“Grazie per aver detto che è un film di Barry Jenkins”. Il regista premio Oscar per Moonlight ha accompagnato a Roma la presentazione dei primi 39 minuti e 59 secondi – gli stessi della sua prima lettura del copione – di Mufasa: Il re leone, il live action Disney e prequel del classico d’animazione del 1994 dal 19 dicembre al cinema. Trench, giacca blu gessata, pantalone a costine blu, cravatta di maglina a righe rosso vinaccia e giallo, montatura degli occhiali rotonda e un paio di stivali texani ai piedi. Barry Jenkins pronuncia qualche parola in italiano per ringraziare i giornalisti presenti per vedere il frutto del suo lavoro lungo quattro anni. La storia, rievocata attraverso i ricordi di Rafiki e l’uso dei flashback, racconta la leggenda di Mufasa. Un cucciolo di leone orfano, perso e solo fino a quando non incontra Taka, erede di una stirpe reale. L’incontro tra i due darà vita ad un legame fraterno che sarà messo a dura prova dagli eventi della vita e un nemico minaccioso.
Questione di libertà
Quando Disney annunciò Barry Jenkins dietro la macchina da presa molti furono i commenti sul web di utenti convinti che il regista sarebbe stato solo un burattino senza nessuna libertà narrativa e decisionale. Lo stesso Jenkins rispose di suo pugno a dei tweet che sollevavano queste perplessità. Anche se la proposta di dirigere il live-action, all’inizio, spiazzò pure lui. “Non capivo perché la Disney voleva che lo dirigessi io. Il regista di Moonlight come poteva essere la persona giusta? La prima volta ho detto ‘no’ senza neanche aver letto la sceneggiatura”, confida il regista. “Ma mia moglie (la regista Lulu Wang, ndr), mi ha detto che sarebbe stato infantile da parte mia rifiutare senza consentirmi di prendere in considerazione l’idea. Ho iniziato a leggere lo script, mi sono girato verso di lei e le ho detto: ‘C’è qualcosa di speciale’”.
Basta guardare Mufasa: Il re leone per rendersi conto che non solo la scelta di chiamare Barry Jenkins sia stata vincente, ma che il regista è riuscito a trasferire la sua poetica ed alcuni tratti caratteristici della sua regia – basta pensare ai suoi primi piani diventati un marchio di fabbrica – all’interno della pellicola. “Ho pensato che poteva diventare un mio film con tanto lavoro. Il team degli effetti speciali è stato molto generoso con me, dovevo cercare di capire come potevo far funzionare quel processo nel mio modo di lavorare”, ricorda il regista. “Avevo bisogno delle persone con le quali collaboro: il direttore della fotografia James Laxton, la montatrice Joi McMillon e lo scenografo Mark Friedberg. Hanno catturato, organizzato e riempito le immagini. Abbiamo capito che potevamo piegare quegli strumenti alla nostra volontà”.
Le regole del destino
Jenkins non smette mai di citare il suo fedele gruppo di lavoro, film dopo film. È anche grazie a loro che il suo cinema ha preso vita e in una manciata di titoli è riuscito ad imporsi nella cinematografia globale. Anche se diventare regista non era il suo primo desiderio. L’obiettivo era quello di laurearsi in scrittura creativa e seguire i passi di James Baldwin. Ma, a volte, il destino segue regole e percorsi tutti suoi. Quando la Florida State University interrompe uno dei corsi del suo indirizzo di laurea, Jenkins decide di sostituirlo con un corso di cinema. È lì che scopre alcune delle sue stelle polari, da Wong Kar-wai a Claire Denis. Dopo la laurea – e due corti, My Josephine e Little Brown Boy – si trasferisce a Los Angeles per tentare la strada del cinema.
Lì si rende conto che non sempre i piani nella nostra testa si sviluppano come ce li eravamo immaginati. Jenkins si ritrova a lavorare come assistente di produzione per la società di Oprah Winfrey. Ma l’esperienza era ben lontana da quello che sentiva di voler fare. Disilluso fa le valigie, sale su un treno e gira gli Stati Uniti per un anno. Si ferma a San Francisco dove finisce a lavorare per Banana Republic e si fa spezzare il cuore da una donna. Da quell’esperienza ne esce realizzando il suo primo lungometraggio, Medicine for Melancholy. Un budget da 15 mila dollari e la medaglietta di membro della scena mumblecore (movimento americano di cinema indipendente nato all’inizio degli anni 2000, ndr).
Dai corti alla falegnameria
Se si guarda alla sua filmografia salta agli occhi il lungo lasso di tempo intercorso tra il suo esordio e il secondo lungometraggio, Moonlight. Otto anni nei quali Barry Jenkisn ha fatto un po’ di tutto: scritto sceneggiature e autoprodotto cortometraggi, fatto il falegname, co-fondato una società pubblicitaria, scritto degli episodi di The Leftovers, diretto un episodio di The Knick, accompagnato il pubblico in sala al Telluride Film Festival. È qui che incontra Steve McQueen, regista di 12 anni schiavo, ed entra in contatto con Plan B, la società di produzione di Brad Pitt che legge la sceneggiatura di Moonlight e la condivide con A24, all’epoca alla ricerca del suo primo film da produrre.
Il resto, direbbe qualcuno, è storia. Nel 2017 il film – tratto dal romanzo In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraney, con più di un tratto autobiografico con la vita di Jenkins – vice l’Oscar come miglior film togliendo, letteralmente, la statuetta dalle mani di Damien Chazelle e il suo La La Land. Lo stesso anno Time lo inserisce nella lista delle 100 persone più influenti al mondo. E la storia di Chiron, un ragazzo afroamericano omosessuale alla ricerca del suo posto nel mondo, paradossalmente, parla con Mufasa: Il re leone.
Mufasa, un leone “autobiografico”
“In Moonlight il protagonista si sente orfano, attraversa la vita cercando di costruirsi il suo mondo e riesce ad accettare di essere degno di amore. Potrei descrivere Mufasa allo stesso modo. Sono rimasto scioccato dalle similitudini, specie a livello personale”, sottolinea Jenkins. “Inoltre mia mamma è morta mentre stavo realizzando il film e non mi sono reso conto che mi stava preparando al trauma di quell’esperienza. Qualcuno mi ha detto che dovresti essere in grado di prendere un film, metterlo su una parete e indicare il punto della tua vita in cui ti trovi. Potrei farlo con Mufasa e i mei lavori precedenti”.
Dopo l’Oscar il regista inizia la produzione di Se la strada potesse parlare, film tratto dal romanzo di James Baldwin e nel 2021 firma un altro adattamento per Prime Video. Quello de La ferrovia sotterranea, romanzo di Colson Whitehead che segna la sua prima incursione sul piccolo schermo (mentre già ha dichiarato che il suo prossimo progetto sarà il biopic su Alvin Ailey, ballerino e coreografo afroamericano).
Un cinema di una bellezza visiva abbacinante con una sua forte componente sociale e politica. E, a suo modo, anche Mufasa: Il re leone si inserisce in questo solco. Lo fa parlando di eredità e potere. Ma anche di sogni. Come quelli da cui la madre di Mufasa dice al figlio di lasciarsi guidare.
Le scelte che facciamo
Alla luce delle recenti elezioni statunitensi, quali sono i sogni che Barry Jenkins spera seguirà il suo Paese? “In uno degli incontri fatti in questi mesi qualcuno mi ha chiesto se volevo che le persone uscissero dalla sala pensando che Taka fosse cattivo o un essere vivente complesso”, ricorda il regista. “L’unica ragione per cui ho fatto questo film è mostrare i personaggi come tali. Per un film tradotto in molte parti del mondo è importante mostrare questa complessità e che sono le scelte che facciamo e le condizioni in cui viviamo a dettare gli accadimenti. Vale anche per i nostri Paesi”.
A guardare a ritroso il percorso fatto da Jenkins, composto da esperienze diverse, cambi di itinerario e pause, viene in mente proprio una frase pronunciata da uno dei personaggi del live-action: “A perdersi s’impara la strada”. “Vengo da un luogo molto duro. Mai mi sarei immaginato di girare il mondo per parlare di Mufasa: Il re leone. Eppure eccomi qui”, ammette il regista. “Da bambino pensi: ‘Non potrò mai essere un re’. A volte devo tornare al vecchio me e dirmi che non era impossibile. Mi devo ricordare che nulla lo è”.
Manuela Santacatterina – Giornalista