Stroncature/ Dimenticare Manzoni?! No, i suoi detrattori

Un discusso libello su Manzoni provoca diventa l’occasione per una rivisitazione critico-memoriale dei Promessi sposi, per riscoprirne la grande attualità e la capacità di dire grandi verità anche in tempi come questi, come si addice ai classici. E Manzoni lo è. Sta alla scuola, a insegnanti provvisti del senso della storia, che è sempre contemporanea, come sosteneva Croce, scrollare dal Manzoni e dalla sua opera la polvere del tempo e una presunta aria di muffa per tacitare coloro che lo vorrebbero ormai superato, e, come dice uno stroncatore carneade, addirittura noioso e inattuale, "da bandire dai programmi scolastici"

Un antico adagio ebraico dice: il saggio impara da tutti. Sarà vero?  Eh già, perché i proverbi saranno pure la saggezza dei popoli, ma dicono anche tutto e il contrario di tutto, come sottolineò una volta argutamente il cardinale Gianfranco Ravasi. Un esempio tra tutti: al proverbio “ogni lasciata è persa” si contrappone l’adagio latino “quod differtur non aufertur” ( ciò che è rinviato non è perduto). Due modi opposti di vedere le cose, e forse validi entrambi.

Comunque sia, nel dubbio, abbiamo voluto fare un esercizio di saggezza comprando per poco più di una decina di euro un libello di un tal Trifone che stronca, anzi demolisce addirittura, Alessandro Manzoni.  Leggendo la copertina, è venuto spontaneo applicare all’autore, per una sorta di contrappasso, sia pure nella parafrasi, la domanda che il Gran Lombardo nei Promessi sposi fa porre da don Abbondio: Trifone, chi è costui?

 

 

 

 

Ogni tanto capita di imbattersi in individui affetti dal complesso di Erostrato, Un antico personaggio che per guadagnarsi imperitura fama distrusse una delle meraviglie del mondo, il tempio di Artemide, a Efeso nel 356 a.C.

Forse questo Trifone, che di cognome fa Gargano, ambisce alla fama, se non imperitura, almeno mediatica per quanto possa durare l’eternità effimera dei social e delle gazzette.

E allora spara a pallettoni su Alessandro Manzoni, mettendolo idealmente di fronte a un plotone di esecuzione, dopo un giudizio sommario. Noi, per correttezza, riferiamo non senza un moto di critico disgusto l’elenco dei capi d’imputazione e il succo del suo libello: altro che gloria nazionale; e padre della lingua italiana; Manzoni fu maestro di qualunquismo e di opportunismo. Abile nel calcolo di convenienza e romanziere noioso.

In verità da qualche tempo, anche in politica, non solo nella critica letteraria o artistica, è invalsa la moda di attaccarsi ai Grandi, ma non per salire sulle loro spalle e guardare più lontano,  grazie a loro e alla esperienza che ci hanno trasmesso. No. Si attaccano ai Grandi per metterseli alle spalle, ignorandoli, o per épater les bourgeois ( sbalordire il borghese, fare scandalo). E così è avvenuto che un personaggio in questo caso indubbiamente straordinario come Carmelo Bene, non certo un Trifone, facendo il verso ai tanti episodi che registravano apparizioni della Madre di Gesù in vari luoghi del mondo, una volta abbia annunciato: Sono apparso alla Madonna. Ma Carmelo Bene aveva il dono della intuizione folgorante e della trovata stupefacente.

Ma torniamo al temerario stroncatore, e vediamo che cos’altro dice di Manzoni:  è “da non leggere, e da non imporre più nelle scuole. La cittadinanza attiva richiede, oggi, ben altri Maestri che il Gran Lombardo, prudente fino all’ignavia”.

Questi giudizi sono formulati, e poi ripetuti, in modo anche ossessivo come in una disturbante sinfonia, per un centinaio di pagine, molte delle quali peraltro non sono farina sua ma ampie citazioni di pagine di libri altrui. Ne viene fuori una lettura tutta politica e ideologica dell’opera manzoniana (soprattutto dei Promessi sposi).

Intendiamoci: ognuno è libero di pensarla come vuole. Ma vediamo come questa lettura politica e ideologica viene motivata: l’autore si sofferma soprattutto su quello che alla fine del romanzo lo stesso Manzoni formula come il “sugo” della storia raccontata.

E fa stilare allo stesso Renzo una specie bilancio di tutto quello che ha passato, a cui aggiunge un elenco di buoni propositi per il futuro: ho imparato a non mettermi nei tumulti, ho imparato a non attaccare briga, ho imparato a non bere vino nelle osterie ecc. cc. Da tutto ciò  Trifone si sente autorizzato a dedurre che Manzoni è un conservatore, se non un reazionario, che invita alla rassegnazione, alla sottomissione, all’inazione, al rispetto dell’ordine costituito, e considera il popolo come soggetto che deve solo servire e ubbidire.

Se non siamo al delirio critico, poco ci manca, se si pensa questo di Manzoni, che ha messo al centro della storia proprio il popolo, i semplici, gli umili, i destinatari possiamo dire del Discorso della montagna, e non è certo tenero con i potenti e con i prepotenti.

Ma questa impostazione critica, prima ancora che discutibile nel merito, è difettosa nel metodo. Di questo metodo, di questo modo di procedere, e di altri consimili, vanno denunciati tre principali difetti: la mancanza di senso storico, soprattutto di consapevolezza delle dinamiche di certe epoche della storia, nel caso del Manzoni il Seicento; l’uso di categorie storico – politiche contemporanee applicate a fatti del passato. Sicché Trifone arriva ad affermare, usando le parole di Renzo ( ho imparato a non mettermi nei tumulti ) che Manzoni oggi disapproverebbe la partecipazione dei cittadini alle manifestazioni pubbliche e di piazza.

É vero che, come diceva Croce, la storia è sempre contemporanea, ma proprio questo avrebbe dovuto portare Trifone a rintracciare l’attualità del romanzo del Manzoni, soprattutto sotto alcuni principali punti di vista (il potere, la giustizia, il “guazzabuglio” del cuore umano).

Il terzo difetto, che sta diventando una moda deplorevole, è quello di fare una sorta di vivisezione , per mettere su un tavolo anatomico le disiecta membra di un artista , distinguendo tra l’autore e la persona, assolvendo l’uno e condannando l’altra, o viceversa, e soprattutto mischiando.

Di recente è uscito un libro su Leopardi, una biografia “non autorizzata” (formula che non promette niente di buono) che un recensore non privo d’ingegno come Marcello Veneziani  ha riassunto con questa formula: Leopardi grande artista ma piccolo uomo.  A questo recensore e a quanti come lui fanno gli anatomo -patologi della letteratura e dell’arte, vorremmo porre questa semplice domanda: ma la sublime poesia, l’universo poetico espresso dall’artista da dove viene? Da Marte? Non viene dall’animo, dal cuore, dalle viscere di quella stessa persona?

Insomma si tratta di una discutibile operazione in forza della quale si salva (e si esalta) l’artista e si abbassa o si affonda l’uomo: giudizi fisici e soprattutto morali o moralistici prendono il posto dei giudizi artistici o letterari. E Celine allora? Uno dei grandi della letteratura francese, che era razzista e antisemita?

Ridicola pretesa quella di pensare di sminuire la grandezza di Leopardi dicendo che non si lavava, aveva scarsa dimestichezza con l’igiene, ed era spilorcio. Siamo agli antipodi dell’episodio occorso ad Alberto Savinio: osò scrivere su Omnibus di Leo Longanesi un articolo in cui raccontava che Leopardi era morto di dissenteria; in verità Savinio scrisse testualmente: “di cacarella”.

 

 

 

 

Apriti cielo! Mussolini protestò contro l’oltraggio alla gloria nazionale e per rappresaglia fece chiudere Omnibus. Forse stiamo divagando, forse no. Ma torniamo a don Lisander.

Per osservare che il nostro stroncatore manzoniano non sceglie nemmeno uno dei corni del dilemma: criticare l’uomo o l’opera? Egli fa addirittura l’una cosa e l’altra. Sminuisce Manzoni scrittore (è noioso, portatore di messaggi diseducativi) e lo affonda come uomo: vanesio,  ignavo, opportunista, qualunquista. E arriva a metterne in dubbio perfino il senso patriottico (gli consigliamo di andare a rileggere, se l’ha dimenticato, il Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti).

 

 

 

 

Chiariamo tuttavia un punto: la storia della letteratura e dell’arte non deve essere confusa con una vita dei Santi; con una galleria di agiografie. Altrimenti i conti non tornano più e non ci si raccapezza e ci si confonde. E i “poeti maledetti” o scapigliati  dove li mettiamo allora? E Caravaggio? E Cecco Angiolieri? E il già citato Celine? E Baudelaire?  E Bukowski?

Mischiare giudizi sulle persona con i giudizi sulle opere, dunque, è operazione insensata.

Trifone confonde la visione della vita del Manzoni, basata sull’idea della Provvidenza,  come un invito alla rassegnazione, alla supina accettazione dello status quo, alla vigliaccheria. Una esortazione a starsene buoni, a non disturbare il manovratore.

L’autore di questo libercolo si appoggia a due tre personaggi importanti per denigrare Manzoni: uno è un famoso prete lucano, don Giuseppe De Luca, fondatore nel 1941 delle Edizioni di Storia e Letteratura, che non perdona a don Lisander, come del resto aveva lamentato anche il Tommaseo, di aver creato la figura di don Abbondio, un codardo e “traditore” del suo ministero sacerdotale, e di aver tratteggiato la figura di una monaca omicida e lussuriosa ( un personaggio che peraltro non ha avuto nemmeno bisogno di essere inventato,  essendo realmente esistita una Virginia de Leyva,  con una storia analoga quella della Monaca di Monza).

 

 

 

 

É stato lo stesso don Giuseppe de Luca a dire che leggere I Promessi sposi, più che annoiarlo, gli dava un senso di avvilimento, vedendo nel fango un prete e una monaca. Per un sacerdote che si lamenta, c’è un altro sacerdote che sullo scrittore lombardo ci ha lasciato scritti e testimonianze importanti, e ritratti gustosi, come Cesare Angelini, autore,  tra l’altro, del libro “Il dono del Manzoni”.

Ha le fattezze di Giosuè Carducci l’altra pezza di appoggio dello stroncatore, che fa propria  la critica carducciana per quanto riguarda la scelta di Manzoni di sciacquare i panni in Arno, facendo parlare dai suoi personaggi la lingua degli abitanti non della Toscana, non di Firenze ma di un quartiere fiorentino. Sicché, lamentava il Vate della Terza Italia, Manzoni aveva confinato la lingua italiana in modo coatto nella realtà di un quartiere di Firenze. E Trifone aggiorna il concetto con termini contemporanei parlando di arresti domiciliari della lingua italiana.

 

 

 

 

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Sui risultati dell’immersione dei panni in Arno, scambiato come una moderna lavatrice linguistica, per la verità più di un critico, pur non prevenuto verso Manzoni, ha avuto da ridire: fa infatti una certa impressione e qualche effetto di ilarità sentire la parlata toscana in bocca a filatori di seta e popolani comaschi e bergamaschi. Ma alla fine sono dettagli, quisquilie, direbbe Totò. La lettura di Manzoni per anni è stata consigliata agli studenti somari in italiano, a quelli che erano scarsi ai temi e il professore gli consigliava: leggi I Promessi sposi. A parte il fatto che il romanzo era inserito nel canone dei programmi scolastici già pochi anni dopo l’Unità d’Italia. Lo decise il ministero della Pubblica Istruzione.

Le perplessità sulla scelta della lingua erano anche del Tommaseo, celebre lessicografo e autore di un monumentale quanto prezioso vocabolario della lingua italiana (lui, che oggi sarebbe croato, essendo nato a Sebenico, come Marco Polo nell’isola di Curzola, sempre in Croazia). Tommaseo per la verità con don Lisander, di cui era amico e sodale – famose le sue Conversazioni con Manzoni – faceva una specie di doppio gioco.

Pubblicamente elogiava il romanzo, ma ci sono anche alcune lettere in cui lo denigra, specialmente per la scelta di alcuni personaggi religiosi ( il curato, la monaca). Con Manzoni aveva un rapporto ambivalente. In realtà i due erano molto differenti: religioso, morigerato e austero Manzoni; spregiudicato e libertino Tommaseo, che pure era animato da un’alta tensione religiosa e aveva studiato in seminario dopo essere stato istruito da uno zio frate. E quando Tommaseo  portò a Manzoni il suo romanzo Fede e bellezza, dove a brani ascetici si alternavano scene sensuali e anche audaci per quei tempi, ne ebbe questo laconico giudizio: è per metà venerdì santo e per l’altra metà giovedì grasso.

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Ma torniamo alla stroncatura che Trifone, senza orrore di se stesso, come direbbe Il Gastone di Petrolini, ha operato sul Manzoni, facendo del giudizio politico e del pregiudizio ideologico un canone anche letterario, di giudizio letterario. Vediamo di entrare nel dettaglio.

Manzoni noioso?

Forse Manzoni pensava a lettori come Trifone in almeno due passaggi dei Promessi sposi.  In un brano in cui spiega la guerra nel Monferrato – dove  in effetti va un po’ per le lunghe – lo stesso scrittore, con il suo senso dell’umorismo, avverte: il lettore che non fosse interessato, e volesse continuare a non perdere il filo della vicenda dei promessi, salti le pagine e passi al capitolo seguente.

Un consiglio chiaramente ironico.  Manzoni scriveva cose su cui si era documentato. Il suo è un romanzo storico. Definizione, peraltro, contestata da Trifone, che classifica I Promessi sposi come un romanzo di costume, piuttosto che romanzo storico.   Di costume? Come un film in costume, forse? Ma ogni romanzo è, chi più chi meno, un romanzo di costume, perché collocato nella cornice del tempo in cui si svolge la storia che racconta.  Solo che il romanzo storico scorre come un fiume nel letto della Storia, dove la piccola storia (quella dei fidanzati perseguitati) e la Grande storia (i lanzichenecchi, la peste, la guerra di Spagna), scorrono su letti paralleli e spesso s’incrociano. E non è detto che la storia degli umili, del popolo oppresso, del “volgo disperso che repente si desta, intende l’orecchio, solleva la testa, percosso da novo crescente romor”, sia di qualità o di livello “minore”.

L’altro passaggio, a proposito del “Manzoni noioso”, è nella pagina finale, anzi nel congedo dello scrittore, quando, con il suo umorismo, dice ai lettori: Ove fossimo riusciti ad annoiarvi, vi assicuriamo che non l’abbiamo fatto apposta.

Noioso? Certo, la poesia e la qualità letteraria in Manzoni non è sempre al top.  Ma perché, diciamocelo, in Dante lo è? Se è vera la battuta di Orazio su Omero che quandoque dormitabat ( per dire che nei poemi omerici la poesia ogni tanto sonnecchia, è assente). Lo stesso Croce fece una operazione ardita sceverando “poesia e non poesia”, come se fosse possibile separare con un colpo di accetta una realtà che vive di sfumature e di gradazioni. Ma non andò oltre, come invece fa l’impavido Trifone, emulo moderno di quel Saverio Bettinelli, un critico mantovano del ‘700,  che di Dante salvava ben poco e per questa sua temerarietà “trifoniana” fu definito il Totila della letteratura.

Immagino una possibile obiezione del lettore.

Ma perché dare tanta importanza a un libercolo che si commenta da sé e quindi si demolisce con le sue stesse mani? Ma qui viene a proposito il proverbio ebraico con cui abbiamo aperto questa riflessione, che il saggio impara da tutti. Aggiungiamo noi: in negativo e in positivo. Nel caso di Trifone impariamo in negativo, per non farci venire in testa tesi bislacche e criticamente non motivate. Sicché, non lo diciamo per celia, ma seriamente, alla fine ringraziamo anche Trifone, perché ci dà l’occasione, controbattendo le sue strampalate tesi, di rivisitare e rinfrescare la memoria del romanzo che ha accompagnato i nostri anni giovanili di studio, affidandoci non alla fresca rilettura del romanzo ma ai ricordi scolastici e a quanto ci è rimasto impresso.

E bisognerà ringraziarlo anche per un altro motivo, questa però sarà per Trifone una beffarda eterogenesi dei fini: se dopo questi articoli, a qualche lettore verrà il desiderio di riprendere il romanzo e rileggerlo. Un tempo, lo leggevo una volta l’anno, e ogni volta mi veniva di annotare cose nuove.

( PRIMA PARTE)

 

Mario NanniDirettore editoriale

 

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