La gabbia politica. Prima impressione sul “premierato”

Il disegno di legge costituzionale “Introduzione dell’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia”, presentato dal Governo Meloni, riceverà dentro e fuori del Parlamento, e forse dal popolo nel referendum, tutta l’attenzione che merita.

Sarà vivisezionato dai politici e dai tecnici, che ne coglieranno le conseguenze, le implicazioni, le connessioni, senza tacerne, spero, il contorto italiano del testo. Però, trattandosi della modifica costituzionale che tocca il punto centrale delle istituzioni rappresentative e in breve della democrazia parlamentare, cioè la formazione del governo della Repubblica, merita una riflessione preliminare di filosofia politica perché il principio dei controlli e bilanciamenti, essenza del costituzionalismo liberale, ne viene intaccato seriamente, considerando pure la sciagurata riduzione del numero dei parlamentari, che chiamai Parlamento amputato.

Mi sovviene a riguardo un pensiero di Herbert Spencer del 1891: “Nient’altro che la lenta trasformazione della natura umana, per via della disciplina della vita sociale, può dare vantaggi e durevoli risultati. Un errore fondamentale che pervade il pensiero di quasi tutti i partiti è pensare che contro i mali siano possibili immediati e radicali rimedi. È possibile rimuovere le cause che acuiscono i mali; ed è anche possibile mutare la forma di un male in altra forma; e perfino – il che accade con frequenza assai maggiore di quanto comunemente si creda – aggravare i mali esistenti con gli sforzi che si fanno per prevenirli. Ma una cura immediata e radicale del male è assolutamente impossibile” (Spencer, Dalla libertà alla schiavitù, IBL Libri, 2016, pag.42).

 

 

 

 

Appunto così viene sorprendentemente prospettata dalla presidente Meloni la riforma del premierato (“la madre di tutte le riforme”), come una cura immediata e radicale alla instabilità dei governi italiani! Incidentalmente ricordo che proprio lei, presidente dei conservatori europei, avrebbe dovuto considerare che i conservatori britannici hanno cambiato (finora) tre primi ministri nella legislatura in corso. Virtù fondamentale della Costituzione britannica, che non esiste come Carta scritta, è considerata da sempre la flessibilità.

In teoria una legge della Camera dei Comuni, che rappresenta il vertice del potere politico del Regno Unito, può modificare l’assetto costituzionale, ma non accade perché i partiti se ne guardano bene in ossequio alle consolidate consuetudini costituzionali, la cui violazione potrebbe essere punita dal popolo nelle elezioni o sanzionata dal sistema giudiziario. I Britannici non eleggono il primo ministro ma conferiscono la maggioranza parlamentare ad un partito che sceglie nel suo seno il premier, sebbene prima del voto conoscano chi lo sarà perché in precedenza ha conquistato la presidenza del partito risultato poi vincente.

 

La “riforma Meloni” istituisce anche la possibilità di trasmissione della carica di presidente del Consiglio da un presidente eletto dal popolo a un presidente insediato dal Parlamento, purché “in collegamento” con il presidente eletto. Se il secondo presidente cade, il capo dello Stato è obbligato a sciogliere le Camere. Il rapporto fiduciario tra Parlamento e governo può essere interrotto con la mozione di sfiducia, ma lo scioglimento obbligatorio delle Camere ingessa le legislature e i governi per inseguire inutilmente un valore costituzionale che è relativo, non assoluto: la stabilità purchessia del governo, ad ogni costo ed anche a costo di sacrificare inutilmente un Parlamento appena eletto o eletto da un po’.

La riforma, i proponenti lo negano ma lo sottintendono fregandosi le mani, strappa il fischietto all’arbitro delle crisi, il presidente della Repubblica, che, rispetto al processo di formazione del governo, manterrà la casacca dell’arbitro in campo, ma di fatto i rigori li assegnerà il “VAR” dei partiti.

Come cura immediata e radicale alla instabilità del governo, il premierato “à la façon de madame Meloni” fallisce lo scopo anche sotto l’aspetto interdipendente del mero potere. Inclino a credere che, nonostante la forza politica conferitagli dall’investitura popolare, il presidente eletto sarà costretto ad un continuo braccio di ferro con la sua maggioranza perché privo del formale potere costituzionale di rimandare a casa i parlamentari. Infatti, rischia solo lui il posto. Per supremo paradosso, il secondo presidente, benché investito (soltanto) fiduciariamente dal Parlamento, sarà più forte del primo, perché ha in mano il formale e reale potere costituzionale di sciogliere, far sciogliere, le Camere. Già la minaccia indebolisce la forza dei parlamentari riottosi.

Dopo un anno di gestazione, anche a prima vista la “riforma Meloni” appare nondimeno bazzotta, tale che la maggioranza governativa ha davanti solo tre strade: abbandonare il testo negli archivi parlamentari, in analoga compagnia; predisporre un nuovo testo con un vero presidenzialismo ben congegnato; scegliere altri “modellini costituzionali” coerenti con l’assetto esistente.

 

Pietro Di Muccio de Quattro

 

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