Manzoni che “invita alla rassegnazione” e tiene i suoi personaggi sotto la naftalina della Storia?
E Renzo allora? Renzo non è un rinunciatario. Vediamo un po’. Quasi minaccia don Abbondio, che non lo vuole far sposare; non esita a entrare nei tumulti, figurandosi di stare vivendo una pagina storica; Renzo che si ribella perfino a Lucia, che in una lettera gli comunica che non potrà più essere moglie, perché ha fatto un voto alla Madonna. E lui risponde arrabbiato: ho sentito che la Madonna fa le grazie e protegge i bisognosi ma che impedisca i matrimoni, questa non l’ho sentita mai.
Un Renzo testa calda, che protesta con il cugino Bortolo che lo informa di alcune usanze del luogo, per esempio quello di chiamare “baggiano” i forestieri. C’è troppa arrendevolezza nei personaggi manzoniani? Mancanza di coraggio? Non direi. Renzo si ribella a don Abbondio, vuole sapere chi gli ha ordinato di mandare all’aria il matrimonio. E inavvertitamente sfiora con la mano il pugnaletto, che i giovani del tempo portavano addosso per una certa aria di braveria.
Tanto basta a don Abbondio, che non aveva un cuor di leone, che ha sempre a cuore la pelle, perché tema che lo voglia ammazzare, si senta in pericolo e alla fine sputi il segreto
Registro alto e basso
Don Abbondio prega Renzo di chiedere perdono, e qui c’è un altro topos –il registro stilistico alto e basso alla Umberto Eco – un luogo umoristico anche colto, in cui Manzoni riscatta la banalità dello scontro elevandolo a disputa filosofica anzi teologica. Infatti Renzo, che è testa dura di montanaro, non chiede perdono, si limita a dire: posso aver fallato. Ma don Abbondio insiste: chiedi perdono. Ma Renzo ripete le stesse parole: posso aver fallato e non dice altro, mentre il curato vuole frasi di scusa esplicite. E Renzi risponde ancora : posso aver fallato.
Qui, svolgendo le funzioni del coro nelle tragedie greche, interviene con un commento l’autore con una delle sue tipiche trovate: sarebbero potuti andare all’infinito, come due teologi medievali che disputavano ripetendo ognuno la sua tesi.
Poi c’è il Renzo che non abbocca ad Ambrogio Fusella, la guardia che lo vuole portare in carcere e chiede aiuto. E con ardimento si mischia alla folla che va all’assalto della casa del vicario di provvisione, tacciato di affamatore del popolo, per linciarlo. E Manzoni un po’ gioca col suo personaggio ( bamboleggia, secondo Carducci) prendendolo un po’ in giro perché Renzo si crede partecipe di eventi epocali che finiranno nei libri di storia, e si trova a parlare a tu per tu con il cancelliere Ferrer, quello di adelante Pedro, cum juicio. E rapporta la sua vicenda personale ai giochi di potere più grandi di lui, e ha l’intuizione di inserire i suoi fatti privati negli eventi politici del Ducato di Milano.
Sempre a proposito di caratteri non remissivi, e passivi ancor meno, abbiamo Perpetua che alza la testa davanti al “suo padrone”, don Abbondio, e lo rimprovera anzi di farsi mettere i piedi in testa da tutti, e lo esorta a reagire.
E la stessa Agnese non è da meno: è sua l’iniziativa, che all’inizio non convince Lucia, di farsi sposare con uno stratagemma in casa di don Abbondio; è sua l’iniziativa- ribellione, nonostante la raccomandazione di don Abbondio, di spifferare tutto al cardinale, provocando una severa ramanzina dell’arcivescovo al curato, che alla fine sembra sinceramente pentito, e abbandona ogni remora solo quando viene a sapere della morte di don Rodrigo e della partenza del console. Un personaggio, don Abbondio, antesignano di un altro impersonato in uno dei film meno noti di Alberto Sordi, “Un eroe dei nostri tempi” ( eroe , naturalmente, per celia). Anche lui timoroso di tutto, ossessionato dal rischio di essere incastrato, e sempre intento a domandarsi; c’è pericolo? Fino a quando la zia ( Tina Pica) gli consiglia di trovare rifugio e sicurezza arruolandosi nella polizia. “Hai avuto tu quest’idea?” gli domanda il nipote, e lei, compiaciuta, risponde con un con un vocione quasi maschile un sonoro sì.
A suo modo, quattro secoli prima don Abbondio aveva avuto la stesa idea di Tina Pica: per salvarsi dai pericoli del mondo, aveva creduto bene di farsi prete. Ma non aveva fatto i conti senza l’oste, in questo caso don Rodrigo.
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Manzoni creatore di personaggi memorabili, finiti in proverbio
Sui personaggi dei Promessi sposi, con licenza di .. Trifone, si sono esercitati con migliaia di pagine eccellenti critici letterari, basterebbero solo due nomi: Luigi Russo e Attilio Momigliano. Naturalmente don Abbondio, un personaggio “tipo” a tutto tondo, dotato di una inconsapevole comicità. Come i veri comici lui parla seriamente, con effetti esilaranti: quando penso, caro Renzo, che stavate così bene e vi è venuto il grillo di maritarvi.
Si ride molto con don Abbondio, altro che noia: specialmente nei suoi soliloqui. Quando vede che il cardinal Federigo ( Borromeo) colma di attenzioni il neo convertito Innominato e a lui riserva un trattamento severo sia pure paterno, egli commenta: sembra che a lui ( il cardinale) stia più a cuore questo brigante che il suo povero curato.
Manzoni autore di tante frasi proverbiali che hanno fatto puntellato per secoli i discorsi degli italiani: questo matrimonio non s’ha dare; la sventurata rispose; i pareri di Perpetua ( che aveva consigliato al curato di ribellarsi e di andare a raccontare tutto all’arcivescovo). Consiglio non ascoltato: volete tacere? E quando avessi preso una schioppettata in corpo, verrebbe l’arcivescovo a levarmela?)
Ma quando il cardinale gli chiede conto del suo comportamento indegno di un pastore d’anime e gli domanda: perché non siete venuto a informarmi, che l’avrei affrontato io quel tipo, allora don Abbondio, tra sé e sé, esclama: I pareri di Perpetua. E Manzoni fa un perfido controcanto, perché – a differenza di quanto diceva Carducci – Manzoni “non bamboleggia con i suoi personaggi”, ma quando è il caso li tratta severamente sia pure con bonario umorismo. E infatti commenta: il fatto che il cardinale si trovasse d’accordo con Perpetua non era un buon segnale per don Abbondio.
O altre frasi come “i capponi di Renzo”, uno spunto utilissimo anche in politica, per aprire gli occhi a quelle forze che, invece di unirsi contro il nemico comune, si beccano tra loro e fanno il gioco dell’avversario. O la frase del senno di poi son piene le fosse: un netto monito a coloro che fanno i saputelli ma sempre “dopo”, mai prima.
O l’uso del latino come mezzo per confondere i semplici. L’intuizione del Manzoni , al di là dell’episodio colorito del battibecco di Renzo con don Abbondio ( che vuole che me ne faccia del suo latinorum?) è stata quella di rappresentare, con questi episodi in fondo anche divertenti, come la classe colta, abbiente insomma, come chi ha il potere nelle sue varie forme, cerchi di prevaricare quelli che stanno in basso usando le armi che hanno: il latinorum è una di queste.
O la frase “omnia munda mundis”, citata da un cardinale in un recente processo per rintuzzare le avventate insinuazioni di un pubblico ministero. Quando fra Fazio, del convento di Pescarenico, vede arrivare Lucia e Agnese, esclama scandalizzato a padre Cristoforo: “Padre, in convento, di notte, con donne”. E padre Cristoforo risponde con questa frase sacramentale: omnia munda mundis ( tutto è puro per chi è puro). E il frate guardiano si arrende: basta, lei ne sa più di me. In questo caso il latino è servito non per confondere l’interlocutore ma per risolvere una situazione apparentemente scabrosa, come la presenza di donne in un convento.
Ma sarebbe un interessante esercizio rintracciare nel romanzo tante altre frasi che, al di là della loro icasticità, sono frutto di riflessioni illuminanti, e rimandano alla visione manzoniana della vita.
“A questo mondo c’è giustizia finalmente, tanto che a un uomo disperato non sa più che cosa si dica “, è la frase, veramente insensata di renzo quando vede falliti tutti itentativi ( di padre Cristoforo) per dissuadere don Rodrigo dai suoi criminali propositi e giura di voler risolvere lui il caso facendosi giustizia da solo.
“E se l’inferno fosse un’invenzione dei preti? ” É il dubbio espresso dall’Innominato durante la crisi notturna in cui riaffiora la consapevolezza della sua vita criminale. Letterariamente un esempio ante litteram di quello che poi Joyce strutturerà in Ulisse come flusso di coscienza.
“Mi ha fatto compassione”. “E che ne sai tu di compassione ?” La prima frase la dice il Nibbio ( che aveva compagni di scelleratezze lo Sfregiato e il Tiradritto) quando si mette a rapporto con l’Innominato per comunicargli il successo dell’operazione rapimento di Lucia a Monza. Il Nibbio conclude il resoconto con queste parole: è stata dura, sentirla piangere, urlare, supplicare, ecco mi ha fatto compassione. La seconda frase è la risposta, incredula dell’Innominato. Dopo qualche ora, dopo aver visto Lucia e soprattutto averne ascoltate le commoventi suppliche, anche l’Innominato si lascerà entrare nell’animo una specie di “tempesta del dubbio”. E gli martellerà nella testa la frase di Lucia: Dio concede tutto per un’opera di misericordia. La vista di Lucia comunque, prima ancora della notte della “crisi”, aveva messo addosso una oscura inquietudine, tanto da non sopportarne a lungo la presenza ed esclamare: mi dà noia costei. Domani chiamerò perché se la vengano a prendere ( pensando all’Innominato). Ma poi, sappiamo come andò a finire.
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Ma vediamo altri topoi del romanzo passati nel discorso comune
Il memorabile “si figuri” del sarto, che si era preparato un discorsetto da fare al cardinal Federigo ospite a pranzo, con Lucia, nella sua casa, e alla fine per timidezza e goffaggine, al momento fatidico, non sa dire che questa insipida frase al porporato che lo ringrazia per aver ospitato la sventurata ragazza.
Il Manzoni grande descrittore delle scene di piazza, sceneggiatore delle scene di massa
Come l’assalto ai forni, che ricorda certe rivolte popolari o alcune scene della rivoluzione francese, di cui Manzoni aveva sentito parlare dalla madre Giulia Beccaria, figlia del grande giurista Cesare, che stava più a Parigi che a Milano; o le scene della peste con i carri carichi di corpi inanimati condotti da monatti immuni dal morbo ( perché la peste a differenza del covid, che conosce recidive, una volta presa non infettava più). Infatti quando Renzo va a cercare Lucia al Lazzaretto dice di non avere paura perché la peste l’aveva già avuta.
Ma prima lo scambiano per untore, altra parola passata in proverbio, che in un mondo abbandonato dal senso comune era diventato un titolo da linciaggio o condanna a morte . Infatti Manzoni scriverà un saggio, Storia della colonna infame, per raccontare la vicenda di alcune persone condannate a morte con l’accusa di essere untori. Un triste esempio, un atto d’accusa contro il fanatismo, la barbarie legislativa del Seicento.
Scampato miracolosamente al linciaggio dopo che una vecchia aveva gridato “all’untore all’untore”, mentre picchiava al portone del palazzo di donna Prassede dove sperava si trovasse ancora Lucia, e invece sembrava a chi lo aveva visto che “ungesse” il portone con chissà quali fluidi pestiferi, Renzo, sempre sveglio di mente e agile di gamba, salta su un carro di monatti per salvarsi dai suoi inseguitori. Certo che temendo la peste nessuno l’avrebbe seguito. Questa scena drammatica, ed è tipico dello stile “mediano” del Manzoni viene alleggerita con le parole rivolte da un imprecisato passante: Untorello, non sarai tu a spiantare Milano!
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Il Manzoni descrittore di paesaggi geografici e umani
I detrattori dello scrittore osservino come Manzoni sappia affacciarsi all’interiorità dei suoi personaggi e ne faccia emergere le emozioni e gli stati d’animo.
Pensiamo a quella elegiaca e poetica scena dell’Addio ai monti, in cui cerca di immedesimarsi nell’animo triste e dolente di Lucia, costretta a lasciare il suo paesello e a rinunciare alil suo sogno di sposa. E al termine della descrizione, mentre si sente lo sciabordio dell’acqua del lago contro le barche che da allora saranno chiamate Lucia, ha la delicatezza di precisare: questi, se non proprio queste stesse parole, i sentimenti e lo stato d’animo di Lucia.
Manzoni è consapevole di aver scritto quello che oggi si direbbe un pezzo di bravura, ma egli rispetta il suo personaggio e con questa precisazione rende il discorso più verosimile.
Bastano, tra le numerose altre, pagine come questa a tacitare i critici più ostinati?
Anni fa lessi in un’antologia di critica letteraria una pagina di replica ai critici di Giovanni Pascoli: rigettava alcuni pregiudizi e dei luoghi comuni, anche per “colpa” di Croce non molto tenero con il poeta romagnolo, tacciato di eccessiva sdolcinatezza, zuccherosità, banale rappresentazione di interni domestici.
Poi il critico citò, a scorno dei critici superciliosi, questi versi pascoliani:
Mia madre era al cancello Che pianto fu, quante ore Là sotto il verde ombrello Della mimosa in fiore.
Il critico concludeva: dovrebbe bastare la lettura di questi versi a rendere muti i critici di Pascoli e a zittirli per sempre.
Parafrasando l’episodio, che cosa potremmo citare, tra le tantissime scene dei Promessi sposi, di cui parecchie le abbiamo ricordate, per invitare i critici ad arruolarsi nell’ordine dei trappisti ( che, come si sa, fanno il voto del silenzio)?
Dopo l’addio ai monti, mi verrebbe di citare quel brano immortale che parla della madre di Cecilia, la bambina già morte di peste, che la madre consegna ai monatti, tenendola sulla braccia aperte. Un capolavoro di delicatezza, di sfumature, di variazioni aggettivali, simmetriche e crescenti, di pathos umano. Dopo di che, ogni voce critica si dovrebbe spegnere per una forma di devoto pudore. Soprattutto quella di Trifone che ha avuto anche l’impudenza di domandarsi, a proposito di Alessandro Manzoni: “fu vera gloria?”.
Totò, che spesso citiamo come un filosofo di fatto, risponderebbe: “Ma mi faccia il piacere….”.
Mario Nanni – Direttore editoriale