Se la politica del doppio standard allontana la pace

Partecipava a molti festival musicali in giro per il mondo con il suo fidanzato messicano.

Era solare, aveva scelto per professione la sua passione: i tatuaggi.

Di Nicole Shani Louk, la ragazza tedesca trucidata dai terroristi di Hamas a soli 22 anni, rimane l’immagine di un corpo seminudo e con la gambe spezzate, portato via dagli agenti del terrore: la speranza di ritrovarla ancora viva, poi la tragica certezza di una esistenza troncata, tutta una vita da immaginare.

Di ciascuno ostaggio, nelle mani dei tagliagole dal 7 ottobre, conosciamo l’identità e i sorrisi, i sogni e le speranze. L’Occidente rivendica il primato della vita sulla morte, dando un volto alla sua umanità ferita. Dopo migliaia di morti nei bombardamenti su Gaza, i ministri degli Stati europei assicurano che i camion di aiuti hanno già attraversato il valico di Rafah, ripetono che il nemico non è la popolazione civile.

Tra le macerie delle case nella Striscia, più pungente dell’odore del fosforo bianco, c’è il miasma del doppio standard: quello che giudica il poema a seconda del poeta, gioca con l’abaco e riduce le vittime di un massacro a un puro fatto numerico. Ogni giorno il piombo israeliano uccide 420 bambini, le forze di difesa dello Stato ebraico massacrano decine di palestinesi bersagliando scuole e ospedali. Opinionisti da talk show proclamano il diritto di Israele a difendersi, ricordando la mattanza nei kibbutz dove i macellai di Hamas hanno sgozzato i bambini.

Nel campo profughi di Jabalia un raid israeliano ha ucciso almeno 50 persone, creando un cratere enorme, i medici dell’ospedale indonesiano di Gaza raccontano quello che hanno visto: “Qui arrivano con gli arti amputati, la testa squarciata, pezzi di cervello visibili. Un bambino che ha meno di un anno è irriconoscibile dal volto, ha la pelle danneggiata: ha perso tutti”.

Un asinello trascina un carro dove quei corpi sono ammassati senza più vita, senza mai aver avuto un nome. In sole tre settimane sono morti più bimbi di quelli che hanno perso la vita nei conflitti degli ultimi tre anni, ma le democrazie occidentali non parlano di crimini di guerra: è la “dura reazione israeliana”.

Le piccole creature di Gaza, ignorate da vive e avvolte da morte in una fascia bianca che copre anche il viso, continuano a non avere un’identità. Chiamarle per numero, anziché per nome, aiuta l’opinione pubblica a castrare l’empatia. Non ci sono giornali che le mostrano sorridenti prima dei massacri né articoli che raccontano che sogni avessero, cosa mangiassero, quale musica gradissero. Si tratta, almeno per i più progressisti, di vittime collaterali di una guerra voluta da Hamas.

Gli israeliani di estrema destra – basta andare a sbirciare qualche profilo Telegram – le chiamano terroristi di domani, nazisti in erba da potare perché la parte sana della società germogli. Lo sa bene l’artista israeliano, Moshiko Mor, che canta “chi è che non ha acqua, cibo e elettricità e vivrà nelle tende?” e la folla risponde in coro: “A Gaza”.

In data 12 ottobre sui social dei coloni israeliani spopolano video che prendono in giro gli abitanti della Striscia, rimasti senza acqua e Internet. Persino l’ex ambasciatore di Israele in Italia, Dror Eydar, afferma che “l’obiettivo è distruggere Gaza, questo male assoluto”. Filmati delle forze di difesa israeliane mostrano i cadaveri dei presunti miliziani palestinesi legati ai carri armati delle Idf e trascinati sulla sabbia. La disumanizzazione va avanti da tempo, ben prima del 7 ottobre, in un clima di apartheid dove sono tutti figli di Abramo in Israele tranne i palestinesi.

Nel 2021 il New York Times pubblica un documentario breve: “Mission Hebron”. Sei ex soldati israeliani raccontano le atrocità commesse nella città della Cisgiordania dove gli insediamenti dei coloni sorgono in pieno centro. Israeliani e palestinesi condividono lo stesso spazio ma non il medesimo diritto: i primi sono soggetti alla legge civile, i secondi a quella marziale. “È divertente sparare ai palestinesi”, racconta un militare israeliano.

Un altro parla del trattamento dei bambini: “Ne prendi uno a caso e gli punti una pistola addosso”. I soldati chiudono negozi a piacimento, umiliano le donne nei posti di blocco, fanno irruzione nelle case. Un membro delle Idf racconta: “Se apriamo il fuoco contro i palestinesi, i coloni ci offrono il caffè”.

L’obiettivo non è la sicurezza – in Cisgiordania non governano i mozzaorecchio di Hamas – ma incutere timore: spingere gli abitanti ad andarsene malgrado la legalità internazionale imponga a Israele di dover sloggiare da quei territori. A questo quadro di oppressione, lesivo del diritto internazionale, il segretario Onu, Antonio Guterres, ha fatto riferimento quando ha sottolineato l’importanza di “riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono arrivati dal nulla”.

Non era una giustificazione del terrorismo: era il racconto dell’oppressione. Ancora una volta il Pontefice, nell’intervista rilasciata al direttore del Tg1, Gianmarco Chiocci, ha sgombrato il campo dalla retorica dei buoni contro i cattivi, dell’unica democrazia dell’Occidente in guerra contro un popolo di terroristi, dello scontro di civiltà: “Sono entrati nei kibbutz e hanno preso ostaggi. Hanno ucciso qualcuno. E poi la reazione. Gli israeliani sono andati a prendere quegli ostaggi, a salvarli. Nella guerra uno schiaffo provoca l’altro”. “Uno forte e l’altro più forte ancora e così si va avanti” ha detto il Papa spiegando che la guerra è una sconfitta: “Servono due popoli due Stati”.

 

Andrea Persili- Giornalista

 

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