bruni ha visto giusto nel proporre lui per interpretare lo scapestrato scultore protagonista, ballando e cantando in mutande al provino “con grandissimo impegno ed enorme convinzione” Almost Cut My Hair di Crosby, Stills, Nash & Young (l’aneddoto è in Joana Fresu de Azevedo, L’eleganza della commedia. Intervista a Francesco Bruni, in Fabrizio Gifuni. L’attore maratoneta, pp. 149-154: 151, per il quale si veda dopo); segue con disciplina inflessibile dieta, addestramenti e allenamenti durissimi per La belva; studia fino a notte fonda prima di G.A.D.D.A. perché niente di ciò che stato scritto da e sull’Ingegnere deve mancare nella stanza della memoria che si aprirà la sera dopo per la recita sul palco del Piccolo Teatro (e viene in mente quel ricordo semiserio, perso quasi nella leggenda, di Giuliano Montaldo a proposito di Volonté che, la sera prima di girare a Tarquinia la scena del rogo per Giordano Bruno, avrebbe dormito solo una manciata di ore sdraiato per terra davanti al letto del regista per raggiungere il maggiore realismo possibile sul set all’alba: https://www.hollywoodreporter.it/celebrities/uno-cento-mille-giuliano-montaldo-luomo-caleidoscopio-del-migliore-cinema-italiano/45488/).
Alla fine, nel 2018 arriva anche una laurea: honoris causa in Letteratura italiana, filologia moderna e linguistica conferitagli dall’Università di Roma “Tor Vergata”, che riconosce a Gifuni il merito di essere un artista-scrittore che, da lettore famelico, si interroga di continuo sulla lingua e sulle parole con cui ricostruisce l’antibiografia del nostro Paese, instaurando costantemente un confronto critico con fonti e testi della cultura taliana ed europea.
Per dare conto in forma sinottica dell’arte multiforme di Gifuni su ogni fronte ci vorrebbe un libro, o una biografia-documentario, magari per un prossimo anniversario professionale.
In occasione dei trent’anni di carriera ci sono già stati due bilanci. L’anno scorso grazie a “Molise Cinema” è uscito il bel libro L’attore maratoneta nel quale numerose voci, e l’artista stesso, raccontano le sfaccettature di una rigogliosissima attività artistica.
Il 9 agosto di quest’anno a Lucera Fabrizio si è raccontato generosamente durante il dialogo “Ringrazio la mia lentezza e la mia fragilità…”, ospitato per più di due ore nell’ambito del ciclo “Les Rencontres du Sud”, curato dagli infaticabili Giada e Antonio Petrone presso “Le foglie di acanto Centro per le arti”.
La formula scelta per il racconto era inedita per incontri di questo tipo ma comune al teatro, al cinema e alle mostre d’arte: un dialogo in 11 quadri, o stanze della memoria, scandito da 11 parole che fungevano da didascalie per una o più immagini proiettate in sala. Le “stanze della memoria” erano: 1. radici. 2. ordinare o precipitarsi. 3. maestri. 4. compagni. 5. il poeta è un minatore. 6. corpo. 7. voce. 8. fantasmi. 9. mnemotecnica. 10. to play. 11. cittadinanza.
Il risultato è stato una vera e propria autobiografia professionale per quadri, con dettagli e legami storici spesso inediti, custodita nell’archivio video di “Le foglie di acanto”.
Nelle pagine che avete letto ho provato a rimettere insieme solo pochissimi degli oggetti, parole e fantasmi che popolavano alcune stanze della memoria nelle quali si conserva il lavoro di Gifuni, ognuna comunicante con le altre, come in un teatro elisabettiano.
Per ora, è certo che è coerente il tracciato di questo grandissimo artista che al teatro restituisce ogni volta quel ruolo “politico” che ha fin dalla nascita, scegliendo i testi e le parole da cui farsi investire, in un modo personalissimo di fare politica attraverso il teatro (leggete la bella intervista a “Pangea” del 5 luglio 2018: https://www.pangea.news/si-salva-chi-vince-la-sfinge-dialogo-con-fabrizio-gifuni-luomo-che-e-stato-freud/). Questo tracciato può stare tutto nelle parole di Gadda in Amleto al Teatro Valle del 1952 (ora in I viaggi la morte) che Gifuni ha recitato a Milano il 10 novembre per G.A.D.D.A. a proposito della “suprema funzione del teatro e dell’arte in genere, contro l’opinione frivola che l’arte costituisca uno svago, un semplice “divertissement”: il teatro, e l’opera d’arte in generale, può essere e perciò deve essere l’indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità. Il teatro ci rende consapevoli del bene e del male detergendo dal suo belletto il volto della menzogna, smascherando la vita”.
Il resto è silenzio.
Floriana Conte – Professoressa associata di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia