George Habash, storia della nascita di un terrorista. E della tragica metamorfosi da medico a macellaio

Alla fine di ogni guerra i soldati tornano a casa sperando che quello che hanno visto e fatto non rimanga con loro per sempre. Gli spettri sono però duri a morire: agitano il sonno, insanguinano la pace. È più facile vincere la guerra che avere ragione di un fantasma, dice un antico proverbio arabo.

Lo conosceva, forse, il dottor George Habash, fondatore del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, un’organizzazione terroristica che ha massacrato donne e bambini in nome della lotta al sionismo. Dalla sparatoria all’aeroporto di Monaco all’attentato nella sinagoga di Amburgo, dal massacro di Fiumicino sino alla bomba sullo Swissair: la lunga scia di sangue degli Anni Settanta e Ottanta porta la firma di un uomo che ha scelto il terrore come arma per dare libertà al suo popolo.

I delitti di un terrorista spietato, “robe da belve” anche secondo l’opinione dei palestinesi di Al Fatah, sono opera di un medico che prima del 1967 lavora in una clinica di Amman: uno che dorme in corsia, non si fa pagare le visite e compra le medicine ai poveri.

“Come può un uomo che ha speso il suo intero patrimonio per gli ultimi diventare un macellaio?  Cosa può provocare una simile metamorfosi?”, chiede Oriana Fallaci guardando il capo del Fronte di liberazione dritta negli occhi: “Cosa è successo nel 1967?”. Habash risponde, per una volta abbandonando gli schemi dell’analisi marxista, senza sovrastrutture: “Non fu un ragionamento, temo. Non fu Marx che già conoscevo. Fu un sentimento”. Le parole si fanno confuse, le frasi frammentate. “Venne il 1967…e loro furono a Lidda.. e non so come spiegarmi .. ciò che significa questo per noi… non avere più una casa, né una nazione, né qualcuno cui importi.. Ci costrinsero a fuggire… È una visione che mi perseguita e che non dimenticherò mai..”

 

 

 

 

Non è facile per nessuno, neanche per il terrorista Habash, giustificare come sia possibile abbandonare il camice da medico per indossare i panni del boia: “Tremila creature che se ne andavano a piedi… piangendo… urlando di terrore.. Le donne con i bambini in braccio o attaccati alle sottane..mentre i soldati israeliani le spingevano con i fucili. Loro cadevano per strada, spesso non si rialzavano più: terribile, terribile, terribile”. Siamo al tempo della “guerra dei sei giorni” quando Israele occupa la Striscia di Gaza, la Penisola del Sinai, la Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) e le Alture del Golan.

Habash, come tanti altri palestinesi, assiste impotente alle deportazioni forzate, alla violazione dei diritti umani, all’assassinio del diritto all’autodeterminazione di un intero popolo. A poco servono le risoluzioni ONU che impongono a Israele la restituzione dei Territori occupati, le truppe di Tel Aviv rimangono: armate fino ai denti. La violenza – come diceva Isac Asimov – diventa ultimo rifugio degli incapaci, mentre l’odio si trasmette di madre in figlio a ogni raid missilistico. Lo sapevano bene quei soldati dell’esercito israeliano che nel 2009 indossavano le magliette della vergogna: “Un colpo, due morti” con il disegno di un cecchino che punta sul pancione di una donna palestinese incinta; “Usa il preservativo”, con l’inquietante immagine di una mamma ed il suo bambino, che questa volta tiene in braccio morto; “Più è piccolo, più è difficile”, che non richiede altre spiegazioni.

Tutto questo mentre l’operazione Piombo fuso, sempre nel 2009, porta sulla testa della popolazione di Gaza bombe israeliane al fosforo bianco e proiettili al tungsteno: le vittime saranno 1203 di cui 410 bambini, morti con ferite e piaghe spaventose. Da allora la violenza è continuata, a ritmo sincopato, tra un razzo e una confisca, tra un raid e un attentato. Fino alla barbarie dei giorni scorsi quando i macellai di Hamas, organizzazione islamista di estrema destra al potere a Gaza, ha massacrato i ragazzi di un rave e sgozzato neonati in un kibbutz.

La reazione israeliana, con gli attacchi missilistici sui mercati, il blocco dell’acqua e i palazzi distrutti, sta facendo il giro del mondo insieme alle immagini delle madri palestinesi che piangono sui corpi senza vita dei loro figli. Tel Aviv non deve temere le piazze di Amman, le manifestazioni iraniane o le periferie di Parigi. Può anche fregarsene di molti suoi sostenitori critici che iniziano a mettere in discussione il doppio standard, come se i civili palestinesi valessero meno di quelli israeliani o ucraini.

Ma non può sottovalutare i mariti che raccolgono da terra le mogli uccise o i padri che giurano vendetta davanti ai cadaveri dei loro figli macellati dal piombo israeliano. È da lì che gli avvoltoi di Hamas reclutano nuovi martiri, è da lì che nasce il terrore di quei cittadini che a Tel Aviv ogni mattina, prima di uscire, salutano i figli come fosse l’ultima volta, è da lì che nasce lo strano caso del dottor George Habash.

 

Andrea Persili – Giornalista

 

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