Stroncature/ Dimenticare Manzoni? No, i suoi detrattori

Un discusso libello diventa l’occasione per una rivisitazione critico-memoriale dei Promessi sposi e per riscoprirne la grande attualità. Sta alla scuola, a insegnanti provvisti del senso della storia, che è sempre contemporanea, come sosteneva Croce, scrollare dal Manzoni la polvere del tempo e una presunta aria di muffa che lo vorrebbero ormai superato, e, come dice uno stroncatore carneade, addirittura noioso e inattuale

Il libro di Trifone reca questa dedica: “a un amico antimanzoniano della prima ora”.

Un antemarcia, insomma, come si chiamavano i “camerati” sansepolcristi, ( dalla riunione del 1919 nella piazza di San Sepolcro, a Milano; e che c’erano “prima” della marcia su Roma; essere stato antemarcia  diventerà un titolo di merito e di precedenza nel conferimento di premi uffici e prebende al tempo del fascismo).

“Antimanzoniano della prima ora” è una curiosa, rivelatrice, spia linguistica, che squarcia il velo su quella che sembra una operazione, se non editoriale, politica: questo amico dedicatario sarà anche lui, come Trifone, allergico a quello che Carducci nella poesia Davanti san Guido chiama il manzonismo degli stenterelli, o ai manzoniani che prendevano tre paghe per il lesso?

 

 

 

 

Ma torniamo a Manzoni, che secondo Trifone era parsimonioso, attento alle finanze. E lo credo:  il fallimento dell’impresa editoriale che lo scrittore fu consigliato a fare,  una tiratura di diecimila copie del romanzo, una enormità per quei tempi, con illustrazioni dell’incisore Gonin, curate personalmente dallo scrittore; per non parlare delle edizioni pirata del romanzo, un fenomeno subito anche da Balzac e Dumas, con il rischio per l’autore di finire sul lastrico: Ma che c’entra tutto questo con la proposta di bandirlo dalla scuola, almeno come autore canonico?. Ah già, perché è noioso. Lo dice Trifone. E Trifone è un uomo d’onore.

 

 

 

 

“Manzoni ignavo, altro che gloria nazionale, qualunquista e pavido?”

Consigliamo a Trifone di leggere Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti, e i versi: m’era compagno il figlio giovinetto di un dei capi un po’ pericolosi, d’un tal Sandro, autore di un romanzetto dove si parla di Promessi sposi. Che fa il nesci, eccellenza? O non l’ha letto? Fermo restando il diritto di pensarla come vuole e di fraintendere la visione cristiana della vita e della provvidenza (se avesse avuto coraggio, Trifone si sarebbe dovuto spingere a dire che non solo la visione manzoniana della vita è rinunciataria (?) , remissiva ecc, ma è la stessa visione cristiana. Ma avrebbe detto un’altra corbelleria.

 

 

 

 

Ma in questo tentativo stroncatorio, Trifone osa chiedere il “bando dalle scuole perché non ha niente da dire e da dare” alle giovani generazioni, a parte che è noioso. Allora noioso per noioso, bandiamo anche Dante, che certo non è divertente. Ma poi che cosa vuole dire noioso?

I promessi sposi sono, secondo la felice definizione di Franco Moretti, un “opera mondo”. Un’opera microcosmo all’interno del macrocosmo sociale dove i protagonisti sono gli umili, i senza storia, i senza nulla, i poveri, i diseredati.

Ma nel libro è totalmente assente il trattamento del Manzoni narratore, l’arte del narrare, di disegnare i personaggi. Non ha niente da dire e da dare perché ormai inattuale? Strane definizioni per un autore che ha creato personaggi diventati proverbiali: don Abbondio, l’Azzeccagarbugli, Perpetua, l’Innominato, don Ferrante, il monatto, l’untore. E per uno scrittore che ha usato un lessico fatto di battute, frasi sapienziali, entrate nel linguaggio quotidiano della gente.

Nulla dice e nulla conta, per il detrattore,  il Manzoni fine psicologo, pittore di caratteri, artista delle sfumature psicologiche? Il racconto della notte della conversione dell’Innominato è una orchestrazione di passaggi narrativi, dove la psicologia del personaggio via via cambia di gradazione e di colore, fino all’ascolto delle campane che hanno l’effetto di una illuminazione, di un lampo di consapevolezza su un paesaggio umano devastato dal crimine e dal delitto, qual era stata la sua vita fino ad allora.

Lo stile. É nella potenza delle frasi,  nel fine umorismo e nel sorriso bonario con cui guarda ai suoi eroi, la potenza del Manzoni. Come nella scena in cui l’Azzeccagarbugli, che a un Renzo che era andato a chiedere “se a minacciare un curato c’è penale”, sparpaglia una serie di gride e sentenzia: a saper maneggiare i codici nessuno è colpevole e nessuno è innocente.

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Il tema della giustizia è la spina dorsale del romanzo

I Promessi sposi cominciano con un atto di prepotenza, una “bravata” dei bravi, la protervia di un piccolo boss di paese. I temi della giustizia- con buona pace della presunta inattualità del romanzo – sono i nervi scoperti della storia. Una storia di soprusi ( don Rodrigo) di diritti negati ( quello di sposarsi), una storia di ingiustizia. E non può essere senza effetto suggestivo che il tema della giustizia sia orchestrato da uno scrittore che è il nipote di Cesare Beccaria, l’autore dei delitti e delle pene, contrario alla pena di morte. Il nipote trasfonderà questo amore per la giustizia nel romanzo e l’orrore per l’ingiustizia e i suoi errori nella “Storia della colonna infame”.

Tanto che lo stesso Manzoni ci gioca anche su apparenze e realtà, della giustizia e dell’ ingiustizia che a un occhio distratto rischiano di scambiarsi le parti. E lo dice nel famoso episodio della “notte degli imbrogli”, quando Renzo e Lucia, istigati da Agnese, tentano l’escamotage di farsi sposare da don Abbondio, ignaro del tranello, presentandosi e dicendo: io prendo Lucia come mia sposa, ma mentre Lucia tenta di dire la sua frase, don Abbondio le getta addosso il mantello,  i due scappano, suonano le campane, si grida all’aggressione.

E Manzoni commenta: Renzo e Lucia, penetrando in casa del curato, sembravano gli aggressori e gli oppressori, e don Abbondio l’oppresso, la vittima. Invece era il contrario. E poi commenta: così vanno le cose oggi, Poi finge di correggere il lapsus: vogliamo dire, così andavano le cose nel secolo XVII.

Era chiaramente un messaggio attualizzante dei temi alla base del romanzo. Una scheggia di filosofia della storia. Nella visione della vita e del mondo manzoniana, nella weltanschauung come la chiamano i tedeschi, la Giustizia prima o poi arriva, perché c’è la Provvidenza, che non è un specie di Croce Rossa moderna  ma un principio quasi metafisico che interviene nelle vicende umane. Per alcuni i è Dio stesso, per altri la Madonna, per altri ancora i santi di cui è gremito l’Olimpo cristiano.

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Il tema della giustizia porta al discorso delle cosiddette gride

Anche questa formula è entrata nel discorso della gente: gride manzoniane per dire provvedimenti che si ripetono comminando pene sempre più severe quanto inefficaci. En passant,  osserviamo che non sempre questa parola è scritta in modo corretto. Il termine è grida, singolare, gride plurale. Gride,  perché venivano ovviamente urlate dai banditori per le strade.

Lo scoppio della peste, la incertezza dei pubblici poteri sul migliore mondo di fronteggiarla, portano in primo piano il discorso su queste gride, cioè ordinanze sfornate a getto continuo, una che contraddice l’altra o inasprisce la precedente con le loro prescrizioni e divieti.

Non vi ricordano, mutatis mutandis, i dpcm dei governi Conte che prescrivevano cosa fare e cosa non fare, con qualche scivolata nel ridicolo, come nella disposizione che si poteva uscire di casa per andare da parenti e a trovare persone con cui c’erano “affetti stabili” ( al che un buontempone osservò: come faranno i carabinieri, fermati i passanti, a stabilire in che cosa consistesse questa stabilità)?

Battute a parte, il discorso delle gride richiama già l’invocazione di Dante: le leggi son ma chi pon mano ad esse? Manzoni aggiorna, ma sia Dante sia Manzoni, distanti oltre sei secoli l’uno dall’altro ( per nascita) ci rappresentano certi mali atavici dell’Italia, e in questo senso potremmo parlare di Italia perenne.

Manzoni non ha niente da dire e niente da dare ai giovani oggi?

Forse no, ai giovani alienati dai social, additati dalle statistiche sul profitto scolastico come analfabeti di ritorno e forse anche di andata. Ma a quel gran numero di studenti volenterosi, che amano lo studio, e che forse Trifone non conosce, Manzoni ha ancora tanto da dire. Per esempio, spiega bene i meccanismi del potere, e perfino del potere mafioso.

Che cosa è se non pratica mafiosa quella di don Rodrigo che manda i suoi picciotti a minacciare un curato, in barba alle leggi? Che cosa è l’appalto che don Rodrigo dà all’Innominato,  più forte di lui e quindi capace di imprese criminose non all’altezza delle sue disponibilità, come quello di rapire una fanciulla innocente, ospite di un convento come quello di Monza?

E che cosa ci spiega il celebre colloquio del conte zio, del consiglio segreto, un papavero del potere del tempo, con il povero padre provinciale, superiore del cappuccino padre Cristoforo?

Memorabili sono l’astuzia, la finezza proterva, la sapienza psicologica e diplomatica  dei vari passaggi del dialogo. Della diplomazia Manzoni non doveva avere una alta stima, se sui diplomatici fa questa osservazione: nei loro incontri, sempre diplomaticamente, possono arrivare perfino a sbudellarsi. Ma rivediamo la scena del conte zio e del padre provinciale, presentati da Manzoni con un incipit solenne: erano di fronte due canizie…. .

Il conte zio deve ottenere dal padre provinciale la testa di padre Cristoforo, ma non gliela chiede mai in modo esplicito. Procede per allusioni, captatio benevolentiae, ammiccamenti, complicità,  “tocca a noi troncare, sopire”, altra frase diventata celebre; il padre provinciale che ha capito subito dalla convocazione dove il dignitario vuole andare a parare, fa finta di non capire. E allora il conte zio esercita una sottile forma di tortura mentale e fa fare un altro giro all’invisibile congegno del suo ricatto, e stringe la morsa. Alla fine, rendendosi conto che non fa un passo avanti anzi gira a vuoto, perché il padre cappuccio è un uomo tosto e non si fa intimidire, è costretto a usare le maniere forti: passa alla minaccia, mostra gli artigli, prospetta “una iliade di guai” paventa la rappresaglia, la sollevazione di tutto il parentado.

E il povero padre provinciale, che aveva cercato ma invano di resistere e non dare partita vinta alla sopercheria e all’arroganza del potere ( oggi diremmo così) non resta altro che camuffare la resa con una blanda condizione;  non vuole dargli insomma partita vinta senza combattere, ma davanti alla minaccia  del boss di sollevare tutto il parentado, e di scatenare dunque quello che con lessico contemporaneo chiameremmo un conflitto tra poteri e i cappuccini erano un potere,  avevano i conventi che perfino ai ribaldi non era consentito di varcarne la soglia, e funzionavano spesso come rifugio per i perseguitati, alla fine decide che è meglio chinare la testa,  facendosi almeno promettere  che il trasferimento di padre Cristoforo non venga preso come un punto di vittoria dal nipote scapestrato. Le rassicurazioni del conte zio sono scontate quanto inutili. Il Conte zio promette ma il padre provinciale ha perso e don Rodrigo ha vinto. Anche se la sua sarà una vittoria di Pirro. Non avrà Lucia e la peste lo manderà all’altro mondo.

Questo colloquio, svolto da Manzoni con sublime maestria narrativa, mostra gli elementi di cui il potere si nutre e come in alto loco si decidono le sorti degli innocenti ( in questo caso padre Cristoforo). Illuminante, da questo punto di vista, anche il banchetto alla tavola di don Rodrigo, che mostra le connivenze del potere con le professioni, oggi diremmo con gli intellettuali: a un certo punto il lettore ritrova alla tavola di don Rodrigo l’avvocato Azzeccagarbugli, quello a cui l’ignaro Renzo si era rivolto per chiedere come otenere giustizia contro un prepotente.

Manzoni fine dicitore di umorismo 

Sono tante le frasi, passate in proverbio. Uno il coraggo non se lo può dare.

A  don Ferrante, non piaceva né di comandare né di ubbidire; don Abbondio non era nato con un cuor di leone; era un vaso di coccio tra due vasi di ferro. O situazioni comiche: donna Prassede, che teneva in pugno il marito don Ferrante, che contava in casa come il due di briscola, salvo in un caso: quando la moglie gli faceva leggere prima  le lettere da mandare all’arcivescovo, perché temeva gli errori di ortografia; la sola materia – annota Manzoni con bonaria perfidia – su cui don Ferrante aveva voce in capitolo.

Il nostro filosofo don Ferrante è il precursore, diremmo oggi, dei negazionisti del covid, lui lo era della peste.  Secondo lui non esisteva, perché non era né sostanza né accidente. Memorabile la conclusione: alla fine contrasse il morbo mortifero: si mise a letto prendendosela con le stelle.

(fine seconda e penultima parte)

 

Mario NanniDirettore editoriale

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