Ma da quand’è esattamente che la nostalgia è diventato il parametro vitale per misurare le aspirazioni di una società? Si parla naturalmente di questo povero Occidente, che si è trasformato, etimologicamente, in Occaso (e occasione) delle aspirazioni nostalgiche più varie e (poco) fantasiose.
Nostalgico è Donald Trump. Non facciamoci gabbare dal lato tech-futurista col muso di Elon Musk, il Make America Great Again non solo è già stato enunciato in forme poco diverse da Bill Clinton e Ronald Reagan, ma è pura nostalgia, identitaria e passatista.
Ed è anche perfetta impossibilità, dal momento che gli imperi non si dismettono, e le rust belt non si trasformeranno per dirla con i Guns ’n Roses nelle città del paradiso “dove l’erba è verde e le ragazze sono belle”. Ma è nostalgia anche quella di chi afferma in modo retromaniaco una vaga grandezza europea in opposizione a Trump e Putin, e magari piazza nei post citazioni e foto sgranate o b/n di Churchill, della Thatcher (come degli italiani possano avere il culto religioso di pur stimabili dirigenti britannici resta un Grande Mistero buffo, ma vabbè) o dello stesso Reagan.
Potrebbero citare direttamente Giulio Cesare se non si rischiasse il contrasto con Asterix.

Non solo politica, la nostalgia è in tutte le forme di rappresentazione
Ma la condizione nostalgica non si ferma alla politica. Il film, o meglio il flop, di cui si è parlato nelle scorse settimane è un remake di Biancaneve, e al di là dei contenuti è uno dei centomila remake su cui ormai si fonda in modo stabile (e nostalgico) buona parte della produzione cinematografica, da Hollywood in poi.
La nostalgia si insinua per mille canali, mille nicchie, mille scroll sull’infinito menù delle piattaforme, dalla nostalgia di carbonara della nonna a quella del suono di chitarra dei Pink Floyd.
Nostalgie anche “prenatali”, anzi meglio se prenatali. Tra antiquariato e modernariato funzionano perché evocano e incanalano i desideri tenendoci al riparo dalla realtà. Rassicurano senza un vero confronto, perché sono inattingibili per definizione. Sono non-luoghi proiettivi.
Grafton Tanner, la nostalgia come malattia
Lo racconta e lo spiega bene Grafton Tanner, sociologo americano di scuola Mark Fisher in un bel libro, Nostalgoritmo. Politica della nostalgia (Tlon). Tanner spiega il come e il perché la nostalgia sia diventata il miglior dispositivo di marketing, anche politico, per i tempi incerti. E come mai il mondo tecnologico sia una strana mistura, ma molto efficace, di tensione in avanti accelerazionista e contenuti retrò, nostalgici. «Sul finire del xvii secolo -scrive Tanner-, lo studente di Medicina svizzero Johannes Hofer ha coniato il termine “nostalgia” per indicare un intenso desiderio patologico rivolto alla propria patria. Mentre oggi pensiamo alla nostalgia come a un’emozione, Hofer la considerava una malattia».
Ecco, se l’antichità guardava alla Grande Narrazione essenzialista, la modernità alla Grande Narrazione emancipativa, la postmodernità al fatto che le grandi narrazioni sono ormai impossibili, l’epoca contemporanea (ipermoderna) guarda alle grandi narrazioni irraggiungibili un po’ illudendosi, nostalgicamente appunto, di raggiungerle. Magari in modalità autobiografiche, con il cuore un po’ infranto e una lacrima sul viso. Magari evocando demoni sociali e di potenza in foggia anacronistica. Ecco, in fondo, questa non è, avrebbe detto il buon Hegel, “coscienza infelice?”