Israele-Palestina, intervista a Claudia De Martino: Il conflitto era prevedibile

Il conflitto in corso in Medio Oriente si riscalda giorno dopo giorno e la paura di un allargamento della guerra anche alle regioni limitrofe spaventa in molti. Abbiamo parlato di cosa sta accadendo in questo momento con Claudia De Martino, analista esperta di Medio Oriente.

L’operazione militare del 7 ottobre, sebbene rivendicata come una vittoria, potrebbe costituire un autogoal per la causa palestinese? Ad oggi i governi occidentali hanno espresso tutti supporto ad Israele…

No, non credo possa rappresentare un “autogoal” per la causa palestinese, al contrario, credo che l’abbia rilanciata all’attenzione internazionale come non accadeva da almeno 30 anni, ovvero dagli Accordi di Oslo. Il  merito di Hamas non sarà infatti militare – non ha alcuna possibilità di rivaleggiare con Israele su quel terreno -, ma politico, perché la “questione palestinese” che sembrava ormai destinata a trascinarsi ancorata ad un presunto “status quo” nell’indifferenza generale di Israele, degli Stati arabi e della comunità internazionale, è tornata con prepotenza centrale nella politica internazionale, addirittura rischiando di infiammare tutta la regione Medio Oriente.

Qualcosa che, prima del 7 ottobre, appariva semplicemente impossibile. E sì, i governi occidentali si sono schierati unanimemente con Tel Aviv, ma le loro opinioni pubbliche sono molto più divise a riguardo: si veda soltanto il caso emblematico della Francia, con il Governo che è arrivato a proibire le manifestazioni propalestinesi per ragioni di ordine pubblico, sapendo trattarsi di una questione altamente polarizzante e destabilizzante in politica interna, non estera.

Qualcuno definisce l’attacco dello scorso 7 ottobre come una batosta. Come ha fatto l’intelligence israeliana a non prevedere una cosa del genere? Oppure si può parlare di bravura militare di Hamas?

Si può parlare di entrambe, ma quello che colpisce è soprattutto il fallimento non solo dell’intelligence (dello Shin Bet, in questo caso: a dimostrazione del fatto che i Territori occupati palestinesi sono trattati dalla sicurezza israeliana come una “questione interna”), ma anche dell’IDF, dell’esercito, nel suo complesso. Entrambi hanno compiuto due errori macroscopici: si sono affidati troppo alla tecnologia e hanno sottovalutato il nemico. Il primo errore è stato indotto dalla netta superiorità tecnologica di Israele, che ha ritenuto di poter affidare il controllo della Striscia alla costruzione di una recinzione di ultima generazione – attrezzata con un muro di 7 metri con sensori, mitragliatrici telecomandate, filo spinato e torrette di controllo nelle tre aree in cui il confine corre adiacente agli insediamenti Israele e muri di acciaio o calcestruzzo lungo il confine con l’Egitto, costata ben 220 milioni di dollari e completata nel 2006, ma che si è rivelata un “gigante dai piedi d’argilla”.

Questo è avvenuto non solo perché Hamas ha saputo innovare le sue tecniche militari e aprirsi l’accesso alla Barriera con deltaplani e altri mezzi non identificabili né dai sensori né dalla Cupola missilistica dell’Iron Dome, ma anche perché le sue torrette di controllo erano parzialmente sguarnite, essendo un giorno di festa (Simchat Torà), in cui tradizionalmente i soldati in servizio sono minori, ed essendo stati appena prima spostati due battaglioni verso la Cisgiordania per proteggere i coloni.

Il secondo errore, quello di sottovalutare il nemico, è nato, come dicevo, dalla netta superiorità tecnologica e militare di Israele, che ha smesso si ritenere Hamas una minaccia temibile, nonostante le informazioni sul coordinamento avvenuto tra Hamas e Hezbollah, la Jihad islamica e rappresentati iraniani a settembre a Beirut, dopo il suo rappacificamento con il regime di Assad avvenuta a giugno 2022. Tutti segnali sottovalutati, se non ignorati, di un riallineamento regionale importante occorso negli ultimi due anni all’interno dell’”Asse della Resistenza”.

Tra gli “indiziati” per il sostegno – militare oltre che morale – ad Hamas c’è anche l’Iran: tra i tanti motivi potrebbe esserci anche la volontà di aumentare la propria sfera di influenza in Medio Oriente ai danni di Israele?

Si, la Repubblica islamica non è direttamente responsabile dell’attacco, è bene precisarlo, ma è molto probabile che ne fosse a conoscenza e che, ovviamente, lo approvasse a distanza. Questo perché Teheran è capace di giocare contemporaneamente su più piani: di negoziare un accordo diplomatico con gli USA (nell’agosto 2023) per il riscatto dei prigionieri americani detenuti nelle prigioni del regime in cambio dello scongelamento di fondi iraniani trattenuti da Washington, e contemporaneamente coordinare a livello regionale le 19 differenti milizie di cui dispone tra Siria, Iraq, Yemen, Libano e -appunto-Palestina, tutte sul suo libro-paga, per compiere operazioni destabilizzanti nella regione in modo da contrastare la “pax americana” degli Accordi di Abramo.

Certamente per l’Iran vi era l’obiettivo di sabotare il presunto “Accordi di normalizzazione” tra Israele e Arabia Saudita, che stentava a concretizzarsi ma che avrebbe potuto trovare un compromesso date le pressioni di Washington sui due partner e l’urgenza del Presidente Biden di incassare questo risultato entro il 2024, in vista delle prossime elezioni presidenziali USA.

Tuttavia, con questo attentato l’Iran ha anche ricordato agli USA di essere una minaccia temibile nella regione che non va sottovalutata né ignorata, un avversario con cui è possibile stringere alleanze tattiche, ma non strategiche (e, dunque, anche difficile arrivare ad accordi duraturi) data la divergenza di fondo sugli obiettivi regionali prefissi dalle due potenze e, nel lungo periodo, un elemento di forte destabilizzazione e un ostacolo sulla via della normalizzazione della regione con la creazione di nuovo equilibrio.

Quali Stati potrebbero essere coinvolti in un possibile allargamento del conflitto e che ruolo giocherebbero la Siria e il Libano in tal senso?

Non credo francamente che la Siria abbia i mezzi per sostenere una guerra contro Israele in questo periodo: il regime di Assad ha problemi e minacce interne più urgenti ai quali far fronte, e non è rientrato in possesso, a 12 anni dallo scoppio della guerra civile, di ampie zone del suo territorio, tra cui il nord-est che è di fatto indipendente e sotto controllo curdo, il nord-ovest nella provincia di Idlib che è ancora sotto controllo dei jihadisti e il nord dove la Turchia si è ritagliata un proprio stato cuscinetto direttamente amministrato da Ankara.

In più, il regime affronta una serie di rivolte e manifestazioni interne, – a cui per la prima volta hanno aderito anche gli Alawiti, ovvero il gruppo religioso a cui appartiene il Presidente Assad -, per il caro-vita, la siccità ma anche il collasso generale dello Stato e dei servizi pubblici.

Hezbollah, invece, potrebbe essere più facilmente coinvolto nel conflitto, insieme ad altre milizie sciite irachene: il gruppo conta un vero arsenale missilistico, stimato tra i 150.000 e i 200.000 razzi di lunga gittata e circa 40.000 miliziani, e costituisce dunque un avversario temibile per Israele, non perché l’IDF non sia in grado di fronteggiarlo, ma perché dovrebbe agire simultaneamente su due fronti, ripartendo equamente le forze, e soprattutto perché Hezbollah sarebbe in grado di mettere in seria difficoltà tutto il nord e il centro del Paese attraverso attacchi missilistici in grado di raggiungere Haifa e perfino Tel Aviv, in un momento in cui la popolazione del Sud è stata già evacuata per i continui lanci di razzi dalla Striscia di Gaza pur sotto continui bombardamenti.

Una situazione potenzialmente critica per la popolazione civile in Israele che non avrebbe più molto spazio dove rifugiarsi. C’è anche da dire, però, che Hezbollah non rischierà l’ingresso in guerra con leggerezza, perché gli equilibri interni al Libano e le relazioni con i partiti cristiani e sunniti sono già molto tese -data la mancata elezione del Presidente, osteggiata da Hezbollah- e, dunque, una scelta in tal senso comporterebbe inevitabilmente anche uno scenario di guerra civile interno al Paese dei cedri, già sull’orlo del collasso economico e istituzionale.

Capitolo mediatori: la Russia, la Turchia e l’Arabia Saudita si sono fatte avanti per favorire la de-escalation. Quali potrebbero essere i vantaggi che trarrebbero da questa situazione?

La Russia di Putin, generalmente equidistante nel conflitto israelo-palestinese, ha assunto in questo contesto una posizione maggiormente filopalestinese, allineandosi con le potenze arabe nella richiesta all’ONU di un immediato cessate-il-fuoco che avvantaggerebbe Hamas e ne garantirebbe la sopravvivenza non solo politica, che è scontata, ma anche militare (ad oggi sono stati uccisi circa 2000 miliziani ma Hamas ne conta circa 20.000, forse addirittura 27.000). La Russia ha, ovvio, tutto l’interesse che il conflitto si protragga il più possibile per deviare l’attenzione dal fronte ucraino. Turchia e Arabia Saudita, che si stavano riavvicinando ad Israele, vivono invece il conflitto come una deflagrazione che devono cercare di contenere il più possibile perché mina i loro rispettivi interessi nella stabilità regionale: tuttavia, entrambi non possiedono un forte peso negoziale, perché non confinano con la Striscia né finanziano Hamas. La Turchia può solo vantare di ospitare gli uffici politici di Hamas e attivare quella leva per fare un minimo di pressione sulla Resistenza islamica.

Incuriosisce il fatto che il presidente turco Erdogan non abbia scelto il sostegno netto alla Palestina preferendo il ruolo di mediatore: quali sono i motivi di questa scelta?

La Turchia era nel mezzo di un processo di riavvicinamento diplomatico ad Israele. Dopo 14 anni di aspre divisioni dovute all’episodio dell’eccidio compiuto dagli Israeliani nel 2010 sulla nave Mavi Marmara (ribattezzata “Gaza Flottilla”) che portava aiuti proprio nella martoriata Striscia di Gaza, Turchi e Israeliani avevano sospeso le relazioni diplomatiche, per riprenderle solo nel 2022, con la visita del Presidente Herzog ad Ankara.

I motivi di questo riavvicinamento diplomatico sono molteplici: in primis, Erdogan sembra volersi riappacificare con l’Occidente in questo suo terzo mandato, come dimostra anche la sua recente decisione di levare il veto all’ingresso della Svezia nella NATO, in secundis, Ankara e Tel Aviv condividono la stessa posizione strategica su due fronti importanti: la Siria, in cui sono entrambi occupati a contenere il regime di Assad, e l’Azerbaijan, a cui entrambi forniscono armi e intelligence nel conflitto che lo oppone all’Armenia.

Infine, vi sono importanti interessi commerciali a unire i due Paesi, come i giacimenti di gas off shore scoperti nel Mediterraneo e i negoziati sul tragitto di esportazione verso l’Europa: un dossier a cui Ankara è estremamente sensibile, ma che passa inevitabilmente attraverso un riavvicinamento con Israele e Egitto.

In Israele si è parlato di un governo d’emergenza, con tutti dentro: una soluzione del genere potrebbe dare più forza a Netanyahu dopo una stagione di aspre contestazioni per la riforma della giustizia? Quali potrebbero essere le ripercussioni sulla politica interna?

Si, avrebbe potuto, ma Netanyahu se n’è guardato bene e non ha voluto che forze a lui concorrenti e fortemente critiche del suo operato, come i partiti Yesh Atid e Israel Beitenu, attualmente all’opposizione ma che si erano dichiarati pronti a partecipare ad un governo di unità nazionale, entrassero nella maggioranza per creare un governo di unità nazionale. Ha aperto solo ad un ristretto “gabinetto di guerra” con l’inclusione dell’Unità Nazionale di Benny Gantz.

Il che significa che per Netanyahu la sua sopravvivenza politica nel dopoguerra -e la sua priorità di mantenersi al potere per salvarsi dai propri processi giudiziari- è sempre l’unico e fondamentale criterio di scelta del Premier, che non intende ammettere gli errori strategici che hanno condotto il suo governo a questo scenario drammatico di collasso delle istituzioni e dell’esercito e di profonda disaffezione popolare verso il governo, scaturiti da un anno di proteste, estremamente polarizzanti, contro la sua riforma giudiziaria illiberale e antidemocratica.

Da una parte il grande consenso nei confronti di Hamas da parte di una larga fetta del popolo palestinese, dall’altro una Knesset che ha visto entrare dopo le ultime elezioni membri della destra conservatrice: un netto inasprimento delle posizioni per israeliani e palestinesi. Era possibile già da questi segnali politici pensare a un’escalation?

Si, era assolutamente prevedibile. Come ha sostenuto correttamente il Segretario generale dell’ONU Antonio Gutierres ieri alla riunione del Consiglio di Sicurezza, “l’attacco di Hamas, per quanto non giustificabile, non è avvenuto nel vuoto, ma segue 56 anni di occupazione”. 56 anni di occupazione in cui, però, non è vero che Israele si attenesse allo status quo, perché la colonizzazione è proceduta in maniera progressiva e costante, andando ad erodere qualsiasi possibilità di un compromesso territoriale in Cisgiordania, creando un sistema di bypass roads per soli coloni che tagliano il territorio palestinese in differenti enclaves rompendo la continuità territoriale tra le città palestinesi ed insediando oltre 670.000 coloni.

In più, l’esistenza di Hamas forniva al Governo israeliano la giustificazione per posticipare il rinnovo di accordi negoziali tra le parti con la scusa che i Palestinesi non rappresentassero un partner ragionevole, che accettasse l’esistenza dello Stato ebraico. C’è allora da sperare che questa operazione possa avere un solo merito: eliminare Hamas come attore politico credibile, ovvero in grado di governare un territorio, restituendo il potere nella Striscia o all’OLP o ad un’Autorità Nazionale Palestinese in urgente bisogno di riforma e cambio ai vertici tramite elezioni pubbliche e nazionali, capaci di riunire tutti e tre i tronconi in cui è attualmente divisa la popolazione palestinese: Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est.

Tutto questo, però, sarà possibile solo alla condizione in cui gli Israeliani operino con intelligenza e azioni mirate per decapitare l’organizzazione di Hamas senza però più uccidere indiscriminatamente civili: una sorta di “grande operazione di polizia” nella Striscia e non una guerra, e soprattutto non raid aerei, che non possono distinguere tra civili e miliziani. E non è affatto scontato che l’attuale governo israeliano sia all’altezza di questo compito.

 

Francesco Fatone – Giornalista

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