Il cosiddetto PISA, acronimo di Programme for International Student Assessment, è un’indagine internazionale promossa dall’Ocse per valutare con periodicità triennale il livello di istruzione dei quindicenni nei principali paesi industrializzati. Gli effetti del lockdown da Covid hanno indotto a rimandare di un anno l’effettuazione dei test, per cui l’ultima rilevazione è stata effettuata nel 2022, quattro anni dopo la precedente.
Ma a quanto pare le conseguenze del confinamento sociale e della didattica a distanza si sono fatte lo stesso sentire, visto che, come titola il dettagliato rapporto Invalsi consultabile direttamente sul web (https://invalsi-areaprove.cineca.it/docs/2024/Indagini%20internazionali/RAPPORTI/Rapporto_nazionale_PISA2022.pdf), si è registrato ovunque “un peggioramento della performance a livello internazionale senza precedenti”.
Si può discutere se si tratti di un fenomeno congiunturale, legato all’onda lunga dell’isolamento sociale, o strutturale, visto che già in precedenza nelle rilevazioni del 2018 si era registrato un calo delle prestazioni; e si può discutere pure, come per tutte le rilevazioni statistiche, sull’attendibilità dei criteri adottati e sulla scelta dei parametri. Si tratta comunque di un dato allarmante, che per altro, con minor dispendio di mezzi e di energie, potrebbe essere rilevato in Italia anche verificando il livello medio di molte conversazioni adolescenziali, per tacere dei testi di molti rapper.
L’Italia si colloca, all’interno di questa graduatoria, in una posizione intermedia, che potrebbe essere dantescamente definita “sanza ‘nfamia e sanza lodo”. Siamo un po’ più su della media Ocse in lettura, quasi in pari con la matematica, ma nettamente più in basso in scienze. Nell’insieme, ci collochiamo appena al di sotto della media, con 471 punti contro 472. E comunque, visto che i valori assoluti sono scesi ovunque, si tratta di una media molto “mediocre”.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha commentato con molta signorilità i dati, che non interessano il periodo della sua permanenza in viale Trastevere, visto che i test risalgono al 2022 e che comunque i risultati delle politiche educative si verificano nel lungo periodo. Ha fatto presente che le rilevazioni “servono non a stilare graduatorie tra Paesi ma nell’ottica delle relazioni” con l’obiettivo di “raccogliere informazioni e valutare le riforme più opportune” oltre a scorgere nei risultati una conferma dell’opportunità del rilancio da lui perorato, anche se in disaccordo col Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, degli istituti tecnici e professionali. Valditara fa politica da molto tempo, con qualche intermittenza, ma non è un politico di professione.
È una persona di indubbie competenze ed è stato uno dei più giovani docenti ordinari di diritto romano. Come un po’ tutti i titolari della Minerva, specie se nominati da un governo di destra, ricorda il protagonista-vittima di una celebre (ai suoi tempi) canzone del cantante francese Antoine: qualsiasi cosa faccia gli tirano le pietre. Persino la sua scelta di invitare la comunità scolastica a un minuto di silenzio per la morte di Giulia Cecchettin è stata contestata da chi reclamava “un minuto di rumore”. E quando ha deciso di coinvolgere Paola Concia in un gruppo di lavoro ministeriale sull’educazione affettiva gli sono arrivate critiche, oltre che dalla destra, anche dal Pd. Forse anche per questo ha scelto di non enfatizzare dati che possono essere considerati deludenti, ma non costituiscono una novità tale da indurre a drastiche prese di posizione. E comunque riforme e decisioni non andrebbero mai prese a caldo.
Opposte le reazioni in Francia, nazione che, a differenza dell’Italia, di un punto inferiore alla media Ocse, si colloca lievemente al di sopra. L’argomento è al centro dell’attenzione anche nella stampa, da “Le Monde” – che il 6 dicembre ha aperto la prima pagina titolando “Mathématiques: une brusque chute di niveau” e il 7 è tornato sul tema, ancora in prima, – al “Figaro”, che il 6 ha dedicato al tema un editoriale di Laurence Charette, dall’emblematico titolo “Sauver l’école”. E in particolare è al centro dell’attenzione il “piano d’urto” del ministro dell’Education nationale (in Francia si chiama ancora così) e de la Jeunesse Gabriel Attal per invertire la rotta. Un progetto di riforma che egli stesso ha definito un “électrochoc”, altra espressione che in Italia sarebbe tabù.
Attal è tutt’altro che un reazionario. Trentaquattrenne, laureato in scienze politiche e giurisprudenza, dichiaratamente omosessuale, ha militato nel partito socialista prima di aderire ad “En marche”, il movimento di Macron: un itinerario politico analogo a quello dell’uomo che ha sposato, il parlamentare europeo Stéphane Séjourné. Ma il piano d’urto che ha presentato e che evidentemente aveva predisposto prima della divulgazione dei dati PISA è destinato a essere considerato reazionario dall’opinione pubblica progressista e non è un caso che i maggiori sindacati degli insegnanti abbiano preso posizione contro. Ha invece ottenuto il plauso del conservatore “Figaro”, che lo ha salutato come un ritorno al buon senso e al “percorso dei saperi”.
“Electrochoc” è parola cara ad Attal, che l’aveva già usata dopo il deplorevole caso del suicidio di un quindicenne vittima di bullismo (“harcèlement”, come lo chiamano i francesi) in un istituto professionale il cui preside aveva in precedenza minacciato di querela i genitori che denunciavano le violenze di cui era vittima il figlio. In quel caso sollecitava – ottenendo un ovvio plauso – l’abbandono di un atteggiamento indulgente nei confronti dei persecutori. In questo caso il ministro esige la fine del lassismo educativo e reclama la rivincita dell’apprendimento sul divertimento, il ritorno alle bocciature – che i francesi chiamano “redoublement”, – la fine della possibilità di iscriversi al liceo senza avere superato l’esame di licenza media, e, fatto che ha suscitato ancora maggiore scandalo, la divisione delle classi in tre gruppi a seconda del livello di apprendimento, gruppi dai quali comunque si potrà salire o scendere a seconda del profitto raggiunto. C’è chi, come l’ex ministro dell’Educazione nazionale e deputato socialista Benoît Hamon, ha obiettato che “instaurare dei gruppi di livello in sesta (la nostra prima media) è decretare che ci saranno alunni in cantina, alunni al pian terreno e alunni al primo piano. Al che “Elisabeth Lévy, animatrice del battagliero sito “Le causeur”, ha causticamente obiettato che con lui e i suoi amici non ci sarebbero stati problemi: “tout le monde à la cave”, “tutti in cantina”!
L’opposizione dei sindacati degli insegnanti può sembrare paradossale, visto che la possibilità di bocciare è una delle ultime armi che conservano dinanzi a scolaresche riottose, e probabilmente quarant’anni fa il programma di Attal avrebbe ottenuto una ben diversa accoglienza; ma ormai il tabù della selezione prevale anche e forse soprattutto nel corpo docente. Le tesi spesso fraintese o enfatizzate di don Milani – che condannava le bocciature solo nella fascia dell’obbligo – hanno fatto scuola anche in Francia, dove una scuola severa e selettiva era stata a lungo considerata un fattore fondamentale di promozione sociale proprio per i ceti subalterni. Oggi anche in Francia come in Italia prevale la convinzione che la meritocrazia sia una maschera dietro la quale si nasconde una selezione di classe, per cui chiedere un ritorno al rigore viene interpretato come un tentativo di ingessare la mobilità sociale, mentre in realtà spesso è stato vero proprio il contrario.
Occorre aggiungere che i modesti risultati raggiunti nelle valutazioni PISA hanno ottenuto oltralpe un’eco ben maggiore perché, per una complessa serie di fattori politici e religiosi, il dibattito sull’Education nationale in Francia ha sempre riportato un’eco maggiore che in Italia. Il prestigio dell’insegnante è stato sempre molto più alto oltralpe. Lo era a livello di licei, dove il professore agregé, uscito da un severissimo esame da cui in prima battuta fu bocciato anche Sartre, aveva la dignità di un docente universitario e un orario di cattedra di sole dodici ore settimanali; ma lo era anche a livello di scuole elementari, dove il maestro, l’instituteur, godeva di un altissimo prestigio sociale, soprattutto nei piccoli centri (e la Francia, Parigi a parte, è rimasta a lungo una nazione rurale). Il fatto è che la classe dirigente della Terza Repubblica, in crescente contrasto con la Chiesa cattolica sino alle Leggi Combes, si preoccupava di affermare il ruolo preminente dell’istruzione pubblica e il maestro era una sorta di contraltare laico del parroco, tanto che gli si richiedeva una vita privata irreprensibile, anche se ovviamente non era tenuto al celibato.
Il calo di qualche punto nelle graduatorie internazionali costituisce di conseguenza un trauma, anche se è giusto riconoscere che ai fattori relativi alla qualità della didattica si sono aggiunti negli ultimi anni fattori di ordine pubblico ed etnico-religioso. Soprattutto nelle scuole di banlieue, la serenità dell’insegnamento e l’incolumità degli stessi insegnanti sono state compromesse a tal punto che in certi frangenti, causa l’obiettiva difficoltà di arginare gli scontri fra alunni cristiani, musulmani ed ebrei, i docenti hanno fatto ricorso al cosiddetto droit de retrait, che nell’ordinamento giuridico francese consente al lavoratore di lasciare il lavoro in presenza di un pericolo grave e imminente. Certo, se un liceo in cui lo scolaro entrando in classe ha paura dell’insegnante è una scuola malata, altrettanto o forse ancora di più lo è una scuola in cui l’insegnante ha paura degli alunni, perché alla sua autorità si sostituirà quella dei bulletti di turno: natura horret vacuum, e ogni società aborrisce i vuoti di potere.
È difficile prevedere quanto questa riforma “di destra” voluta dal ministro di un governo di centrosinistra porterà fortuna al suo promotore. Prima della divulgazione del piano d’urto, secondo il sondaggio Ipsos del 15 novembre scorso, Attal era al terzo posto nelle opinioni favorevoli dei francesi, seguendo a ruota Edouard Philippe e Marine Le Pen. Ma l’esperienza insegna che non sempre le grandi riforme dell’istruzione portano fortuna. In Italia il declino di Renzi cominciò proprio con la Buona Scuola…
Enrico Nistri – Saggista