Israele, governo di emergenza, unità di popolo

Tel Aviv – Il governo di emergenza nazionale, concordato mercoledì notte con Benny Gantz, leader del Partito di Unità Nazionale (PUN), che era parte dell’opposizione, è un atto di resa del premier Benyamin Netanyahu alle pressioni di un’opinione pubblica sempre più infuriata.

Gantz, ex ministro della Difesa ed ex capo di stato maggiore, è entrato come ministro senza portafoglio nell’appena formato gabinetto di guerra al fianco di Netanyahu e del ministro della difesa Yoav Gallant.  Comprenderà, in veste di osservatori e consiglieri, l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot (PUN) e il ministro per gli affari strategici Ron Dermer (Likud).

Si tratta di persone di provata esperienza, come esigeva il pubblico che così mostra una chiara sfiducia nelle capacità dei membri del governo formato da Netanyahu lo scorso dicembre. Un governo che è stato ora allargato includendovi, oltre a Gantz e Eisenkot, anche altri tre esponenti del PUN, con provata esperienza ministeriale. La loro voce, in questo modo, neutralizzerà l’ala di estrema destra della coalizione.

 

 

 

Si è convenuto inoltre che, per la durata della guerra, nessuna legge sarà approvata dalla Knesset che non sia attinente al conflitto. In altre parole, congelamento dell’altamente controversa riforma della giustizia. Al leader dell’opposizione Yair Lapid è stato riservato un posto nel gabinetto di guerra, se deciderà di farvi parte. Lapid ha finora condizionato la sua partecipazione al licenziamento dei ministri del Partito Sionista Religioso (PSR), voce dell’estremismo nazionalreligioso.

In questi giorni terribili, mentre sempre più penetra nella coscienza della gente, superandone l’iniziale incredulità, la consapevolezza sia dell’enormità della strage commessa dai terroristi di Hamas contro una popolazione civile indifesa sia del clamoroso fallimento iniziale di tutti gli apparati di difesa, di soccorso e assistenza, due immagini vengono da Israele. La prima, è la reazione patriottica ed eroica di un popolo che di botto ha ritrovato la sua unità. La seconda, è la totale incapacità del primo ministro Benyamin Netanyahu e del suo governo di comunicare con i connazionali così atrocemente colpiti nei loro affetti più cari.

Chi cercasse motivi di conforto li troverebbe nella reazione decisa e spontanea di masse di israeliani, che si sono subito organizzati per sopperire alle immediate necessità della popolazione colpita, davanti alla latitanza delle autorità responsabili, colte incredibilmente impreparate a un’emergenza di così vaste dimensioni. È quella capacità di improvvisazione e di arrangiarsi, abbinata alla fiducia nelle loro capacità, che costituisce uno dei punti di forza degli israeliani. Il patriottismo, in questo paese, è per molti ancora un valore che altrove sembra si sia dimenticato o si preferisca pudicamente nascondere.

Non c’è città o villaggio in questi giorni dove non si siano spontaneamente formati, su base volontaria, gruppi di cittadini per organizzare aiuti di ogni genere, un tetto provvisorio a chi è rimasto senza casa, animali domestici inclusi. Attività a cui partecipano, approfittando della forzata chiusura delle scuole (che riapriranno per lezioni via zoom solo domenica prossima), anche tanti ragazzi e ragazze che, al fianco di madri, nonne e zie, preparano i panini imbottiti e le tavolette di cioccolato, assieme ad altri articoli di prima necessità, come saponette, asciugamani e perfino mutandine, per alleviare le disagevoli condizioni di vita sul campo dei soldati. Alle persone le cui case sono state distrutte migliaia di cittadini hanno offerto ospitalità e un caldo focolare. I lunghi convogli di blindati e di automezzi militari che in questi giorni attraversano il paese in direzione di Gaza o del confine col Libano sono accompagnati dai battimani della popolazione, allineata sulle strade, tra uno sventolio di bandiere e manifestazioni di affetto. Gli aerei della El Al riportano dall’estero migliaia di riservisti impazienti di raggiungere le loro unità militari senza che nessuno glielo abbia imposto. Non risulta però che tra di loro vi siano anche i due figli del premier.

Anche la macchina dello stato ha finalmente cominciato a muoversi, seppure ancora troppo lentamente, rispetto all’urgente necessità di aiutare in tutti i modi una popolazione così barbaramente colpita nei suoi affetti. Tutto il paese è divenuto area a rischio, perché anche dal Libano ci sono stati isolati lanci di razzi e un’infiltrazione di terroristi, tre dei quali sono stati uccisi. Sono punte di spillo che tuttavia servono a tenere la popolazione, soprattutto nelle aree vicine al Libano, in stato di alta tensione e che, apparentemente, rientrano in una guerra psicologica condotta dagli Hezbollah libanesi e, verosimilmente, dietro le quinte dall’Iran. In questo tipo di guerra, anche l’orrore diventa uno strumento di propaganda. Così mentre Hamas cerca di mostrare un suo lato umano rilasciando il filmato di una madre con i suoi due bambini cui era stato permesso di mettersi in salvo nel giorno dell’attacco, dall’altra Israele fa abbondante uso delle immagini sconvolgenti della strage col chiaro intento di demonizzare Hamas e di stabilire un parallelo tra questo e i terroristi dell’Isis.

Gli israeliani hanno ora un nuovo eroe. È il presidente degli Stati Uniti Joe Biden il cui aperto e incondizionato sostegno allo Stato ebraico ha toccato qui una corda sensibile nel cuore di molti, abituati a vedere il loro paese soprattutto al centro delle critiche nei fori internazionali per la sua politica con i palestinesi. Non si rischia di sbagliare se si afferma che oggi Biden, se si candidasse a rimpiazzare Netanyahu, otterrebbe un consenso plebiscitario. Il segretario di stato americano Antony Blinken, giunto a Tel Aviv per ribadire l’appoggio degli Stati Uniti e per colloqui con Netanyahu, mentre visitava un centro di assistenza agli abitanti delle località attaccate da Hamas è stato accolto dai presenti col grido spontaneo e affettuoso “Iu-Es-Ei” (dizione in inglese di Usa).

 

 

 

Se Biden è il nuovo idolo, Netanyahu è invece al centro dell’obbrobrio. Questo primo ministro, che i troppi anni al potere hanno viziato abituandolo a identificare sé stesso con lo stato, come un nuovo Luigi XIV, sembra avere completamente perso il contatto con la realtà e la capacità di percepire gli umori della popolazione. Nelle sue rare pubbliche apparizioni appare sempre come fosse appena uscito dalla doccia, con gli abiti perfettamente stirati e nemmeno un capello fuori posto. Le sue dichiarazioni sono brevi, laconiche. Totalmente assente è quella empatia necessaria per motivare e dare una carica di patriottismo a un popolo sconvolto da una tragedia inimmaginabile. In altri tempi, quando era in vigore un diverso codice di onore, il responsabile di una catastrofe di queste dimensioni si sarebbe sparato un colpo alla tempia. Si può stare tranquilli. Non lo farà. Scaricherà invece su altri la colpa, come è sua abitudine. Ma non sfuggirà alla resa dei conti. La collera nel paese, ora appena repressa davanti alla priorità di proteggere lo stato, si manifesterà con veemenza una volta cessate le ostilità. I capi di accusa l’opinione pubblica li sta già preparando. La collera generale investe tutti i ministri di Netanyahu. In gran parte sono scomparsi come se li avesse inghiottiti la terra. Quei pochi che hanno osato mostrarsi per far visita negli ospedali sono stati ricevuti con urli di collera dagli astanti e sono stati costretti a battere in ritirata a capo chino. Un deputato del Likud, sorpreso a chiacchierare con amici in un caffè, come se questi fossero tempi normali, è stato preso a male parole da una passante.

Chi sta invece vivendo una tragedia personale è il capo di stato maggiore Herzi Halevi. Questo valoroso soldato e umanista, che ha anche una laurea in filosofia, mostra pure fisicamente l’intensità del dramma che sta vivendo, il rimorso e il senso di colpa per non essere riuscito a prevenire l’attacco contro il territorio nazionale. Gli occhi lucidi, le guance scavate e solcate da righe profonde che ne accentuano la magrezza, indicano l’interno tumulto. Halevi, ha affermato un commentatore, sa di essere colpevole e “sembra che ora ci voglia solo chiedere di lasciarlo combattere e vincere e noi gli diciamo: vai, combatti e torna vincitore. Dopo però togliti l’uniforme e sparisci per sempre dalla scena”. È ciò che tanti israeliani si augurano che succeda a Netanyahu: se ne vada in esilio assieme alla sua famiglia per mai più tornare. Ma forse la pena più pesante per Netanyahu sarà la sua perdita di credibilità e di prestigio internazionale.

 

Mario NanniDirettore editoriale

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